Senatore Paolo Giaretta



aprile 2010

CONTRIBUTO ALLA RIFLESSIONE POSTELETTORALE
di Paolo Giaretta

L'interpretazione dei risultati elettorali è sempre complessa, particolarmente in elezioni amministrative in cui si accentuano gli aspetti legati a vicende territoriali. Possono cambiare i risultati a seconda delle basi di confronto temporale e territoriale che vengono assunte. L'importante è scegliere una chiave di lettura con chiarezza.
Io scelgo nell'interpretazione del voto due elementi:
Faccio il confronto tra i risultati delle elezioni politiche del 2008 (Camera) e quelli delle regionali 2010. Sono i due anni decisivi per il PD: nel 2008 ci siamo presentati per la prima volta con questa formula. Il 2005 è troppo lontano politicamente, era veramente un'altro pianeta politico e del resto le elezioni regionali 2010 sono state caratterizzate per molti motivi da una assoluta politicizzazione del voto: si è discusso pochissimo di programmi regionali e moltissimo (nei limiti consentiti dalla censura imposta ai talk show televisivi) di politica nazionale. Faccio il confronto sui numeri assoluti degli elettori. Dal punto di vista metodologico è una forzatura perchè strutturalmente vi è una minore partecipazione al voto alle regionali rispetto alle elezioni politiche generali tuttavia mi interessa mettere in luce il dato degli elettori in valore assoluto: le percentuali rischiano di dire troppo poco rispetto ai movimenti profondi degli elettori. Abbiamo detto che queste elezioni comunque avevano una valenza politica, dentro cui ci sta anche un dato molto elevato (per tutte le forze politiche) di astensione non tanto come pigrizia o generica delusione ma come scelta attiva dell'elettore.
Con queste premesse utilizzo i dati elettorali disponibili dal 2008 al 2010 per il Pd e ne viene fuori questa tabellina

Italia Veneto
Politiche 2008 (Camera) 10318000 812506
Europee 2009 6957000 548401
Regionali 2010 5851000 456309
Differenza 2008-2010 4.467.000 (-43,3%) -356.197 (-43,8%)
Questo è il dato su cui a mio avviso dobbiamo concentrare la nostra attenzione. In soli due anni perdiamo il 43, 8% dei nostri elettori in Veneto e appena qualche decimale in meno a livello nazionale. Persone fisiche che nel 2008 avevano trovato motivi sufficienti per uscire di casa e mettere la croce sul simbolo del PD e due anni dopo ci hanno rifiutato il voto: votando altri o ritenendo inutile andare a votare.
Eppure nel 2008 vi erano molti motivi di sconforto nell'elettorato progressista. Le elezioni erano anticipate per l'incapacità della coalizione a sostegno di Prodi di affrontare la sfida della governabilità. Per la limitatissima base parlamentare certamente ma anche per una continua e fastidiosa distinzione delle diverse forze politiche e di singoli ministri sulle scelte del Governo. Andavamo alle elezioni con un fallimento sulle spalle. Il quadro del 2010 presentava elementi diversi. Questa volta in difficoltà era più il centrodestra: un governo oggettivamente inattivo di fronte alla crisi economica e in debito rispetto alle promesse elettorali, una maggioranza con un tasso di litigiosità non inferiore a quello che aveva caratterizzato il governo Prodi (ma con una maggioranza parlamentare esorbitante...), scandali di varia natura, i pasticci sulle liste, ecc.
Ed in effetti tutto questo non è stato senza conseguenze per gli orientamenti elettorali dei cittadini. Infatti pure il PdL perde il 40,3% dei voti ricevuti dai cittadini nel 2008.
Il problema è però questo: perchè tutta questa delusione dell'elettore di centrodestra si rivolge esclusivamente in direzione dell'astensionismo e della lega e neppure in minima parte viene preso in considerazione come alternativa possibile il PD?
Perchè in Italia non succede come in Francia dove i socialisti alle regionali non sono in grado di intascare una parte della delusione degli elettori della destra che si indirizza sull'astensione o a destra ma mobilitano il proprio elettorato e mantengono il controllo del potere locale? Non si tratta solo di una perdita (grave) di molte amministrazioni regionali, anche dove si era ben governato, ma di una mancanza di vitalità del partito.
Proviamo a fare un esercizio di fantasia. Che sul serio gli elettori che ci avevano votato nel 2008 avvertissero il senso di una emergenza democratica, volessero dare al Governo un forte segnale di insoddisfazione per obbligarlo ad intervenire con più decisione sulle questioni aperte. Volessero anche premiare una nuova gestione del PD incoraggiandolo a rafforzarsi come partito più solido. E perciò, facendo l'impresa, fossero andati tutti a rivotare il PD.
Avremmo avuto nel Veneto un quadro con valori percentuali di questo tipo:

