La speranza nella dimensione civile

Pubblicato il 21 ottobre 2014, da Cattolici e società,Relazioni e interventi

Si è chiamati anche a parlare fuori dallo stretto circuito politico. Riporto qui alcuni appunti di un incontro a Villa Immacolata. Una cinquantina di presenti attenti e con voglia di apprendere. Cosa che non sempre accade alle riunioni politiche…

Esercizi Spirituali dei Vicariati dell’Arcella-Torre e Stanghella, Villa Immacolata, 15 ottobre 2014

Il mio compito è quello di integrare la splendida riflessione sulla speranza cristiana che ci ha fatto Don Federico, con parole così persuasive, semplici ma nello stesso tempo profonde, con la capacità di andare al cuore dei problemi.

La integro con un piccolo contributo sul tema della speranza nella sua dimensione civile. Perché viviamo tempi in cui la fiducia, e quindi la speranza, si è molto indebolita e possiamo chiederci qual è il contributo che può dare il cristiano, vivendo la propria fede nella dimensione storica. Ho sviluppato questi temo in modo più ampio in un mio libro che è stato recentemente recensito dalla Difesa del Popolo “Con i se e con i ma”.

C’è una sofferenza nella società che ci rende tutti più incerti. Il tema dell’impoverimento certamente. Non riguarda tutti, ma riguarda molti. Eppure possiamo anche pensare che in tempi diversi, in cui la condizione materiale era molto più aspra dell’attuale, la speranza non mancava, una maggiore serenità attraversava le vite. Più che l’impoverimento in sé pesa una mancanza di riferimenti, di certezze, di prospettive. Uno smarrimento del senso della vita, che si coglie da tanti malesseri che vengono prima di quelli materiali. I casi dolorosi di suicidio in giovane età, l’enorme aumento di reati “minori” ma indici di un male del vivere: percosse, ingiurie, minacce, violenze domestiche, l’aumento spropositato del consumo di droga e di alcolici, anche in giovanissima età. Un dato per tutti: in 5 anni l’uso di psicofarmaci è aumentato del 115%.

Giotto -  La speranza - Cappella degli Scrovegni - Padova

Giotto – La speranza – Cappella degli Scrovegni – Padova

Sembra veramente profetico quel passaggio dell’enciclica “Populorum Progresso” in cui all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, di fronte alle profonde trasformazioni che si intravedevano già allora verso un mondo globalizzato, il grande Papa Paolo VI afferma “il mondo soffre per una mancanza di pensiero”. Le grandi opportunità offerte dalla tecnica, dalla crescita economica, dall’accesso a  una grande quantità di informazioni non sono state accompagnate da uno sviluppo adeguato di un pensiero capace di essere guida. Lo hanno ricordato tempo fa, quando erano ancora in vita, due grandi saggi come Giuseppe Ungaretti e Mario Rigoni Stern intravedendo il futuro: “C’è il progresso tecnologico che ora va velocissimo, c’è il progresso morale che ora non tiene il passo, e la distanza si fa sempre più lunga”.

Sentendo tante persone sfiduciate, in pubblico ed in privato, vengono alla mente le parole di Gesù riferite da Matteo: “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt, 9,36).

Come possiamo aiutare a superare questo atteggiamento, come possiamo evitare di farlo proprio? Don Federico ci ha ricordato la molla potente della speranza cristiana, che possiamo vivere nella sua dimensione sociale, Papa Francesco ci ricorda sempre che la Chiesa, la comunità cristiana non è una prigione per punire, ma un ospedale per curare.

Abbiamo, anche della dimensione della vita sociale politica due bastoni a cui appoggiarsi. Il primo è l’insegnamento della Dottrina Sociale della Chiesa. Che di fronte alla crisi di senso, di prospettiva che caratterizza il mondo presente offre delle ricette che possono servire a migliorare l’economia e la convivenza sociale: la centralità della persona umana, i suoi diritti ed i suoi doveri, una economia del dono e della solidarietà, il rispetto del creato…Non una stanca lezione del passato ma la vivezza di uno sguardo limpido sul futuro.

Il secondo bastone è la coltivazione di una dimensione spirituale. Che serve nei passaggi difficili. Servirebbe anche ai grandi leader. E’ noto un episodio della vita di De Gasperi, il grande statista trentino, di cui è avviata la causa di beatificazione. Il direttore del Corriere della Sera gli chiese una volta come mai, anche nei momenti di maggior impegno politico, di fronte a decisioni urgenti, volesse comunque iniziare la giornata assistendo alla Santa Messa. De Gasperi rispose: “Sento il bisogno di inginocchiarmi ogni giorno di fronte al Signore per avere la forza di restare in piedi di fronte agli uomini”.

