1990, un’altra storia

Pubblicato il 29 agosto 2017, da Realtà padovana

Visto che il mio pezzo sul trentennale della elezione a Sindaco ha avuto un grande successo di lettura faccio un’altra puntata.

Perché poi si presentano le elezioni del 1990. Dovevo dimostrare che il lavoro svolto veniva riconosciuto dagli elettori. E veniva anche riconosciuto uno stile che non era piaciuto a tutti, anche nella DC: uno stile poco “effervescente”, basato più sul dialogo ed una presenza capillare nei mondi cittadini che su una comunicazione aggressiva. Affrontiamo le elezioni con un programma in 10 punti, che più o meno sarebbero validi anche oggi. Ecco qualche titolo: i diritti del cittadino e i diritti delle famiglie, un tessuto sociale solidale, sicuro e tranquillo, la periferia è la città da rendere vivibile, la cooperazione con i comuni vicini e la creazione della Grande Padova…

Il risultato positivo ci fu, perché presi quasi 12.000 preferenze, staccando il secondo arrivato nella lista DC di oltre 7.000 voti (allora non c’era l’elezione diretta ed il sindaco capeggiava la lista del proprio partito, misurandosi con il voto di preferenza) e fui tra i sindaci a più alto consenso di tutto il nord est, superando Sboarina a Verona e Variati a Vicenza (sì, in quel turno Achille Variati venne eletto sindaco…).

Però fu un turno amministrativo che non andò benissimo per la DC anche a livello nazionale, alle regionali calò in Italia di un punto e mezzo.. In città la DC arrivò al 37,4%, perdendo un consigliere comunale scendendo da 21 a 20, mentre andò molto bene il PSI che passò da 5 a 7 consiglieri, arrivando al 13%. Si spaccarono i verdi, presentandosi in due liste: rientrava in consiglio Ivo Rossi con Bresciani Alvarez. Le due liste prendevano nel complesso 9,9 punti. Il PCI arretrava al 16,1%, perdendo 2 consiglieri. Nel 1989 c’era stata la caduta del Muro di Berlino. Tra i partner di Giunta perdevano un consigliere i repubblicani guidati da Mario Liccardo, scendendo dal 5,8 al 5,2.

La formazione della giunta si manifestò subito complessa. I socialisti, forti del risultato raggiunto, rivendicavano con determinazione il ruolo di Sindaco. Per un motivo politico generale e anche forse per una certa diffidenza nei miei confronti. Non avevano tutti i torti. A Roma si era formato il CAF, l’alleanza tra Craxi, Andreotti e Forlani, che aveva consolidato il centrosinistra in versione immobilistica, marginalizzando la sinistra DC, di cui facevo parte. Con una serie di interventi sulla stampa tutti i maggiorenti del PSI, a partire da quello che era allora la personalità più forte, l’on. Antonio Testa, motivavano la richiesta irrinunciabile del PSI.

La DC tuttavia non era in grado politicamente di cedere la guida della città. Il successo personale un po’ imprevisto in queste dimensione rendeva difficile anche la scelta di un altro democristiano, più gradito ai socialisti. Ancora il 18 luglio (le elezioni si erano tenute il 6 maggio!) la stampa titolava “Il PSI non molla – trattativa bloccata sulla poltrona di Giaretta”.

Fatto sta che le trattative si trascinarono per più di cento giorni. Suscitando perplessità e poi proteste nell’opinione pubblica. Ad un certo punto intervenne perfino la Curia vescovile con un inedito e duro comunicato della Pastorale del Lavoro: “Se il primo cittadino dell’Amministrazione comunale uscente ha avuto un vasto, diffuso e convinto consenso perché si vuole continuare ad ignorare questa esplicita volontà popolare preferendo il ricatto di logiche palesemente mercantili?”. Alla fine fu trovata una intesa tra DC e PSI, sacrificando un po’ gli altri alleati di giunta che furono esclusi dalla giunta provinciale. Il tutto avvenne in un incontro da cui fui escluso in un albergo della provincia (fu chiamato il patto del Cefri) in cui si dovette dare molto sul piano delle deleghe al Partito Socialista.

Era abbastanza singolare che si concludesse una intesa politica senza coinvolgere il sindaco che di quella intesa avrebbe dovuto essere il garante. Ma così andarono le cose. Per me fu poi una scelta difficile. Non mi era piaciuta l’impostazione e neppure la conclusione. Meditai seriamente l’idea di non accettare, ritirando la candidatura. Ma mi convinsero che il problema non era personale, che avevo ricevuto un mandato che dovevo onorare, ecc. Votai contro nella Direzione del partito che approvava l’esito delle trattative. Una posizione un po’ infantile, perché in questi casi se si accetta di guidare la giunta bisogna farsi carico dell’intesa politica che la regge. Ma era segno di un po’ di stress e di un disagio di fondo.

Il 26 luglio il Consiglio Comunale finalmente eleggeva Sindaco e Giunta, con 5 DC oltre al Sindaco, 4 socialisti con Verrecchia vicesindaco (anzi pro sindaco, perché si inventò questo titolo per rafforzarne la figura), un socialdemocratico ed un repubblicano. Entravano dopo 5 anni di giunte di soli uomini due donne, le democristiane Silvana Bortolami e Daria Minucci.

Si riprese l’attività superando le difficoltà politiche, potevo contare su un rapporto leale comunque con il vicesindaco Verrecchia, uomo amministrativamente capace e attivo, anche se avrei poi dovuto fare i conti con crescenti dissidi tra le correnti socialiste.

Fatto sta che non riuscii mai a sentire quella giunta interamente mia, per le modalità con cui si era formata ed era stata decisa. Anche questo aspetto psicologico contò quando nel 1992 decisi di andare oltre quella giunta, aprendo ad una collaborazione con il PCI. Ma questa è un’altra storia…

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1 commento

  1. Paolo
    29 agosto 2017

    Dall’Odissea:..non c’e’ sofferenza peggiore che ricordare i tempi felici quando si e’ nel dolore …?


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