Aldo Moro: ha ancora molto da dirci

Pubblicato il 10 maggio 2016, da Relazioni e interventi

Anniversario dell’assassinio di Aldo Moro. Commemorazione ad Abano Terme 9 maggio 2016

 

Aldo Moro quest’anno in settembre compirebbe cento anni. Una età veneranda ma non impossibile da raggiungere. Una ipotesi. Invece con certezza storica possiamo dire che se non fosse stato assassinato dalle Brigate Rosse avrebbe fatto il Presidente della Repubblica. Sarebbe stato un punto di riferimento per la stabilità democratica del nostro paese. E poi avrebbe potuto contribuire con la profondità del pensiero e la saggezza del ragionamento politico alla vita del paese, come altri grandi vecchi della Repubblica: da Scalfaro, a Ingrao, a Napolitano, a Ciampi…

Gli anni passano ed è normale che la figura di Moro si allontani da una conoscenza diretta. Del resto l’ultima volta poté presentarsi alle elezioni nel 1976. Chi fosse stato una matricola del voto allora oggi è un uomo di sessant’anni.

 

Oltre l’assassinio

Giusto non dimenticare il tragico epilogo, il rapimento, lo sterminio della sua scorta, il calvario dei cinquanta giorni, l’assassinio ed il ritrovamento del corpo. Penso che chi ha vissuto quei momenti ricordi ancora cosa stava facendo quando l’Italia fu sconvolta alla notizia del barbaro assassinio della scorta e del suo rapimento; cosa stava facendo quando il cadavere fu ritrovato nella Renault rossa in via Caetani, e ricordi le dolenti parole di Papa Paolo VI per la preghiera non esaudita per la salvezza di Aldo Moro “uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico”. Occorre dire che su questo piano l’amico on. Gero Grassi, che ha proposto e voluto l’istituzione di una Commissione d’inchiesta parlamentare sull’uccisione di Aldo Moro, sta facendo una straordinaria azione per portare alla luce tante incongruenze e manchevolezze nell’accertamento della verità e sta svolgendo un eroico tour in tutta Italia (oltre 300 serate fin qui tenute) con incontri in cui pronuncia una vera e propria appassionata orazione civile.

Però sarebbe un grave errore ridurre la figura di Moro a quella delle giornate di prigionia, alle sue lettere, ai dubbi sugli effettivi mandanti dell’assassinio. Moro è stato nella storia del paese molto altro. Hanno ucciso lui, ma non hanno potuto uccidere il suo pensiero e perciò può restare per noi un Maestro, quasi un amico che ci può accompagnare ancora nelle svolte impegnative della contemporaneità politica. Perchè per fortuna Moro ha scritto e parlato molto, su di lui si è scritto e si sta scrivendo molto e il suo pensiero non è andato disperso.

 

Politica come capacità di comprendere la storia

Se si ha la pazienza di rileggere i suoi scritti si possono ancora trovare elementi di straordinaria modernità. Uno dei temi che ha sempre appassionato Moro e lo ha portato a riflessioni profonde è quello del rapporto tra politica e potere. Fin dagli scritti giovanili (Moro è stato davvero un enfant prodige, in cattedra universitaria a 25 anni, parlamentare a 30), e poi nel contributo dato alla Costituente con interventi decisivi. Sua è la formulazione dell’art. 1, offrendo una mediazione alle avverse posizioni di La Pira e Togliatti. Già da allora aveva una idea chiara di come la democrazia piena si formasse su tre colonne: la democrazia politica, la democrazia sociale, con l’anelito alla giustizia distributiva e la democrazia umana, perché la politica doveva rispettare gl ispazi originari della persona.

Per lui la politica era la capacità di capire la storia e gli avvenimenti, la capacità di guidarli in una società in continuo movimento, capace di costruire con flessibilità strumenti nuovi, ma essendo fermi sui principi. Così sviluppava particolarmente nei momenti di svolta una straordinaria acutezza di giudizio, la capacità di cogliere ancora i movimenti nascosti. Così parlava al Consiglio Nazionale del 1969, un periodo difficile in cui si era sviluppato l’autunno caldo, il movimento studentesco, in cui sembravano venir meno sicurezze e punti di riferimento: “La DC è chiamata ad essere sempre più un partito di opinione, giacché a convogliare la volontà non solo nel voto ma nella risposta quotidiana alla sollecitazione sociale e politica non è il potere ma l’idea. Il potere diventerà sempre più irritante e scostante”. Parole che potrebbero essere state pronunciate oggi, di fronte al dibattito sulla forma partito, se partito di militanti o di elettori, o al degrado della reputazione della politica di un potere avvertito davvero da troppi elettori come irritante e scontante.

 

Una leadership originaleAldo-Moro-e-la-figlia-Agnese-a-Terracina

Moro ha esercitato una leadership forte nella politica italiana. Sia quando si è trovato a gestire un rilevante potere, da Presidente del Consiglio, da Segretario Nazionale della DC, da Ministro, da Capogruppo. Sia quando si è trovato in minoranza, escluso da accordi di potere ed invita il suo partito “ad aprire finalmente le finestre di questo castello nel quale siamo arroccati per farvi entrare il vento che soffia nella vita, intorno a noi”.