fantasia
realtà
Lega
30,4
35,1
PdL
21,4
24,7
Pd
31,3
20,3
IdV
4,6
5,3
UdC
4,2
4,9
Altri
8,1
9,7
Il PD con il 31,3% sarebbe stato il primo partito, il PdL avrebbe avuto una percentuale di poco superiore a quella che ha avuto il PD nella realtà.
Naturalmente è un esercizio di fantasia che non ha alcuna parentela con la realtà possibile. Però ci dice qualcosa di vero. Spesso diciamo che nel Veneto in particolare è quasi impossibile competere perchè c'è una parte maggioritaria di elettorato che ha un pregiudizio ideologico nei nostri confronti. E' certamente vero, tuttavia questo esercizio di fantasia mette in luce che se riusciamo ad avere argomenti convincenti nei confronti di quell'elettorato che avendoci già votato non ha pregiudizi ideologici o definitivi il campo è profondamente diverso. Del resto è quello che succede con molti nostri sindaci, vincitori in terre politicamente ostili, non solo nelle grandi città, perchè offrono argomenti convincenti per la mobilitazione dell'elettorato. Dal punto di vista dell'azione politica: è importante espandere l'attrazione nel campo degli avversari ma prima di tutto occorre saper dare più solidità e fedeltà al consenso che abbiamo saputo nel passato mettere insieme. Lavoriamo bene ed in profondità con i nostri elettori prima di pensare di riuscire ad attrarre gli altri.

Per capire perchè non siamo stati attrattivi in queste elezioni dobbiamo capire perchè in condizioni più difficili in quelle precedenti siamo stati convincenti per molti più elettori. Dobbiamo farlo liberandoci dagli occhiali piuttosto inadeguati della geografia interna del partito. Ci sono gli uomini del Segretario che tendono a minimizzare o quelli che hanno votato per Franceschini che amplificano la sconfitta? Non è questo il punto, anche perchè dal 2008 ad oggi le responsabilità sono state ampiamente condivise da tutto il gruppo dirigente. Il punto è che nel 2008 prendemmo tanti voti (lo possiamo veramente dire con il senno di poi). Secondo me li prendemmo per tre motivi principali.
a) Allora fummo capaci di offrire una chiave di lettura convincente ed ottimistica della società italiana, individuando i suoi punti di forza piuttosto che i suoi punti di debolezza. Ci sottraemmo alla tentazione di riconoscere a Berlusconi di essere il punto discriminante della politica italiana. Cercammo di presentare una idea di società, una sua narrazione un approdo possibile su cui costruire alleanze sociali e culturali prima che politiche. Un appello a mettersi gioco per il bene della nazione.
b) La proposta del PD apparve a molti un rimedio coraggioso e concreto alla frammentazione eccessiva della politica italiana, alla sua confusione e conseguentemente alla sua incapacità di decidere nei tempi necessari; una iniziativa concreta per fare ciò che spettava a noi, a prescindere da quello che facevano i nostri avversari. La tanto criticata anche in casa nostra vocazione maggioritaria era una risposta a questa attesa.
c) Abbiamo proposto un progetto coraggioso di modernizzazione del paese, oltre le rigidità ed i conservatorismi corporativi. L'appello al voto conteneva in sé una scommessa positiva per il nostro paese.
Poi non è stato dato seguito a questa scommessa. Ci sono stati gli errori di Veltroni e dei suoi collaboratori che talvolta si sono rinchiusi in una orgogliosa autosufficienza, sottovalutando ciò che le strutture del partito potevano ancora dare. Si è trascurata la potenzialità dei territori nella costruzione del nuovo partito. Non dimentico l'umiliazione cui sono stati sottoposti i territori con la formazione delle liste per il parlamento, tutte chiuse in decisioni romanocentriche. C'è stata soprattutto una reazione dei gruppi dirigenti contro l'introduzione di una lettura innovativa della società, contro la sfida di modalità organizzative diverse.
Qui c'è stata la grande delusione che ha prodotto un distacco rilevante. Prima la delusione di Prodi, poi quella di Veltroni (quello che aveva incarnato la proposta di Veltroni con la fondazione del PD). In sostanza una parte consistente dei nostri elettori ci hanno detto: tornate quando avrete capito la lezione e quando sarete pronti a offrirci proposte convincenti.

