P come primarie, P come politica, P come problemi

Pubblicato il 24 giugno 2015, da Pd e dintorni

La Direzione regionale ha iniziato un dibattito sul dopo elezioni con interventi di Roger De Menech e Alessandra Moretti. Riprenderà domenica alla presenza del Vicesegretario nazionale Debora Serracchiani. Mi auguro che ci siano delle conclusioni chiare e nette. Sul percorso da fare per arrivare ad un congresso di rigenerazione del PD. Non è tempo di mezze misure e neppure di un semplice cambio di persone. Serve progetto, metodo, gruppi dirigenti autorevoli e creativi.

E bisogna parlare di tante cose. Con reciproca disponibilità a considerare il dialogo un modo per fare dei passi in avanti. Perché se si considerano le proprie idee immodificabili, se si considerano le opinioni degli altri delle eresie è inutile pensare di stare in una comunità produttiva.

Ad esempio vorrei parlare di primarie. E’ possibile parlarne senza essere accusati di essere contro la partecipazione a favore di cupole ristrette o al contrario di essere dei romantici sognatori?

Per me valgono sempre le parole di Baruch Spinoza (1632 – 1677), di fronte alle novità “nec ridere, nec flere, sed intelligere”. Né entusiasmi mal riposti (ridere), né pessimismi improduttivi (piangere) ma la volontà di capire.

Le primarie sono state la risposta creativa ad un problema già evidente quando sono state pensate: il distacco tra politica (e partiti) e cittadini. La necessità di recuperare una legittimazione con una legge elettorale nazionale che l’aveva tolta. Però attenzione: dietro allo strumento delle primarie c’era un evidente e percepibile dal cittadino disegno politico: un partito nuovo (PD) che si traduceva in procedure innovative e creative. Per questo erano piaciute molto, perché era uno strumento non solo di scelta di un candidato ma di partecipazione ad un più ampio processo politico.

Si può dire che sia ancora così? Varia da caso a caso naturalmente, ma difficile dire che sia così in molti casi. Per evidenti errori di impostazione, di varia e diversa natura. Accomunati dal fatto che la politica non fa il suo mestiere e spesso si affida alle primarie o come forma senza la sostanza di una vera competizione, o come semplice conta aritmetica, o come regolamento di conti interno. Tutte cose che non possono piacere e non interessano il cittadino. Soprattutto indeboliscono la proposta politica ed il candidato esce dalle primarie più debole di come è entrato. Burocrazia invece di politica, lotta di potere invece che passione civile. Questo sono diventate in molti casi. Incentivo a perdere più che strumento per vincere.

Vediamo qualche caso di insuccesso. Liguria: lotta feroce tra posizioni contrastanti. La politica che manca. Era dovere della dirigenza politica prendere atto che i due candidati erano troppo divisivi e assumersi la responsabilità di proporre un nome alternativo. Affidarsi alle primarie con partecipazione meno che spontanea per incapacità di esercitare il proprio ruolo di guida politica. Una lotta sanguinosa conclusasi con la sconfitta di tutti.pd

Padova: un esempio di primarie di coalizione male impostate. Possono essere validi tutti i modelli. Una primaria interna al PD, con il candidato che poi si propone agli alleati senza ulteriori primarie. Oppure primarie di coalizione. Ma le primarie di coalizione richiedono per forza una piattaforma comune convincente. Se si fanno primarie tra forze che hanno pochissimo in comune le primarie servono solo a mettere in luce le diversità e a convincere i cittadini che quella coalizione se vincesse non sarebbe capace di governare. Ad utilizzare lo spazio delle primarie contro il PD che le organizza. E poi naturalmente perdere.

Primarie fatte senza convinzione. La verità dobbiamo dircela. Le primarie in Veneto sono state fatte solo perché c’è stata la determinazione di Simonetta Rubinato. Ma primarie un po’ truccate: pochissimo tempo a disposizione, firme a go go di parlamentari, consiglieri regionali, segretari provinciali, ecc. a sostegno di Alessandra Moretti. Ma il risultato registrava comunque un terzo di dissensi. Quasi unanimità nei dirigenti, più pluralismo nei partecipanti. Si è pensato che la politica coincidesse con la matematica, ma non è mai così. Si sarebbe dovuto usare la politica per costruire un ticket Moretti/Rubinato.

