Senatore Paolo Giaretta
Paolo Giaretta in Senato

(1397-B) Legge di contabilità e finanza pubblica

intervento di aula - 15 dicembre 2009

Signora Presidente, signor Vice Ministro, colleghi, quando abbiamo iniziato a discutere di questo argomento, vi erano con chiarezza due questioni di fronte a noi: la prima era riuscire a migliorare la trasparenza delle decisioni di bilancio, come componente essenziale di un processo democratico; anzi, come ben sappiamo, questo è il punto più delicato della democrazia: quanti soldi si prendono, dove e come si prendono e per fare che cosa; si tratta della base della nascita della democrazia parlamentare. Ciò in un contesto in cui torna certamente la centralità delle politiche di bilancio di fronte alla crisi globale che ha attraversato il nostro pianeta e che ci lascia un'eredità di interventi di carattere strutturale che vengono richiesti alla funzione pubblica.
Per altro verso, vi era anche la consapevolezza che il bilancio dello Stato è parte di una più complessiva gestione dell'area pubblica: da un lato, è maggiormente vincolato rispetto al passato, per l'inserimento in un processo più ampio di equilibrio finanziario a livello europeo; dall'altro, è anche limitato dal crescere di una soggettività del sistema delle Regioni e delle amministrazioni. In senso proprio, si tratta anche di un bilancio dello Stato che assume una certa marginalità rispetto al più ampio recinto del conto consolidato della pubblica amministrazione, che diventa una grandezza molto più significativa anche nell'ambito delle politiche fiscali a livello europeo.
La seconda questione consisteva nel regolamentare meglio il rapporto tra la funzione di governo e quella parlamentare, che ha subito una gravissima alterazione nel corso del tempo, modificando quel equilibrio bilanciato che era sotteso dall'articolo 81 della Costituzione. Ricordo ancora una volta che tra il 1995 e il 2002 per un solo anno si vide un voto di fiducia sul collegato alla legge finanziaria, mentre nel periodo tra il 2003 e il 2009 l'approvazione degli strumenti di bilancio è sempre avvenuta con il voto di fiducia posto sul maxiemendamento del Governo.
Queste erano le consapevolezze che ci stavano di fronte. Mi permetterei di dire che si è trattato di consapevolezza a parole nelle dichiarazioni, nelle interviste e nelle promesse anche di fronte all'opinione pubblica. Nella conduzione pratica, però, degli atti di governo non si è visto in nessun modo una convergenza: in attesa di attuare quelle linee di riforma condivise, si sarebbe ben potuto realizzare nei comportamenti concreti del Governo un'anticipazione di quella impostazione.
In questi due anni non siamo andati in quella direzione, al contrario; ho letto in questi giorni uno studio interessante che ha presentato il Servizio del bilancio del Senato in cui si dimostra che il 90 per cento degli oneri finanziari sono legati a conversioni di decreti-legge: per la stragrande maggioranza, gli interventi avvengono per attuazione di decreti-legge del Governo, per la maggior parte approvati con voto di fiducia. Solo lo 0,01 per cento degli oneri sono derivanti da iniziative parlamentari.
In queste due cifre c'è la gravità dell'alterazione di questo rapporto, confermata del resto anche dalla finanziaria di quest'anno, su cui abbiamo sentito tante declamazioni sul superamento della stagione delle finanziarie vecchio stile; invece siamo fermi ad un maxiemendamento con qualche centinaio di commi, e ricordo, per misurare ancora una volta la forte separazione tra realtà e fatti, che la maggior parte dei proventi dello scudo fiscale va a finire in un fondo indifferenziato e globale presso la Presidenza del Consiglio, che rappresenta la negazione della trasparenza del bilancio e la negazione di quei principi che faticosamente si è cercato di scrivere in questo disegno di legge.
Adesso ci troviamo di fronte ad un testo che ritorna dalla Camera con modifiche profonde, anche su parti decisive che erano state oggetto al Senato di un'azione convergente di maggioranza e opposizione. Penso che questo sia un esempio negativo del bicameralismo. Non mancano casi positivi, in cui il bicameralismo perfetto consente di correggere errori, ma questo mi sembra un esempio di come la doppia lettura possa comportare peggioramenti.
Il giudizio sintetico che mi sentirei di esprimere è che, rispetto al testo licenziato dal Senato, le cose aggiunte vanno sostanzialmente bene: colmano in parte alcune lacune che l'opposizione, ma anche esponenti della maggioranza avevano evidenziato nel corso dell'esame al Senato. Sono le cose tolte, però, che vanno veramente male e che segnano, a mio avviso, un ripiegamento di notevole gravità rispetto all'ambizione di introdurre una coraggiosa riforma delle procedure. Questo è il punto fondamentale.
