PD: chi sa fare meglio?

Pubblicato il 4 aprile 2017, da Pd e dintorni

Bisognerà aspettare le primarie del 30 aprile, aperte a tutti gli elettori, per un giudizio politico compiuto sul congresso del PD. Difficile però contestare due fatti evidenti fin da ora.

Il primo è che la autodefinizione di Partito Democratico è ben fondata. Con tutti i suoi limiti il Partito Democratico resta la più estesa infrastruttura democratica del paese. Nessun altro partito o movimento è in grado di organizzare una partecipazione così ampia nei processi decisionali e nella formazione dei gruppi dirigenti.

L’esteso consenso elettorale del Movimento 5 stelle avviene con partecipazione tramite social infinitamente inferiore e ciò che eventualmente si decide è sottoposto al giudizio insindacabile di un padre padrone, e questo dovrebbe anche farci riflettere su quanto estesi siano i valori della partecipazione democratica nell’opinione pubblica italiana e quanto consenso abbia invece l’idea di un capo a cui affidare le decisioni. Pur nel pieno di una scissione di gruppi dirigenti e dopo una grave sconfitta politica con il PD oltre 266.000 iscritti escono di casa e vanno a dire la loro, con il dibattito e con il voto su chi debba guidare il partito. In una competizione vera. In quale altro luogo politico ciò avviene?

Il secondo è che Renzi è il leader indiscusso del Partito Democratico. Per il momento tra gli iscritti. Non penso sarà molto diverso tra gli elettori. Il risultato è inequivocabile. Il 68% è una percentuale elevatissima che carica Renzi di enormi responsabilità. Ma la descrizione che da tempo Ilvo Diamanti da del PD come Partito di Renzi ha un suo fondamento. Al di là della personalizzazione resta il fatto che la stragrande maggioranza dei militanti condivide l’idea politica che sia necessaria una discontinuità con le storie passate e che la sinistra per essere vincente ha bisogno di una forte innovazione.giannellicongresso

Si vedrà il 30 aprile. Quanta partecipazione ci sarà, se vi saranno sensibili scostamenti nei risultati, se eventualmente vi saranno movimenti influenti da parte dei scissionisti per indebolire Renzi, cose più facili a dirsi che a farsi. Certo è che il Congresso con le primarie darà certezza sui risultati numerici, ma la parte politica è tutta aperta. Perché resta difficile la navigazione del Governo, al di là delle assicurazioni, perché il progetto partito è tutto da costruire. Diciamo la verità: sarà un congresso più di numeri e personalità che di contenuti politici.

Queste sono le cose positive. Di cui però non possiamo accontentarci. Perché sotto la superfice non mancano i motivi di preoccupazione. Faccio un approfondimento a campione sui dati di Padova. Anche qui Renzi vince solidamente con un 61,4%. Rispetto al 39,7% che aveva conquistato alle primarie del 2013. Eppure se andiamo al numero assoluto dei votanti scopriamo che Renzi prende gli stessi voti di 4 anni fa: allora lo votarono 847 iscritti, oggi 899.

Il fatto è che gli iscritti sono nel frattempo calati da 3.644 a 2.547 ed i votanti, cresciuti in percentuale sugli iscritti dal 53,8 al 57%, in valore assoluto sono calati da 1.973 a 1.463. E i dati in qualche modo confermano che ad andarsene sono stati prevalentemente iscritti post diessini. E’ una semplificazione perché si tratta di un saldo tra nuovi iscritti e mancate reiscrizioni, ma resta il fatto che nel 2013 i voti presi da Cuperlo e Civati, dei quali avrebbe dovuto essere erede Orlando, assommavano al 68,6%, mentre Orlando prende oggi il 37,05.

I dati ci dicono anche altro. Che c’è ancora una rete territoriale diffusa, ma che questa rete ha bisogna di una intensa opera di manutenzione straordinaria, di coltivazione accurata, se non si vuole che rapidamente inaridisca. Se prendiamo i dati degli iscritti che sono andati a votare come dato significativo della reale consistenza dei circoli ci accorgiamo che sui 92 circoli votanti circa un terzo, 33 circoli, ha visto una partecipazione di meno di 10 elettori, in una decina meno di 5. Solo in 6 circoli i votanti sono stati più di 40. Naturalmente andrebbe fatta una indagine più approfondita (confronto con i dati del 2013, peso sugli abitanti e sugli elettori dei territori coperti dai circoli e anche qualità del dibattito che ha accompagnato il voto: se c’è stato, quanti iscritti sono intervenuti, ecc.) ma comunque anche questi semplici dati ci dicono che l’infrastruttura democratica offerta dal partito andrebbe coltivata con cura per non farla deperire. Le energie ci sarebbero anche ma non possono essere lasciate allo spontaneismo individuale.

Perché alla fine non ci si può accontentare dell’alibi che la società è cambiata, i partiti non sono più quelli di una volta, ecc. Cosa vera, ma bisognerebbe che anche i grandi commentatori che sanno tutto e spesso capiscono poco incominciassero a rilevare che la democrazia senza partiti ha un rendimento molto basso. E che se i partiti offrissero qualcosa di interessante il mercato esisterebbe. Dirò prossimamente qualcosa su cosa servirebbe.

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