Primarie per perdere a priori. Capisco che è troppo facile dirlo dopo, ma poteva essere chiaro che Felice Casson (già perdente dieci anni prima contro Cacciari) si rivolgeva ad un pezzo di elettorato non più maggioritario. Tutto rivolto ad una sinistra che aveva già dimostrato di non avere presa maggioritaria nell’opinione pubblica. Era probabilmente il candidato più adatto a compattare l’insediamento tradizionale dopo gl iscandali, ma un insediamento troppo ristretto. parte del passato più che del futuro. Avevamo perso la provincia e abbiamo voluto ripetere l’esperimento, in un quadro ancora più difficile. Troppo facile per Brugnaro: la Venezia del fare contro la Venezia dell’immobilismo, la Venezia del futuro contro il vecchio blocco sociale di una sinistra conservatrice e minoritaria. Ma siccome le primarie sono viste come un dogma piuttosto che come strumento per convincere meglio i cittadini ci si è presi la soddisfazione di vincere le primarie e di perdere le elezioni che contano.

Si potrà serenamente discutere non sull’ affossare le primarie, ma sul saperle usare con maggiore sapienza politica?

  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn
  • RSS
  • Pinterest
  • Add to favorites
  • Print
  • Email

Tags: , , , ,

4 commenti

  1. bruno magherini
    26 giugno 2015

    Caro Paolo, mi ritengo un comune cittadino che assiste ai fatti politici in modo interessato perché, ci piaccia o meno, ci riguardano tutti.
    Non ho mai fatto politica attiva perché ogni partito è per definizione “parte”. A me interessa invece il “tutto” e voglio sempre giudicare e scegliere con molta libertà.
    Appartengo alla schiera degli elettori infedeli, l’elettorato di opinione che non entra a far parte degli “zoccoli duri” ma resta mobile.
    Da cittadino comune confesso che i meccanismi di selezioni della classe dirigente di un partito (primarie si, primarie, primarie regolate ecc…) mi appassiona il giusto.
    In ogni meccanismo ci sono pregi e difetti.
    Nelle primarie, ad esempio, manca quel dibattito che un tempo si faceva nei congressi dei vecchi partiti dai quali emergevano personalità di grande spessore politico.
    Le primarie producono scelte dal basso abbastanza acritiche, che premiano l’appeal o l’eloquio dei candidati, a scapito del loro effettivo valore.
    Ma ripeto oggi questo agli italiani credo che interessa relativamente.
    I quesiti fondamentali sono assai più decisivi.
    1.Il primo è: vige ancora la sovranità popolare in Italia?
    L’art.1 della Costituzione è esplicito.
    Ma, chiedo, e’ stato violato quel principio negli ultimi anni?
    La sovranità popolare è compatibile e conciliabile con scelte politiche sempre più stringenti imposte dall’esterno? Perché se, come pare sempre più evidente, decisioni, direttive, condizioni di entità sovranazionali vengono imposte ai popoli c’è in gioco un valore essenziale dello stato moderno: la democrazia.
    Non escludo che nella poderosa disaffezione della gente verso la politica vi sia anche questa percezione.
    2. La seconda è: la nostra è ancora una democrazia parlamentare? Quando con l’espediente del voto di fiducia si strangola il dibattito e si coarta l’indipendenza del parlamento non siamo già in un quadro istituzionale patologico? Se la sinistra si comporta come e forse peggio della destra (che comunque aveva avuto una legittimazione elettorale) che cosa diranno i cosiddetti democratici quando il prossimo vincitore farà altrettanto?
    Sembra emergere nell’opinione pubblica la sensazione che il vostro partito rappresenti un pericolo oltretutto eterodiretto.
    3. La terza è: una unione di stati sovrani non è una contraddizione in termini? Un ossimoro? Per trasformarla in una unione politica sarebbe necessario una spinta dal basso, la spinta dei popoli.
    Esiste quella spinta? Pare proprio di no!
    Il senso di appartenenza europea è una nobile utopia.
    Com’è possibile alimentare un sentimento sovranazionale quando un solo soggetto (la Germania e frau Merkel) distribuiscono i “compiti a casa” e commissaria uno Stato?
    A molti di noi quei compiti non sono piaciuti.
    Un popolo è libero di decidere se e quali “compiti” vuole fare.
    Se per far parte di un club devo morire preferisco non farne parte o uscirne.
    Come vedi i nodi venuti al pettine sono di portata epocale.
    Alain Greenspan ha vaticinato la fine dell’euro perché una moneta che non ha uno stato alle spalle è un’assurdità tecnica.
    Non a caso inglesi e svizzeri si sono tenuti stretti le loro monete.
    Una specie di distorsione utopica nella introduzione dell’euro ha fatto mettere il carro davanti ai buoi: prima la moneta unica poi l’unione politica.
    Ciò che non è avvenuto e non avverrà.
    Nel 2017 l’Inghilterra terrà un referendum che produrrà una reazione a catena.
    Prepariamoci.
    Chi si approprierà di questi argomenti e proporrà fin da ora soluzioni chiare e univoche vincerà le prossime elezioni in Italia.
    Gli altri faranno da spettatori.


