Psicodemocrazia e dintorni

Pubblicato il 27 maggio 2016, da Relazioni e interventi

Presentazione del libro di Gabriele Giacomini “Psicodemocrazia, quando l’irrazionalità condiziona il discorso pubblico”, con Stefano Allievi, Giampiero Beltotto, Filiberto Zovico. Padova 26 maggio 2016

Un libro interessante, di non semplice lettura, ma interessante. Di non semplice lettura perché Gabriele Giacomini ha conseguito il dottorato un neuroscienze cognitive e filosofia della mente (che per uno della mia generazione ha già un problema di comprensione) e quindi il saggio è un saggio scientifico, che usa anche un linguaggio specialistico in alcune parti, ma il libro è molto interessante anche per chi come me è un semplice (ex) manovale della politica. Giacomini poi è un giovane assessore all’innovazione nel Comune di Udine e quindi aggiunge alla indubbia competenza tecnica l’esperienza viva di chi sperimenta lo stato dei processi democratici.

Perchè il tema è avvincente: come rispondere alla crisi di legittimazione della democrazia? Crisi di legittimazione che ha molte motivazioni. Posiamo anche parlare di esaurimento di un ciclo nato dalla sconfitta delle grandi dittature del ventesimo secolo, sostenuto dalla contemporanea presenza di grandi partiti di massa, di elevata partecipazione elettorale, di crescita costante ed intensa dell’economia con adeguata redistribuzione della ricchezza prodotta, di un sistema di sicurezze sociali costruite con l’affermazione di un esteso sistema di welfare. Democrazia vincente percepita come strumento per migliorare la propria vita. Oggi c’è un problema di efficienza e di complessità. Non solo c’è un processo di globalizzazione che sottrae alle decisioni degli stati nazionali la regolazione di fenomeni che condizionano aspetti essenziali della vita dei cittadini, senza che vi siano livelli superiore di regolazione, ma anche c’è una riduzione del perimetro del pubblico, con la crisi fiscale degli stati, e l’impoverirsi di strumenti di intervento che dipendano dalle decisioni politiche. Ogni sistema che non riesce a migliorare la vita dei cittadini subisce una delegittimazione. Nella storia si è espressa con avventure totalitarie (così nasce il nazismo in Germania) o, meno drammaticamente, con un assenteismo dai luoghi di formazione delle decisioni. Il problema è che si può immaginare una democrazia senza partiti (meglio senza i partiti di massa che abbiamo conosciuto in Italia), difficile però immaginare una democrazia senza popolo. Se non c’è il demos la crazia acquisisce un altro significato.

Giacomini rende conto con molte argomentazioni del dibattito tra gli studiosi della materia tra chi ritiene che l’arena politica sia dominata dalle emozioni, come indica nella bella prefazione Angelo Panebianco: “poiché il cittadino elettore è vittima del suo disinteresse per la cosa pubblica, della sua ignoranza e dei suoi stereotipi, spinto da “passioni calde” anziché da freddi ragionamenti…l’unico modo (per salvarla) era di ridefinire in chiave realistica la teoria della democrazia: la democrazia altro non era né poteva essere che il ruolo del confronto e della competizione tra élites impegnate a disputarsi il voto di elettori su cui il richiamo emozionale fa normalmente presa più delle proposte e dei ragionamenti programmatici”. A queste teorie si contrappongono teorie dialogiche, che vedono nei processi di partecipazione e discussione pubblica il maturarsi di scelte più razionali, il formarsi di alternative dei gruppi dirigenti, ecc. Giacomini propende una forma che definisce di democrazia dialogica imperfetta, “in cui si vedano razionalità ed emotività integrate in un rapporto dove la razionalità pensi sé stessa come limitata, aprendo nuove strade per la consapevolezza delle conseguenze politiche che la natura emotiva degli individui implica”.

Ora questo conflitto tra emotività e razionalità è sempre stato presente nel dispiegarsi delle democrazie occidentali e nel dibattito pubblico. Basti pensare al fortunato libro di Gustave Le Bon “Psicologia delle folle” che indagava questo fenomeno alla fine dell’800. La teoria di Le Bon era che l’individuo può anche essere il più civile che si conosca ma quando diventa folla diventa un barbaro. Non a caso Benito Mussolini considerava questo saggio un ispiratore della sua politica. Ma potremmo anche riandare al nostro più casalingo Alessandro Manzoni con la sua descrizione della rivolta del pane…Oppure pensiamo alle considerazioni di Max Weber nel suo saggio “La politica come professione” e la sua distinzione di un’etica della convinzione (guidata dalle passioni) ed un’etica della responsabilità, che giudica l’eticità dei comportamenti dai risultati che essi producono, al di là della rettitudine delle intenzioni.