Non nego che con l'approvazione di queste norme si faranno dei passi in avanti: vi saranno una procedura più ordinata e trasparente, un miglioramento della base informativa nelle procedure della sessione bilancio, la revisione della struttura di bilancio - con una più stretta corrispondenza tra programmi, risorse e strutture - che era stata uno dei motivi della scarsa efficacia della precedente riforma. Tuttavia, il problema non era operare una sorta di buona manutenzione delle norme o di razionalizzazione in un testo unico delle norme di contabilità di Stato, bensì quello di introdurre una forte e decisiva innovazione che fosse adeguata alla stagione che ci attende.
Il senatore Morando ha già parlato della triade di innovazioni che avevamo previsto: la Commissione per la trasparenza dei conti pubblici (che è altra cosa rispetto all'attività normale delle Commissioni bilancio di Camera e Senato), il collegamento automatico alle banche dati, per dare certezza della parità delle posizioni e, soprattutto, il Servizio unificato del bilancio. Tutto questo avrebbe significato il recupero di un rapporto virtuoso tra la funzione del Governo, nella sua autorevolezza, e la funzione del controllo parlamentare.
A ciò aggiungo una considerazione di dettaglio, rispetto alla gravità degli aspetti sopra enunciati, ma che attiene alla chiarezza e alla trasparenza dei conti: l'avere eliminato l'obbligatorietà della relazione tecnica sugli emendamenti del relatore, quando sappiamo che buona parte delle proposte del Governo nella prassi parlamentare passano attraverso il cosiddetto emendamento del relatore, significa sacrificare un altro contributo fondamentale alla chiarezza.
Come si può pensare di affrontare i passaggi così impegnativi che ci attendono (come il federalismo e il Senato federale) se non siamo in grado di mettere in discussione una modesta burocrazia parlamentare, l'altrettanto modesta ambizione delle due Commissioni di non vedere in nessun modo toccate le loro autonomie e la loro difficoltà di lavorare insieme? Come possiamo pensare di avere la forza politica di affrontare questi cambiamenti, che sarebbero così necessari?
Restano poi irrisolte nel passaggio alla Camera due debolezze che non avevamo risolto in Senato. In primo luogo, vi è la necessità di passare seriamente da una contabilità dello Stato a una contabilità della Repubblica, associando in modo determinante nel processo di bilancio il sistema dalle autonomie locali. Questo è un problema che resta purtroppo irrisolto. Vi è poi il tema di un eccesso di centralizzazione del Tesoro in ogni decisione. Abbiamo visto dall'esperienza passata che per incidere sul serio nei meccanismi di spesa occorre anche una maggiore soggettività dei Ministeri di spesa, individuando le responsabilità nelle decisioni di spesa in direzione dell'efficienza e dell'efficacia. Ancora una volta, il lavoro della Commissione tecnica per la finanza pubblica - ahimè interrotto per responsabilità di questo Governo - aveva consentito di appurare come nel merito di decisioni non esterne (cioè assunte dal Ministro dell'economia e delle finanze), ma frutto della capacità di altra amministrazione all'interno dei singoli Ministeri, si sarebbero potuti introdurre regimi più virtuosi di controllo della spesa pubblica.
In conclusione, quando ormai trent'anni fa il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta introdusse il cosiddetto divorzio tra Banca d'Italia e Tesoro, attraverso cui la Banca d'Italia veniva liberata dal vincolo di acquistare attraverso l'emissione di moneta titoli di Stato non assorbiti dal mercato, fece una grande riforma che ha salvato il Paese: lo possiamo affermare con il senno di poi. Anche in quella occasione, da una consultazione degli atti relativi a quelle decisioni, emerge quante resistenze ci furono a causa degli interessi toccati, degli apparati burocratici e della difficoltà di aprire una fase totalmente nuova. Ci fu il coraggio della politica, ci fu la capacità di rompere le incrostazioni guardando al futuro. Dispiace che in questa occasione, se c'è stata certamente un'azione di miglioramento, non ci sia stato però tutto il coraggio necessario.
Mi auguro che la fase sperimentale che comunque ci attende consenta, come dicevano gli antichi, di poter dire: "crescit eundo"; che nel percorso di attuazione, quando si toccheranno di nuovo i nodi irrisolti, quando si faranno i decreti attuativi, quando si dovranno affrontare le riforme costituzionali, si trovi quel coraggio che in questa occasione, ahimè, è mancato. (Applausi dal Gruppo PD e del senatore Pardi. Congratulazioni).
 
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