Quale democrazia?

Pubblicato il 24 luglio 2014, da Politica Italiana

Ritorno sulle riforme costituzionali in esame al Senato. Perché vedo un dibattito molto legato a preconcetti e pregiudizi. Si confonde la riforma del Senato con la legge elettorale, si parla solo delle modalità di elezione dei senatori senza guardare nessun’altro dei rilevanti aspetti della riforma che miglioreranno gli assetti istituzionali. In ogni caso per tutti i critici non si dovrebbe cambiare nulla. Anche coloro che sono stati eletti per cambiare tutto.

Che è uno dei più rilevanti difetti italiani, che coinvolge la politica, i media, gli intellettuali, le aspettative degli elettori. Parlare tanto, ma poi se si arriva al dunque temere il cambiamento.

Dice un rappresentante del M5S, di fronte a 3 emendamenti approvati in un giorno: “Questa è la democrazia”. Lasciamo stare le penose osservazioni di un’altra pentastellata che non si può lavorare nei fine settimana perché deve andare a messa e la proposta del voto segreto dopo averlo additato sui blog come uno degli aspetti criminali del parlamentarismo. Ma questa non è la democrazia. E’ la patologia della democrazia e del parlamentarismo. Quella patologia (un parlamento incapace di decidere) che è stata alla base di gravissime crisi costituzionali nei paesi europei e che genera un pericoloso qualunquismo antiparlamentare.governorenzi

In ogni caso nel merito per chi vuole approfondire consiglio la lettura del Documento predisposto dal Gruppo PD del Senato (Nota illustrativa AS 1429-A), che offre una buona sintesi dei contenuti del progetto di riforma. Poi si può criticare anche duramente, ma almeno farlo nel merito delle cose esistenti. Come ha fatto ad esempio sul mio blog Pierluigi Petrini: criticare nel merito, con argomentazioni.

Dalla lettura si potrà comprendere che il Senato non avrà affatto compiti residuali, restando il processo legislativo bicamerale per una serie importante di leggi: quelle di revisione costituzionale, quelle sui trattati europei, quelle fondamentali sul sistema delle autonomie locali e sulla legislazione elettorale regionale, oltre a quelle in cui la Costituzione prevede una riserva di approvazione da ambedue le Camere, Resta inoltre la possibilità del Senato di richiamare la legge approvata dalla Camera proponendo alla Camera delle modifiche. Per una serie di materie se la Camera non accoglie le modifiche occorre una votazione a maggioranza assoluta.

E’ prevista poi la soppressione del CNEL, un inutile carrozzone dispensatore di gettoni di presenza e di consulenze, cosa di cui si parlava da molto tempo senza mai arrivare al dunque.

Si interviene in modo più razionale sulla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, ponendo rimedio all’esplosione del contenzioso tra Stato e regioni generato da disposizioni imperfette del titolo V della Costituzione e reintroducendo il principio del federalismo differenziato.

Si eliminano le Province dal novero degli enti costituzionali, premessa necessaria per la loro soppressione.

Si migliora il procedimento di partecipazione popolare, sia ponendo un termine certo per l’esame da parte del parlamento dei disegni di legge di iniziativa popolare, sia rivitalizzando l’istituto del referendum abrogativo: innalzando il numero delle firme (ma occorre ricordare che rispetto al momento della fissazione di 500.000 presentatori è enormemente aumentata la popolazione e che la rete permette mobilitazioni anche a chi non ha strutture organizzative capillari) ma fissando per la validità il quorum molto più basso della maggioranza degli elettori alle ultime elezioni.

Tutto questo non serve, tutto questo è inutile, tutto questo è un attentato alla democrazia?