E’ stata tuttavia una leadership mite, non sbrigativa, che riteneva sempre necessario non perdere contatto con il popolo. Lo si è accusato di aver spento le ansie riformatrici degli anni del centrosinistra. Se lo ha fatto non è stata per mancanza di coraggio ma perché conosceva il paese come era fatto, le forze potenti che si opponevano ad un avanzamento, che andavano convinte e ricondotte ad un disegno di sviluppo. Nell’ultimo memorabile discorso che fece ai gruppi parlamentari il 28 febbraio 1978, pochi giorni prima del suo rapimento, per convincere (e ci riuscì) i gruppi ad avviare l’esperienza del governo aperto al PCI rivendicò il suo metodo con una sorta di elogio della lentezza: “in questi giorni abbiamo cercato seriamente e lentamente la verità, la verità nel senso politico, cioè la chiave di risoluzione…nessuna persona può da solo vincere l’ostacolo che è dinanzi a noi, dobbiamo vincerlo insieme nella nostra concordia, nella nostra solidarietà, nella nostra consapevolezza”. E’ un richiamo ad un nesso alla serietà (lo studio severo della realtà, dei rapporti di forza, della fattibilità delle cose ) ed alla lentezza, non come espediente per dilatare il tempo ma come spazio per costruire con tenacia le condizioni della convinzione la più allargata possibile. E non furono parole retoriche, perché realmente in quei giorni Moro aveva ascoltato ogni singolo parlamentare, anche il meno autorevole, per convincerlo della necessità di quel passaggio.

Oggi la politica è chiamata a passaggi più veloci, è la società che è divenuta più veloce, ma non è detto che non serva quella cura nel vedere in una opinione diversa non una inimicizia ma un punto di vista da superare con la convinzione.

 

Una parola rispettosa e rispettabile

Questa era la sua cultura, espressa con chiarezza in un altro discorso: “Il potere conterà sempre meno, e conterà di più una parola detta discretamente, rispettosa e rispettabile”. Discretamente, senza inutili clamori, rispettosa delle opinioni altrui, rispettabile per la serietà delle argomentazioni. Davvero sono virtù che debbono essere per forza estranee alla moderna comunicazione?

Moro aveva la vocazione dell’educatore. Per questo molti suoi discorsi hanno l’architettura complessa e tuttavia comprensibile di una argomentazione ragionata. Del resto non volle mai lasciare l’insegnamento universitario. Restare professore non pro forma ma onorando tutte le scadenze (lezioni ed esami) del corso accademico, anche nei momenti in cui era al vertice dello stato. E’ commovente un discorso (raccolto da un suo allievo) che rivolse ai suoi allievi alla fine di un corso (era Presidente del Consiglio) quasi per scusarsi di essere riuscito a garantire solo le lezioni: “Ma se anche io non ho potuto dimostrare sempre, come avrei voluto, dimostrare a tutti individualmente il mio apprezzamento, il mio rispetto, il mio affetto, la mia amicizia, io desidero dirvi che questi sentimenti sono quelli che hanno dominato il corso di questa esperienza. Sono venuto sempre,anche in giorni assai pieni di cose, però non solo per una lezione, ma per un incontro che mi ha fatto sentire vicino a persone amiche”.

 

Non aver paura del nuovo

E’ stato descritto dai suoi avversari (i “benpensanti” che non mancano mai) come uomo indeciso, sostanzialmente immobilista. Una caricatura che non corrisponde alla realtà. Culturalmente era una persona curiosa del nuovo, non ne era spaventato, anche se politicamente avvertiva i condizionamenti della storia, la precarietà degli equilibri democratici. Sono illuminati queste parole del 1968, in una fase di grandi cambiamenti sociali e politici, di fronte ai quali il vecchio ordine sembrava non reggere: “Certo noi opereremo nei dati reali della situazione, difendendo contro il disordine la libertà, l’ordine, la pace. Ma dovremo farlo, e questo è il fatto nuovo e difficile della nostra condizione, con l’animo di chi, consapevole delle strette politiche e delle ragioni del realismo e della prudenza, crede profondamente che una nuova umanità è in cammino, accetta questa prospettiva, la vuole intensamente, è proteso a rendere possibile ed accelerare un nuovo ordine nel mondo”.

E diceva ancora nel 1976: “Non siamo chiamati a far la guardia alle istituzioni, a preservare un ordine semplicemente rassicurante. Siamo chiamati invece a raccogliere con sensibilità popolare, con consapevolezza democratica tutte le invenzioni dell’uomo nuovo” Poche parole in cui sono però racchiuse le convinzioni di Aldo Moro nell’azione politica: sensibilità popolare significa comprendere come è fatto il popolo, nella sua forza e nelle sue debolezze, senza nessuna pretesa di guida elitaria, consapevolezza democratica significa accettare la fatica della convinzione e della costruzione degli equilibri politici necessari al cambiamento, raccogliere le invenzioni dell’uomo nuovo essere convinti dei limiti della politica che riconosce e non crea ciò che si muove nella società.

E oggi che parliamo con una certa imprecisione di rottamazione, che diventa insieme necessario rinnovamento dei gruppi dirigenti ma anche superficiale accantonamento delle ragioni della storia potremmo trarre profitto da queste parole di Moro: “Guai a non muoverci con le cose che si muovono, ma guai a recidere le radici che affondano nel passato e nel nostro patrimonio ideale. Il nuovo sì. Ma il nuovo capito, dominato, voluto da noi stessi per quello che siamo stati e siamo”.

Sono parole che ancora ci aiutano a capire, a costruire atteggiamenti che non si riducano a slogan più o meno efficaci ma siano capaci di misurarsi con la complessità. Per costruire cambiamenti capaci di generare futuro.

 

Intelligenza e amore

Ricorro per concludere alle parole di Agnese Moro, la secondogenita di Aldo, la più riflessiva delle figlie di Moro che così conclude un bel libro di ricordi sulla figura del padre: “Mi rimane la convinzione che le due sostanze più profonde della vita di mio padre siano state l’intelligenza e l’amore. La capacità di guardare in prospettiva, di vedere e di comprendere. La capacità di amare e di corrispondere all’amore senza riserve. Non mi spiego altrimenti la quantità di fiducia e di affetto che ebbe allora da tante persone e che ha ancora oggi.”

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