Verso il Congresso Provinciale, quale modello di partito, quale ruolo per i territori

Pubblicato il 5 settembre 2017, da Pd e dintorni

 

Sono stato  invitato a concludere la Festa Democratica dell’Alta Padovana a Curtarolo, il 3 settembre scorso. Punto in Alta è un bell’esempio di progetto per coordinare la presenza territoriale di un partito. Meriterebbe anche una maggiore attenzione. Il tema era quello del titolo, riporto qui le cose dette, che ho già detto del resto in qualche altra occasione. Repetita juvant?

Sono 10 anni che è nato il Partito Democratico. Ha già una storia alle spalle a cui dobbiamo saper guardare con un po’ di orgoglio per quello che è stato fatto e anche con consapevolezza dei problemi che abbiamo davanti, delle premesse e promesse mancate che lo hanno indebolito nel paese. Non serve né la nostalgia (già adesso?) né un pessimismo improduttivo, ma consapevolezza sì, imparando dalla storia e impegnandosi per aprire una fase nuova.

Quando il 14 ottobre di dieci anni fa 3,5 milioni di italiani si recarono alle urne delle primarie per scegliere Veltroni come segretario di un nuovo partito e per dare fiducia ad un progetto di un partito nuovo per un’Italia nuova (questo era il messaggio) si iniziò davvero una nuova storia. Un’Italia nuova, che doveva fare i conti con un mondo globalizzato in cui le culture politiche novecentesche non erano più sufficienti, un partito nuovo per visione, campo elettorale, strutture partecipative.

Sono passati dieci anni, si sono succeduti 3 segretari eletti con le primarie (Veltroni, poi nel 2009 Bersani con 3,1 milioni di votanti, nel 2013 Renzi con 2,8 milioni e poi la sua rielezione del 2017 con 1,8 milioni) e due interregni (Franceschini ed Epifani) segnali di altrettante crisi di passaggio.

Che bilancio possiamo fare? In positivo che il PD, per forza elettorale, resta comunque il punto di riferimento indispensabile del riformismo italiano, senza il quale non si può neppure immaginare di competere per il governo del paese, sconfiggendo i diversi populismi che si sono nel frattempo affermati, elettoralmente e (in)culturalmente.

In negativo il fatto che il partito nuovo non è in alcun modo stato progettato e sviluppato e se ci guardiamo attorno vediamo quante persone abbiamo perso nei territori che avevano partecipato con entusiasmo alla fase fondativa del PD. Non si tratta solo e tanto di scissioni (che comunque ci sono state ed hanno fatto perdere militanze importanti) ma soprattutto di una sorta di scissione silenziosa di singoli che non hanno più dato fiducia al PD.

Occorre fare tesoro delle mancanze emerse più che scoraggiarsi. Perché si può ben sostenere con più argomenti rispetto a 10 anni fa che l’illusione che una società senza partiti produca una democrazia più efficiente si è dimostrata totalmente infondata. La critica alla partitocrazia sviluppata con superficialità dai maggiori media nazionali ha prodotto una democrazia più fragile, meno autorevole e riconosciuta. Io penso che dobbiamo riflettere su ciò che ha scritto qualche tempo fa Veltroni: “: “Io credo nel valore dei partiti, anche nella società post-ideologica. Anzi ancora di più. Quando si allenta il vincolo ideologico che comunque costituisce un recinto dal quale è difficile uscire ed entrare, si devono rendere più forti quelli valoriali, culturali, politici…I partiti non sono piramidi che in ogni caso hanno bisogno delle fondamenta per stare in piedi. Sono fiumi, che hanno un senso perché non stanno mai fermi, perché si alimentano di acque sempre nuove, perché cambiano il mare nel quale confluiscono”.

Su questa idea di partito dovremmo lavorare. Un modello di partito più difficile da costruire di quello tradizionale ma necessario. Perché è cambiata la società ed il suo modo di organizzarsi. Bene o male i partiti per un lungo periodo con la nascita della Repubblica hanno avuto una sorta di monopolio della partecipazione politica. La società era naturalmente articolata in tante organizzazioni sociali (sindacati e associazioni forti, strutture ecclesiali molto radicate, ecc.) ma alla fine la porta di ingresso alla politica ed alla vita istituzionale era costituita dalle organizzazioni partitiche.

Oggi non è più così. Ci sono molte altre forme in grado di incidere sulla vita pubblica e di fornire porte di ingresso alla vita istituzionale. I partiti non hanno più il monopolio, al contrario c’è semmai una pregiudiziale nei loro confronti. Si è aperta una competizione sociale nel mercato della rappresentanza e il partito deve porsi con più chiarezza e determinazione l’obiettivo: cosa è quello che può offrire in questo mercato della rappresentanza? In grado di attrarre e incuriosire, in una società aperta e mobile in cui c’è una forte disintermediazione in tutti i campi (compre in rete senza la mediazione del negozio, mi informo senza la mediazione della televisione o dei quotidiani, penso di poter fare politica senza la mediazione dei partiti, o di difendere i miei interessi senza il sindacato, ecc.).