Non possiamo trascurare un altro fatto. Dopo la caduta di Veltroni il partito ha assunto una più marcata caratterizzazione "antiberlusconiana". La segreteria di Franceschini e la sua campagna per le primarie ha accentuato questi aspetti, raccogliendo sollecitazioni diffuse e una campagna molto forte di "Repubblica". Anche la campagna elettorale di Bersani ha avuto questa caratteristica, con la necessità di non lasciare spazi eccessivi a Italia dei Valori e altri movimenti alla sinistra e di reagire con vigore agli attacchi continui agli organi di garanzia democratica. Eppure per una parte degli elettori disponibili a votare il PD è stata più efficace la campagna veltroniana che ignorava "il principale esponente dello schieramento avverso" di quella che ha cercato di mettere l'accento sul rischio di una emergenza democratica e sociale che pure è presente.

Da qui occorre ripartire. Non valgono scorciatoie organizzativistiche nè di alleanze più aritmetiche che politiche. Problemi certo veri: come stare dentro il Paese, con quali rapporti tra iniziativa locale saldamente radicata nei territori e dimensione di un partito della nazione. Come essere capaci di costituire il perno di una alleanza credibile: con chi, per fare cosa.
Da queste vicende io colgo il senso di una lezione.
Nulla si può fare se prima non si lavora con rigore e determinazione per definire la personalità del partito, la sua visione del paese, il progetto e la sua convincente narrazione.
Siamo un soggetto ancora troppo indefinito nella sua caratterizzazione, con troppe incoerenze tra ciò che diciamo e ciò che riusciamo a fare. Abbiamo probabilmente un elettorato più esigente di quello che è disponibile a votare Lega e PdL nonostante le molte promesse tradite.
Certamente esistono altri problemi che nel dibattito interno vengono sollevati: ad esempio le modalità organizzative della presenza sui territori. Possiamo ritenere che la provocazione di Prodi sui partiti regionali sia tecnicamente discutibile, ma il tema di una modernità organizzativa del partito che rompa lo schema romanocentrico e gerarchico è un tema vero.
Così come è vero il tema delle alleanze, purché non venga tradotto in uno schema ideologico.
Che si debba ricercare il maggior allargamento possibile di una maggioranza politica è evidente. Ma questo non può essere un alibi per demandare ad altri il lavoro che dobbiamo fare noi o per immaginare scenari (come si voleva fare in Puglia) del tutto inesistenti. L'UDC può essere un nostro interlocutore? Certamente, specialmente a livello di alleanze locali che possono essere decisive in una regione come il Veneto. Ma non dobbiamo nascondere i limiti e le difficoltà. Di carattere numerico e di carattere politico. L'UDC ha usato alle regionali lo schema delle alleanze flessibili. I risultati sono stati evidenti. Dove si è alleato con noi ha perso la metà dei voti in Piemonte, un terzo nelle Marche ed un quarto in Liguria. Dove è andato con il centrodestra ha guadagnato 2 o 3 punti percentuali. L'elettorato attuale dell'UDC è un elettorato che conserva tratti di anticomunismo che mal si conciliano con uno schieramento politico con noi. Un ragionamento speculare può essere fatto con l'IdV: Di Pietro ha impostato la campagna elettorale sulla base di una esplicita affermazione di ricerca di un'intesa con il PD ed ha subito una forte erosione dalla lista Grillo.
Dunque la ricerca di alleanze politicamente e programmaticamente compatibili non può rimuovere il problema principale: la fisionomia del nostro partito. I prossimi mesi devono essere dedicati a questo lavoro, con una ricerca libera e coraggiosa che faccia emergere i punti di incontro e anche le differenze, guidata però da due capisaldi.
Il primo è legato ad una necessaria coerenza: se vogliamo rappresentare la parte progressista dobbiamo guidare il cambiamento. Non si sono mai visti progressisti alla guida di chi vuole conservare tutto. I cambiamenti necessari per modernizzare il paese e far star meglio chi ha un benessere insufficiente. Siamo capaci di dire molti no spesso del tutto giustificati rispetto all'agenda politica del centrodestra, ma per essere convincenti bisogna dire con chiarezza dei sì ai cambiamenti necessari.
Il secondo caposaldo è la ricerca onesta di una sintesi tra le culture fondative. E' chiaro che le difficoltà elettorali portano ad un indebolimento della spinta innovativa ed al fatto che ognuno cerca di rinchiudersi nella propria visione. E' l'errore peggiore che si possa fare, perchè significherebbe la sconfitta del progetto. Non è con le nostalgie o con profili sub identitari che si risolvono i problemi. C'è chi vuole un partito che non ponga problemi con i cattolici più tradizionalisti, che vorrebbe un partito laicista, chi sogna un partito sulle posizioni di Grillo, chi ha nostalgia delle vecchie forme del partito della sinistra italiana. Non è possibile. E' proprio la crisi che si è presentata a livello planetario a dirci che i problemi sono nuovi e richiedono risposte nuove. Dobbiamo sfuggire alla tentazione della nicchia rassicurante: proprio il problema che abbiamo nel voto operaio, popolare e di persone a bassa istruzione ci deve far capire che non sono i problemi di nicchia a farci camminare, ma la capacità di mettere in campo una visione generale sul paese. Ancora una volta: questa era la sostanza dell'ambizione della vocazione maggioritaria. Se vogliamo essere perno di una alleanza dobbiamo caratterizzarci per un profilo riformatore, accettare che alla nostra sinistra possano esserci formazioni più radicali con cui costruire le alleanze possibili ma non nascondendo le diversità di lettura della società. Finora questo lavoro è stato accantonato perchè è quello più difficile. Deve essere affrontato con rigore e determinazione, perchè è la base senza la quale non è possibile l'iniziativa politica. Ancora una volta: una rappresentazione del paese e delle forze in campo, un progetto convincente, una narrazione affascinante.

