Europa della crescita, Europa dell’austerità

Pubblicato il 5 settembre 2014, da Politica Italiana

Incontro con Stefano Fassina, Padova, Festa del PD Futura, 4 settembre 2014

Il titolo del dibattito da giustamente conto di due polarità su cui si è sviluppata la riflessione sulle responsabilità dell’Europa, tra “rigoristi” e “sviluppisti”. Occorre evitare che questa polarizzazione si irrigidisca in due estremismi concettuali, che non servono a nulla. Da un lato i fedeli del rigore dei conti come unico strumento, adoratori di una religione prima ancora di una ideologia, tetragoni nella loro fede nonostante l’evidenza dei risultati. Tra l’altro vorrei ricordare che l’espressione “austerità” è stata usata con ben latra prospettiva da Enrico Berlinguer, ad indicare la via per una società più giusta ed uno sviluppo umano prima che economico.

Dall’altro coloro che pensano che in realtà tutto è dovuto alla perfida Europa, e che in fin dei conti se l’Europa non ci fosse tutti starebbero meglio.

No, noi che siamo per l’Europa della crescita diciamo che l’Europa, in un mondo comunque globalizzato, è in ogni caso la soluzione e non il problema, e semmai pesano di più le cose che l’Europa non ha saputo fare piuttosto che le imperfezioni delle cose fatte.euro

C’è un elemento centrale che spesso viene trascurato nel dibattito. Non siamo di fronte ad una parentesi congiunturale, ma siamo ad un punto di svolta della Storia.

Son quei punti che richiedono una discontinuità. Possiamo ricordare quello che Paolo scriveva ai Romani, nel I secolo dopo Cristo. Una comunità cristiana nata nel centro del potere imperiale, in cui più forte poteva essere la tentazione della continuità. Paolo scrive: “lasciatevi trasformare, cambiando il vostro modo di pensare”. A proposito d’Europa sono stati capaci di pensare il modo di pensare De Gasperi e Schumann, che sulle macerie della seconda guerra mondiale non ricostruiscono l’Europa dei nazionalismi, della vendetta dei vincitori ma una nuova comunità che voleva essere spirituale prima che economica. Altrettanto ha fatto la generazione dei Kohl e dei Mitterand, fino a Prodi. Hanno saputo immaginare un futuro diverso. Quando hanno scelto la sfida dell’euro ben sapevano che era solo un primo passo, ma sapevano che era irreversibile, e pensavano che i loro successori avrebbero avuto lo stesso coraggio avuto da loro nel vincere diffidenze delle opinioni pubbliche e dei mercati per completare il disegno: dalla moneta unica alle politiche fiscali ed economiche comuni.

Siamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto lunga, ma piuttosto alla rottura di un meccanismo che ha assicurato un lungo e fecondo ciclo di sviluppo, che si era basato su tre pilastri. L’innovazione tecnologica ed organizzativa, di prodotto e di processo, per sfornare sul mercato beni crescenti a prezzi calanti, il mercato come spazio di una espansione crescente del consumo perenne alimentatore del ciclo economico, e la democrazia, come essenziale funzione re distributrice  e costruttrice di sicurezze sociali.

Questo ciclo si chiude di fronte a due fallimenti. La fine del mito della crescita infinita, alimentata dal ciclo della costante espansione dei consumi, senza vincoli e limiti, fino all’estremo sconnettersi dell’economia reale da quella finanziaria. La fine del mito della crescita come accesso illimitato per tutti a sempre nuove opportunità, che si infrange sugli scogli di un enorme aumento delle disparità ed una crescita della disoccupazione.

Quando leggiamo che nell’area euro la disoccupazione strutturale è al 9% ne dobbiamo comprendere a fondo il significato. In parole semplici la disoccupazione strutturale è quella che non verrebbe riassorbita neppure in presenza della ripresa del ciclo economico. Aumenta cioè una quota di persone inoccupabili, per la mancanza di domanda o per la mancanza di professionalità necessarie.

Non è questa la sede di un approfondimento di questo punto, ma certo ormai sono numerosissimi i saggi di economisti, sociologi, antropologi che indicano la natura della crisi e le possibili strade per una uscita. E’ mancato finora l’imprenditore politico capace di trasformare queste suggestioni in progetto politico.