Dico qui delle cose che ho già detto in altre occasioni (ad esempio nei convegni di Praglia o nelle attività formative del PD di Vicenza) che possono sembrare perfino ovvie, ma che ovvie finiscono per non essere se poi non sono oggetto di una accurata progettazione da parte del PD. Cosa occorrerebbe?

Una storia ed una interpretazione che aiuti le persone a dare un senso generale a quello che accade. La crisi della democrazia è anche una crisi antropologica, di senso. Cambia tutto nella vita delle persone, nelle consuetudini, nei valori condivisi. Tutto questo genera paure, frustrazioni, incertezze, perdita del senso di sé. Solitudini anche, e perciò rancori, poca consapevolezza del futuro. Dove trovare risposte generali, visioni che aiutino a comprendere e possano perciò rassicurare. Dovrebbe essere la funzione dei partiti. Essere semplici nella comunicazione, certo, ma non banali e superficiali. Una comunicazione semplice accompagnata da un pensiero profondo.

Un accesso alle competenze necessarie per essere cittadini protagonisti nella vita democratica. È il grande tema della formazione alla politica. Per i dirigenti, per i militanti, per i cittadini. Dove ci si può formare delle conoscenze condivise in un mondo dominato dalle fake news, in cui vengono a mancare i più elementari principi se non di verità di verosimiglianza? Sono necessari luoghi dove costruire competenze necessarie, dalle più semplici a quelle più complesse, a seconda dell’impegno che si vuole riservare all’impegno nelle strutture democratiche. Anche le competenze di come si vive in una comunità di pensiero e di azione, accettando diversità senza diventare avversariPer questa via creando anche un sapere condiviso, senza il quale è impossibile costruire buona politica. Se tutto è relativo, se una idea vale un’altra, se ci si limita al cinguettio poco si offre ad una domanda inespressa che c’è nella società per essere aiutati a capire, a partecipare, a poter dire la propria.

Una selezione efficacie delle classi dirigenti. Penso che il tema della competenza stia riemergendo nel dibattito pubblico. L’esperienza dei 5 stelle sta lì a dimostrare che l’improvvisazione, la selezione casuale con qualche clic, l’idea che uno vale uno e che basti il buon senso per governare cose complesse, tutto ciò non produce una classe dirigente all’altezza, e neppure una rete di militanza che la accompagni. La stessa esperienza delle primarie del PD per la selezione dei parlamentari conferma che se non c’è un meccanismo di formazione e di selezione basata sull’acquisizione progressiva di capacità, esperienze e competenze, autorevolezza sociale, sistema di relazioni, è difficile far sentire i parlamentari come rappresentanti autorevoli dei propri territori. In grado a Roma di far vivere la democrazia parlamentare, senza subordinazioni ai “capi” e senza sudditanze ai poteri della burocrazia parlamentare e governativa.

Su queste tre piste di lavoro si possono ricostruire le fondamenta di un partito come comunità riconoscibile all’esterno, ma anche come comunità vitale, in cui è attraente starci, perché si consolidano anche esperienze, amicizie, arricchimenti culturali. E perciò si considera anche la diversità una ricchezza, ci si abitua a convivere con le differenze, trovando le cose essenziali che uniscono. È stata questa la ricchezza fondativa del PD, che ha messo insieme storie molto diverse, per il passato anche conflittuali.

Mi sembra che questa virtù si sia parecchio persa per strada. Prevale un dibattito anche interno piuttosto rancoroso, in cui la diversità viene vista con fastidio, lo spirito critico come un ostacolo. Al di là della scissione che si è realizzata (al momento poco dannosa in termini di voti ma pesante in termini di perdita di militanza) questo porta all’allontanamento di tante persone, di militanza e di esperienze. Perché se non c’è interesse per capire le cose che uno dice, per discutere di punti di vista diversi uno si sente inutile e se ne sta a casa.

Abbiamo di fronte l’occasione del Congresso provinciale. Cosa fare per evitare che sia un Congresso inutile (come lo è stato, mi sembra, il Congresso regionale)? Una scadenza perché poi tutto continui come prima, con un partito svuotato di senso e di attività creativa? L’esperienza di questi anni dovrebbe insegnarci che è vero che la politica si è molto spostata in direzione di un leaderismo personale ma anche che la desertificazione dei territori porta con sé conseguenze gravi quando si tratta di raccogliere il voto a livello locale, in cui una leadership nazionale non è sufficiente.

Mi piacerebbe che almeno questa volta il Segretario uscisse non tanto da designazioni di vertice e dalla timidezza di un confronto ma attraverso una proposta che si irrobustisce nei territori, attorno ad una idea progettuale per il partito piuttosto che ad una asfittica conta sulle appartenenze alle correnti nazionali. Qui di seguito alcuni suggerimenti per la costruzione di un progetto.