Giacomini prende giustamente nettamente posizione contro l’illusione dei governi dei tecnici come soluzione per il conflitto tra razionalità ed emozione, osservando che i tecnici non meno degli altri soggetti possono essere prigionieri di pulsioni irrazionali. Del resto una certa esperienza l’ho fatta nella mia vita parlamentare di incrocio con tecnici alla prova di governo e devo dire che questo incontro era con una certa frequenza sconfortante: persone che potevano anche essere competenti nel proprio settore ma totalmente privi di una visione generale delle cose, così necessaria per decidere saggiamente.psico

Se oggi parliamo di un degrado della politica per un eccesso di emotività non è forse stato così? Pensiamo alle elezioni politiche del 1948, prima grande prova della neonata democrazia italiana, non furono forse dominate delle passioni e dalle emozioni? Ed era possibile fare diversamente con un popolo che era in larga parte analfabeta in senso proprio, non sapendo leggere e scrivere, ma anche ancor più largamente analfabeta di democrazia dopo il ventennio fascista? Se Togliatti segretario del PCI andava nelle piazze assicurando nei suoi comizi che si era fatto risuolare le scarpe per dare meglio un calcio nel sedere all’asburgico cancelliere (De Gasperi) e proponeva il modello dell’Unione Sovietica come paradiso dei lavoratori (e pochi meglio di Togliatti sapeva di come quel paradiso fosse un inferno) non da meno era la Democrazia Cristiana. Messaggi forti e semplici: donne turrite con lo scudo crociato che difendevano la patria la famiglia e la libertà dalla falce e dal martello, mai le bandiere rosse a Roma, i prigionieri di guerra in Russia, ecc. Del resto il nostro settimanale diocesano La Difesa del Popolo nel numero distribuito il 18 aprile del ’48 metteva in prima pagina una grande fotografia di Papa Pio XII con la scritta “per te andiamo alla lotta, non andrai in esilio, non lascerai Roma: ti difenderemo noi e in te difenderemo la libertà, la civiltà, la vita d’Italia!”

Perchè allora oggi tacciamo di populismo ogni appello alle passioni ed alle emozioni? Diciamo così: quei leader politici sapevano poi spendere la credibilità acquista in un rafforzamento della democrazia. Anche il PCI aveva presto abbandonato ogni illusione sulla praticabilità di una via rivoluzionaria e anche la DC con De Gasperi sapeva che la diga anticomunista avrebbe retto se non si fosse rinchiusa in un conservatorismo sociale. Perciò ci fu un interesse comune, anche quando si era rotta l’unità governativa, a preservare la Costituzione in via di scrittura dall’asprezza dello scontro politico che si stava preparando.

Pensiamo allo stato del dibattito che si sta preparando per il referendum costituzionale d’autunno. Non mancano naturalmente dotte e approfondite discussioni nell’ambito accademico tra i costituzionalisti, da cui molto si potrebbe imparare per orientare il nostro voto. Ma il dibattito ed i messaggi che si lanciano ai cittadini sono ben diversi. Renzi per motivare il sì sceglie il tasto sostanzialmente dell’antipolitica: con la nuova Costituzione meno parlamentari, meno costi della politica, chi si oppone è perché vuole salvare la seggiola. E specularmente il no si carica di messaggi apocalittici: votare no per opporsi ad un colpo di stato strisciante, ad un regime autoritario.

Ma cosa resterà nell’opinione pubblica, scrutinate le schede? Una maggiore reputazione della carta Costituzionale? Non credo. Voterò sì e mi auguro davvero che prevalga il sì, ma una vittoria del sì basata su queste argomentazioni mi appare insufficiente.

Alla fine dovremmo porci questo problema. Condividendo la ipotesi realistica che indica Giacomini di una democrazia dialogica imperfetta in cui convivono in modo equilibrato razionalità e passioni, quali sono le agenzie che aiutano il popolo per la parte della razionalità?

Non lo fanno i leader di una politica necessariamente personalizzata (anche se su questo temo dovremmo essere più realisti: non è che tornando al ’48 la DC non fosse De Gasperi e il PCI Togliatti…) obbligati a fare i conti con la messaggistica quotidiana: 140 caratteri per suscitare emozioni più che ragione. Spesso obbligati più che alla lungimiranza (che richiede fiducia solida) all’immediatezza: il consenso per il giorno dopo.

Ma non lo fa neppure il sistema dei media. Lasciamo stare per il momento i nuovi canali dei social, in cui la corrente emotiva è essenziale (e Giacomini dedica le pagine di una appendice a questo tema specifico) ma anche il sistema dell’informazione tradizionale, carta stampata e tv è giocata tutto sull’emotività: dallo spropositato spazio riservato alla cronaca nera a format televisivi di dibattito politico in cui parlare di appello alla razionalità (non dico da parte dei protagonisti politici ma da parte dei conduttori) è una bestemmia.

In fondo è una grande prova di sfiducia nelle qualità del popolo da parte di politica e media. Ma il popolo ricambia con una eguale corrente di sfiducia. Proviamo a lavorare per correggere questo scambio perverso.

 

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