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2 commenti

  1. Pierluigi Petrini
    24 luglio 2014

    Caro Paolo, avevo molte remore nel contraddirti sul tuo blog data l’amicizia e la stima che ci lega. Ma poiché tu mi provochi provo a farti da contraltare. Se non altro capiremo perché culture e sensibilità affini come le nostre si trovino su fronti opposti. Nel merito. Tu ci inviti a non far confusione tra riforma costituzionale e legge elettorale, ma le due cose si tengono strettamente fra loro. La legge elettorale proposta dal governo e privatamente pattuita al Nazareno, ripercorrendo la logica già affermata dal “porcellum”, ha la finalità di creare ad ogni costo una maggioranza di governo nel nome di una governabilità che si realizzerebbe non nella capacità di cercare soluzioni, ma nel potere d’imporre decisioni. La sera stessa delle elezioni gli italiani, felici, sapranno chi li governerà. Vent’anni di diseducazione istituzionale e di travisamento della Costituzione, infatti, li hanno irrevocabilmente convinti che l’essenza della democrazia sia nella scelta del capo piuttosto che nel controllo del suo potere. Chi vince, dunque, comandi (ammesso che sappia cosa fare), chi perde si sottometta. Amen. Questa rozza semplificazione comporta la conseguenza che le elezioni saranno sempre più orientate non a eleggere il parlamento, ma il capo del governo, a cui porteranno in dote una congrua maggioranza parlamentare. Le campagne elettorali, quasi totalmente monopolizzate e condizionate dai media televisivi, si giocheranno sulla contrapposizione tra i leader candidati, mentre i parlamentari, imposti in liste bloccate, brilleranno solo di luce riflessa come portavoce della loro leadership. Il legame degli eletti con il territorio sarà sempre più evanescente, quello con il capo, da cui dipendono le loro future sorti, ferreo. Ogni espressione di dissenso sarà in odor di tradimento, essendo imperativo il mandato ricevuto come riflesso della consacrazione popolare del leader. Il rapporto gerarchico tra governo e parlamento viene così ribaltato. E’ il capo del governo a legittimare il parlamento e non viceversa, al punto che alla eventuale decadenza dell’esecutivo verrà posta in dubbio la legittimità dell’assemblea a cercare nuove maggioranze e nuove leadership. Già i governi Monti e Letta sono stati ripetutamente tacciati, anche da autorevoli commentatori, di una legittimità spuria non avendo avuto nessuna investitura popolare. E Renzi, che aveva giurato che mai sarebbe asceso a palazzo Chigi senza un consenso elettorale, cerca rimedio alla sua incoerenza e alla sua opinabile legittimità invocando l’investitura ottenuta con le primarie. Si va così realizzando, in conflitto con la natura parlamentare della nostra costituzione, un presidenzialismo occulto che assume i caratteri dell’iperpresidenzialismo, dal momento che nel presidenzialismo correttamente inteso il Parlamento ha una sua autonoma legittimazione che gli garantisce poteri di controllo e d’interdizione nei confronti dell’esecutivo. Questa drammatica frattura fra la Costituzione formale e quella materiale rende fragile e opinabile tutto l’impianto istituzionale, trovando certezza solo nella legittimazione elettorale del capo di governo. E qui sta il punto d’incontro fra legge elettorale e riforma costituzionale. La riforma del bicameralismo, seppur a mio avviso criticabile nella sua configurazione, non sarebbe di per sé foriera di stigmate autoritarie se non stabilisse il devastante precedente per cui qualunque leader consacrato dal consenso popolare e che abbia rimorchiato in Parlamento una “sua” maggioranza, potrà mettere mano alla Costituzione, trovando all’occorrenza abbondanti giustificazioni logiche nello scollamento a cui è stata sottoposta. Potrà variare la forma di governo, decidendo delle proprie attribuzioni e ridisegnare tutti gli istituti di controllo. Potrà variare la composizione e le modalità di elezione del CSM portando sotto il controllo della politica le carriere e i procedimenti disciplinari dei magistrati. Potrà, senza mediazione alcuna, infarcire dei vari Ghedini o Violante quella occhiuta Corte Costituzionale, che tanti fastidi ha regalato alla politica,. Il Presidente della Repubblica potrà iniziare il suo discorso d’insediamento ringraziando il Presidente del Consiglio per averlo designato. I partiti, privi di ogni finanziamento pubblico, si ridurranno a comitati elettorali finanziati dal leader al servizio del quale si pongono, ovvero dalle lobby economico-finanziarie che lo sostengono. Il premier non dovrà invece preoccuparsi di ricondurre al proprio controllo le cosiddette autority. E’ un lavoro già fatto in partenza. Questo è il devastante quadro che io intravvedo. E il mio pessimismo è accresciuto dall’ostinazione e dalla fretta con cui si vuole imporre una riforma che entrerà a regime nel 2018 quando ormai i veri problemi che affliggono le famiglie italiane dovrebbero, augurabilmente aver trovato soluzione. In un regime bicamerale perfetto e con un governo di coalizione.


  2. Paolo
    25 luglio 2014

    Caro Pierluigi,
    ti ringrazio per queste osservazioni che mi consentono di chiarire meglio il mio pensiero. Concordi con me che la riforma del Senato, ancorchè discutibile, in sé non comporti alcun stravolgimento degli assetti costituzionali. Mi è naturalmente chiaro il legame tra ruolo e funzione del parlamento e legge elettorale con cui il parlamento viene formato, tuttavia chi voterà la riforma del Senato non compie alcun atto di stravolgimento dei principi costituzionali generali. Mi dici che può costituire un pericolo precedente. Sono d’accordo che non si devono banalizzare le modifiche costituzionali, ma non mi sembra che siamo un paese con una costituzione tirata da tutte le parti. Da quando è stata approvata l’unica sostanziale modifica è stata quella del titolo V (fatta male, tanto che ora si correggono alcuni errori). In ogni caso restano le procedure rafforzate per la modifica della Costituzione (due terzi o referendum confermativo da parte dei cittadini.
    Perciò anche con la nuova legge elettorale, ammesso che sia mai approvata così come è stata proposta, non è affatto vero che il leader diventi un padrone assoluto in grado di modificare a suo piacimento la Costituzione, perché comunque il premio di maggioranza, ancorchè per me smodato, non gli consentirebbe mai di avere in parlamento i quorum necessari per modificare la Costituzione.
    Non è che non veda i rischi che tu paventi, di una deriva presidenzialistica, di una scarsa avvertenza dell’importanza in una democrazia matura di un equilibrio tra i diversi poteri. Questi sono i frutti di un indebolimento della vitalità democratica (crisi della rappresentanza e dei partiti, inefficienza delle istituzioni, scarsa fiducia nella politica, bassa partecipazione al voto, corruzione…). Tuttavia questa crisi si è formata con le regole attuali, non possiamo pensare che si superi paventando ogni cambiamento. Una buona democrazia deve sempre correre su due binari, quello della governabilità e quello della capacità rappresentativa. Premi di maggioranza molto ampi possono garantire la governabilità in Parlamento, ma escludono dalla rappresentanza molti elettori. Questo è il vero punto che mi ha sempre lasciato molto scettico sulla illusione che la legge elettorale possa sostituirsi alla capacità di convincimento della proposta politica.
    In ogni caso grazie delle riflessioni


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