Dunque non si tratta semplicemente di immettere un po’ di risorse pubbliche perché il ciclo economico riparta. Bisogna fare anche questo ma la sfida è più ardua.

Intanto: la politica monetaria (artefice l’ostinazione positiva di Draghi) ha fatto pressoché tutto quello che poteva fare, anche oltre gli standard ordinari della BCE: con tassi ormai vicini allo 0 e deflazione al posto del mostro temuto ed ingigantito dell’inflazione. Si parla molto di restrizioni del credito, di imprese senza ossigeno. Poi si leggono i dati pubblicati dai gestori del risparmio. Nei primi 6 mesi del 2014 hanno raccolto la stessa somma (60 miliardi) raccolta in tutto il 2013. Se va così a fine anno gestiscono una somma pari al 10% del PIL nazionale. Viene da dire: i soldi ci sono, ma non vengono investiti nel sistema produttivo per una grande mancanza di fiducia.

Gli stati non possono più fare molto per stimolare la domanda aggregata. Perché si può ottenere anche più flessibilità nella gestione del debito, ma il debito poi bisogna pagarlo, ed occorre che ciò che si spende in più sia veramente in grado di assicurare una maggiore crescita, che è la chiave della sostenibilità del debito. Bisogna sempre ricordare che oltre il 50% dell’aggiustamento dei conti è stato garantito dalla diminuzione dei tassi d’interesse. E a questo fine sono servite perciò molto di più le dichiarazioni di Draghi sulla disponibilità della BCE ad usare tutte le armi per estirpare la speculazione finanziaria delle faticose politiche di rientro attuate dai singoli stati.

Gli stati non hanno più la sovranità monetaria, ma anche se l’avessero sarebbe una debolezza e non una forza, rispetto alla dimensione di una finanza globalizzata.

Bisogna perciò giocare fino in fondo la partita in Europa, quello è il livello di un grande progetto per la crescita della domanda aggregata per l’avvio di un nuovo ciclo di sviluppo. Chi ha di più deve e può dare di più, più per sé stessi che per gli altri (come dimostra il rallentamento tedesco). Chi ha meno deve fare la propria parte per l’innalzamento dell’efficienza del proprio sistema economico. Gli strumenti ci sono per alimentare un progetto ambizioso: con risorse fresche e con la capacità di raccogliere denaro con la garanzia europea.

Spesso ricorriamo in questo periodo di crisi alle suggestioni del New Deal di Roosevelt. La capacità di affrontare una crisi globale con un cambio di paradigma. La storia economica del new deal rooseveltiano è un po’ diversa dalla vulgata corrente. Perché la verità è che comunque la crescita restò stentata per molti anni e solo il grande ciclo economico avviato con la mobilitazione della seconda guerra mondiale aprì il ciclo, su basi solide, della grande espansione post bellica. Però dal punto di vista politico i risultati furono immediati su due piani: una fortissima iniezione di fiducia nel potercela fare, nel non lasciare indietro nessuno e una grande mobilitazione delle migliori energie del paese a servizio di un grande disegno.

Venendo a oggi e anche a qualche polemica che ritorna nel dibattito interno al PD. Renzi ha pienamente assolto al primo compito: una grande iniezione di fiducia, la promessa del poter cambiare verso, di potercela fare. L’opinione pubblica risponde, con il voto alle Europee, con il permanere nonostante le difficoltà oggettive di un rapporto di consenso, testimoniato da tutte le rilevazioni demoscopiche.

Meno vi è stata finora l’idea di una grande mobilitazione di tute le energie del paese. E’ apparsa semmai piuttosto una gestione solitaria della leadership. Io credo che il giusto richiamo di Renzi sulla fase del passo dopo passo (quindi non più la guerra lampo ma il passo sicuro e continuo dell’alpino) richieda questa capacità di mobilitazione collettiva. Nona vendo paura delle critiche fondate ma utilizzandole per migliorare, associando tutto ciò che è associabile a questa sfida così impegnativa, che ci riguarda tutti.

 

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