Questo vale anche per il PD veneto. Terra difficile per noi e tuttavia contendibile. Perfino la Lega che è risultata la grande vincitrice deve registrare tra il 2008 e il 2010 un arretramento in termini di voti assoluti. Ne perde 42.000, il 5% di quelli che aveva ricevuto due anni fa. Sono tanti se si tiene conto del crollo del PdL e di tanti voti che sono transitati verso la Lega da questo versante.
Perciò occorre lavorare con più convinzione sulla definizione del profilo programmatico del partito. E' una cosa che non sono riuscito a fare da segretario regionale. Non vi è stata una adeguata convinzione del gruppo dirigente che sia una cosa importante. Eppure un partito non vive senza idee forti che ne guidino l'azione e che vengano percepite come criterio orientativo dagli elettori. Chi in campagna elettorale avesse voluto conoscere il progetto del PD per la Regione Veneto non avrebbe trovato significative indicazioni: è mancato un programma, non tanto inteso come elenco delle cose che vorremmo fare, ma come lettura della società veneta e risposte strategiche che avremmo voluto mettere in campo.
Bisogna correggere queste carenze. Puntando sulle risorse che abbiamo e che spesso trascuriamo. Ne individuo tre.
La prima è la rete degli amministratori locali. Governiamo quattro comuni capoluogo su sette, una provincia e molti comuni anche di dimensioni medie. E' un blocco che se agisce unitariamente è in grado di imporre l'agenda politica su molti temi che riguardano la vita dei cittadini. Ad essi possiamo aggiungere 14 consiglieri regionali ed un buon numero di parlamentari. Gente che a tempo pieno può sostenere una azione politica sul territorio.
La seconda è la rete dei circoli. Si sono dette tante sciocchezze sul tema del radicamento territoriale. La verità è che potenzialmente la presenza dei circoli nostri non ha eguali con la rete territoriale di altri partiti. Il problema è che sono lasciati troppo soli, senza strumenti adeguati e che spesso siamo troppo autoreferenziali e minoritari rispetto ai temi della società veneta. però è una enorme potenzialità che va sfruttata meglio e con più decisione. Sempre ricordando che come sottolinea Scalfari "Il radicamento sul territorio non dipende dal numero dei circoli o delle sezioni. Dipende dalla condivisione della vita dei dirigenti con quella del popolo che li segue. Se quella condivisione non c'è e al suo posto c'è separatezza, il contenitore è una scatola vuota e il gruppo dirigente galleggia appunto nel vuoto. Non è questione di età, di giovani o vecchi, di donne o di uomini, di settentrionali o di meridionali, di colti o meno colti. È questione di creare una comunità e viverla come tale".
La terza è il mondo della Rete. E' un mondo difficile, in cui prevale spesso una comunicazione emotiva e portata a posizioni radicali. però esiste ed è frequentata da tanti nostri militanti ed elettori. Non dobbiamo scambiare una parte per il tutto e ignorare il grande mondo che comunque sta fuori dalla rete però lo strumento è importante e dobbiamo usarlo meglio.
Occorre un lavoro portato avanti con convinzione e continuità: il progetto costruito dìsulla società veneta, gli strumenti da utilizzare fino in fondo, un giudizio rigoroso e severo sull'azione di chi assume responsabilità di servizio al partito, aiutandoci a far meglio e cambiando quando non si è all'altezza delle necessità.
Far camminare intanto su queste gambe il nostro progetto politico. E' possibile.

 
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