Richiamo la vostra attenzione su un pensiero che ci ha dato Papa Francesco durante l’omelia della Messa per l’inaugurazione del Sinodo della Famiglia. Il Papa ci indica tra caratteristiche che debbono segnare l’impegno del cristiano nel mondo.

“Questo è il compito dei capi del popolo – ha detto il Papa, e può valere anche per ognuno di noi –coltivare la vigna con libertà, creatività, operosità”.

Libertà è una parola impegnativa, che ne  porta con sé un’altra: responsabilità. Perché il cuore dell’annuncio cristiano è questa libertà dell’uomo di scegliere la propria vita, di scegliere tra il bene ed il male. Anche nelle dimensione comunitaria. Libertà per sé e libertà per gli altri. Quindi capacità di accettare la diversità, di confrontarsi. Di utilizzare il messaggio cristiano come una offerta di libertà.

Creatività, cioè la capacità di vivere il proprio tempo onorandolo. Cioè costruendo un pezzo di strada. Sull’insegnamento e la saggezza del passato, ma aprendo nuove vie. Valgono le parole che ci ha lasciato Sant’Ambrogio. Che vive nel IV secolo dopo Cristo, in un tempo perturbato: l’impero romano si sta sgretolando, la Chiesa è attraversata da forti dispute e Ambrogio ci dice “cercare sempre le cose nuove e custodire ciò che si è trovato”, che mi sembra l’atteggiamento costruttivo che bisognerebbe sempre avere. La curiosità e la fatica della ricerca di strade nuove, la capacità di cumulare conoscenze per non essere senza memoria.

Infine operosità. Perché nei momenti in cui declina la speranza forte è la tentazione di non provare neppure: “non ne vale la pena, tanto non serve a niente…”. E magari si lascia solo chi ha cercato di aprire una strada. E’ capitato anche a Gesù, come ci racconta un drammatico passo del Vangelo: “Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?”… Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene?”

Don Federico ci ha ricordato la bella immagine della Speranza, affrescata da Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Lì troviamo anche l’immagine dell’Incostanza (il contrario di quella operosità richiesta da papa Francesco) rappresentata da una donna in bilico su una ruota. Ed è curioso la vivacissima descrizione che fa uno scrittore del III secolo dopo Cristo, Evagrio Pontico, di quella che gli antichi chiamavano accidia (e Dante mette gli accidiosi nello stesso girone degli iracondi, gli uni troppo pigri, gli altri prigionieri di un attivismo senza pazienza) e che noi potremmo chiamare appunto pigrizia ed incostanza. Scrive Evagrio: “Quando legge l’accidioso sbadiglia spesso ed è facilmente vinto dal sonno, si stropiccia gli occhi, si sfrega le mani e ritirando gli occhi dal libro fissa il muro. Poi legge ancora un poco, poi spiegando le pagine le gira, conta i fogli, calcola i fascicoli, biasima la scrittura e la decorazione; infine, chinata la testa, vi pone sotto il libro, si addormenta di un sonno leggero, finché la fame non lo sveglia e lo spinge a occuparsi dei suoi bisogni.” Una vivida descrizione di quello che ci capita spesso. Almeno a me capita.

Alla fine la vera cura è davvero recuperare un sentimento di fiducia, che è la premessa necessaria della speranza.

Mi piace concludere con un brano di Paolo VI cui toccò in sorte di inverare la grande intuizione di Giovanni XXIII nella durezza della Storia, con i suoi limiti ed i suoi compromessi. Dover mettere insieme la passione con la ragione ed il realismo. Scrive Paolo VI nel suo testamento spirituale: “questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio e in gloria: la vita, la vita dell’uomo!… Ti saluto ti celebro all’ultimo istante, sì, con immensa ammirazione; e, come si diceva, con gratitudine: tutto è dono; dietro la vita, dietro la natura, l’universo, sta la Sapienza; e poi, lo dirò in questo commiato luminoso, (Tu ce lo hai rivelato, o Cristo Signore) sta l’Amore!”

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3 commenti

  1. Mario
    21 ottobre 2014

    Paolo, che bello!!!!!!!!!!!!!!


  2. Paolo
    21 ottobre 2014

    grazie Mario


  3. Giovanni Gasparin
    21 ottobre 2014

    Un vivo ringraziamento per le sempre tue belle riflessioni.


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