Il Partito ha bisogno di essere capace di idea/zione. Una capacita di ideazione e di lettura del territorio in cui operiamo, capace poi di tradursi in azione. Senza questa capacità il partito è un attrezzo inutile. Buono per promuovere (ma sempre meno) qualche carriera politica individuale ma non una capacità di governo di una comunità. Qui c’è un lavoro molto intenso da fare. I motivi del poco rendimento elettorale del PD a Padova, pur avendo guidato alla vittoria la coalizione, sta in tanti motivi, tra i quali ci sono la rinuncia a presentarsi all’opinione pubblica con un proprio progetto, con una propria visione della città.

Sono tra quelli ad esempio che ritengono che la posizione assunta dal PD sul referendum zaiesco con un sì critico rischi di diventare un sì pavido se la critica non si esercita con ricchezza di argomentazioni, cosa che finora è mancata. Perché l’idea di autonomia che abbiamo noi è radicalmente diversa da quella deriva leghista che è contro l’idea di stato, contro l’Europa, chiusa in un localismo asfittico e rancoroso. Prigionieri tra l’altro di un centralismo regionale, che comprime in ogni modo l’autonomia dei comuni, in cui la stessa vita del consiglio e degli stessi assessori viene ridotta ai minimi termini. Il rischio del sì critico è di accettare di fatto l’agenda di Zaia e di non svelare l’imbroglio sottostante. Perché la maggior parte di quelli che voteranno sì lo farà pensando che questo è lo strumento per trattenere più soldi nel territorio e per conquistare una autonomia speciale come le regioni confinanti. E questi sono proprio i due quesiti contenuti nella legge regionale e bocciati dalla Corte Costituzionale. In ogni caso bisognerebbe sviluppare con molta più energia la nostra idea di autonomia e federalismo.

Eppure le risorse per fare questo lavoro ci sarebbero tutte. Tante energie anche intellettuali nell’Università, nei centri di ricerca, nei mondi associativi sarebbero pronte a dare una mano ma non vengono coinvolti. Per pigrizia, per una visione chiusa ed esclusiva? Non so, ma questo purtroppo avviene. Penso ad esempio all’intuizione della “Cittadella delle idee”, nata nel territorio e lasciata cadere senza interesse almeno finora, mentre era uno strumento molto interessante di costruzione di pensiero.

Il Partito ha bisogno di essere un soggetto attivo di formazione. Niente o quasi niente deriva dall’eredità del passato. Bisogna costruire pensiero condiviso, competenze, conoscenze. Anche qui le risorse ci sono, sia dal lato dei formatori, sia dal lato della domanda. L’esperienza della Scuola Veneta di Politica, ormai datata, testimonia comunque che se si fa una seria offerta formativa gente interessata ce n’è e parecchia. E che dalla formazione possono nascere nuove militanze, nuovi protagonismi

Il Partito ha bisogno di un progetto per i Circoli. È una risorsa che ancora abbiamo, non ancora per molto se non coltivata. Ma c’è ancora parecchia gente che ha voglia di impegnarsi in una animazione territoriale, che è essenziale per dare vitalità alla presenza politica. Ed è una risorsa in più rispetto ad altri partiti e movimenti. Ma non può essere fatta di spontaneismi e di solitudini, per cui il Segretario di Circolo avverte che la propria azione, che ci sia o non ci sia, è indifferente per il provinciale. Occorre che la singolarità diventi rete. Anche qui l’esperienza di Punto in Alta dovrebbe insegnare qualcosa. Ad esempio occorrerebbe che insieme ai circoli si progettassero delle campagne di animazione territoriale, in cui ai circoli si metta a disposizione materiale propagandistico ben costruito, relatori, ecc.

Il Partito ha bisogno di mettere in rete anche l’esperienza dei propri amministratori. Che ci sono, che guidano comuni importanti, anche se spesso mimetizzati in liste civico. Che ci sono anche a presidio di posizioni di minoranza, spesso scomode e non riconosciute. Anche qui però prevale la solitudine piuttosto che il concetto di mutuo aiuta e di rete pensante e coordinata.

Sono solo alcuni spunti, che però penso diano una idea del lavoro che dovrebbe essere affrontato. Perché con una società civile che dimostra anche nel territorio padovano segni di vitalità insieme a segnali di sfibramento si possa costruire una avventura condivisa, oltre tante solitudini, ricostruendo il senso di una comunità di cui sentirsi parte. Non si tratta solo di fare delle cose insieme, si tratta anche insieme di pensarle, di viverle e di condividerle.

Potrebbe essere l’avvio di un progetto attorno a 4 C simboliche:

Coraggio, perché bisogno aprire la strada all’innovazione

Cervello, perché bisogna costruire un pensiero per il nostro territorio

Cuore, perché serve passione e generosità

Costanza, perché nulla si costruisce senza un lavoro intenso, continuo, che non si scoraggia.

Perciò buon lavoro a chi questa buona battaglia la vuole combattere.

 

  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn
  • RSS
  • Pinterest
  • Add to favorites
  • Print
  • Email

Tags: , , ,

Scrivi un commento