  2. Paolo
    26 giugno 2015

    Caro Bruno, il tuo intervento richiederebbe risposta approfondita, cosa che ora non ho modo di fare. Mi limito però all’Europa: il consenso c’è stato e larghissimo nel passato. Ed è stato merito della classe dirigente europea (massimamente De Gasperi, Schumann, Adenauer) che aveva sperimentato la tragedia della guerra creare uno spazio geopolitico nuovo. Oggi: troppa tecnica e poca politica, come dimostra la vicenda dei profughi. Però non è che noi cediamo sovranità ad un soggetto terzo. Decidiamo di gestire quella sovranità in comunione con altri stati, in un consesso in cui siamo partecipi. Nel mondo globalizzato pensare di competere con vecchi e nuovi giganti economici con la dimensione dei singoli stati è una illusione. SE non ci piace essere comandati da Bruxelles (dove peraltro possimao incidere) non pensiamo che sia meglio essere comandati da Pechino. Svizzera e Inghilterra stanno fuori per ragioni diverse e non applicabili a noi: la Svizzera perchè è stato come si è visto la centrale del riciclaggio internazionale di denaro sporco e l’Inghilterra perchè resta comunque una capitale finanziaria legata all’area del dollaro.
    Condivido comunque il fatto che il tema europeo non va affrontato con leggerezza con l’appello ai buoni sentimenti ma con rigorose analisi economiche su cosa sarebbe dell’Italia fuori dall’euro.


  3. bruno magherini
    28 giugno 2015

    Replico da cultore di studi storici e da osservatore di scenari.
    Tu citi in modo pertinente le grandi figure di De Gasperi, Adenauer, Schumann, accanto alle quali vorrei ricordare il manifesto di Ventotene e Altiero Spinelli.
    Parliamo però della metà del Novecento, di un quadro geopolitico spazzato via da tempo.
    Lo scenario odierno è totalmente inedito.
    Anche del’integrità del vecchio Impero Asburgico si postulava a Vienna la conservazione ma le contraddizioni interne, la compresenza di nazionalità diverse, le spinte centrifughe insomma ne decretarono la fine.
    L’ex URSS è implosa. La ex Jugoslavia si è disintegrata.
    Come vedi la storia non accetta lezioni o suggerimenti.
    Molte volte gli accadimenti provengono dalla forza delle cose e non dalla volontà umana.
    L’evoluzione storica in un certo senso soggiace ad una legge di incertezza e di imprevedibilità come la meccanica quantistica.
    Il principio di indeterminazione sembra trasferibile anche alle vicende umane.
    Oggi più che mai gli eventi sfuggono di mano agli uomini.
    I processi globali non sembrano governabili come diceva il presidente Clinton.
    Si naviga a vista.
    Non mi interessa qui esprimere auspici o preferenze.
    Cerco di limitare l’analisi alla constatazione delle dinamiche storiche.
    Le contraddizioni sono nodi che prima o poi vengono al pettine.
    A quel punto vanno sciolti in modo o in un altro.
    Conta poco dire “Che cosa conteremmo nella competizione mondiale senza unione?” Se questa non è possibile resta poco da fare.
    Oppure se questa non è voluta a qualunque costo dalla sovranità popolare.
    Del resto diversi stati sopravvivono benissimo anche senza far parte di “famiglie allargate”.
    Un’ultima domanda: era più facile mettere d’accordo 6 Stati, come per buona parte del Novecento, o 27 come oggi? E’ più facile l’aggregazione di soggetti simili o quella di soggetti diversi per peso e statura? Vedi un po’ tu.
    Personalmente mantengo sempre distinto ciò che vorrei da ciò che effettivamente avviene. Utopia e realtà non sempre si legano.


  4. Paolo
    29 giugno 2015

    Caro Bruno, grazie per i tuoi analitici interventi. sempre stimolanti. Una sola cosa sull’Europa. Certamente con l’allargamento è diventat sempre più complessa, ma senza l’alalrgamento un intero pezzo di Europa sarebbe ricaduta sotto l’influenza russa, e non si può dire che fosse migliore la prospettiva.


Scrivi un commento