Senatore Paolo Giaretta

Nuova fase - Rivista di politica e cultura

n. 3-4/2010


Economia: la crisi e il ritorno dell'etica?
Attualità della dottrina sociale della Chiesa
di Paolo Giaretta

Economia del dono, bene comune, umanesimo democratico, domanda di senso, etica condivisa, misurare la felicità, perfino la misura dell'anima (è questo il titolo di un saggio sulle diseguaglianze recentemente esito da due studiosi americani (1): sono tutti termini che sono usciti dai libri di etica e di sociologia e compaiono nei saggi degli economisti, di uomini di pensiero laico e religioso. Amartya Senn, Stefano Zamagni, solo per citare l'economista indiano premio Nobel dell'economia ed uno italiano che si è soffermato a lungo sui temi dell'economia solidale, hanno aperto piste nuove di riflessione. Non è in fondo una novità. Anche i teorici del liberalismo avevano ben presente che il mercato poteva funzionare se esistevano nella società valori condivisi di onestà e fiducia, che andavano oltre la correttezza commerciale ma esprimevano una convinzione etica. Hirsch, acuto pensatore liberale, li definiva beni pubblici indisponibili, senza i quali non poteva esservi sviluppo.
Adam Smith il grande economista fondatore nel '700 dell'economia classica - rappresentato , spesso con qualche semplificazione, come alfiere della libertà di iniziativa privata - si appellava alla virtù della mano invisibile del mercato, ma confidava anche sulla benevolenza del macellaio per avere una buona bistecca e prima della sua opera fondamentale "Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni" scrisse la "Teoria dei sentimenti morali".
Certo è che la grande crisi che ha scosso le fondamenta dell'economia globalizzata ha obbligato a riportare al centro la capacità di elaborare un pensiero interpretativo su ciò che è avvenuto e ha portato a riflettere con più attenzione sulla base antropologica dello sviluppo: "mentre in origine il sistema capitalistico si poteva concepire come il prodotto dei liberi impulsi individuali...ora sono i comportamenti umani ad apparire piuttosto come il frutto delle spinte prodotte dal sistema e dalla logica del suo funzionamento. Il sistema tende a rendersi progressivamente autonomo da quella base antropologica di interessi, passioni, ideali che lo hanno prodotto (2)".
E questo è il punto fondamentale del messaggio della Caritas in Veritate, quando Benedetto XVI sottolinea che la dottrina sociale della Chiesa "ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di essa o dopo di essa (3)". C'è una costante nella dottrina sociale della Chiesa che è apparsa in taluni frangenti non adeguata a comprendere la natura dell'attività economica e che oggi svela invece la sua straordinaria modernità e si dimostra strumento penetrante per orientare il pensiero su un nuovo fondamento nella visione dell'attività economica: la centralità di un'etica condivisa basata sul rispetto della pienezza della persona umana come fattore non solo di equilibrio individuale ma come risorsa collettiva per il buon funzionamento del mercato e delle relazioni economiche. E, di conseguenza, la diffidenza verso i due estremi del pendolo che ha caratterizzato il '900: la confidenza assoluta nel mercato e la confidenza assoluta nello Stato.

Crisi figlia di due eccessi
Ora al di là degli aspetti tecnici che presentano una indubbia complessità a noi può interessare mettere in luce quelle chiavi di lettura che mettono in luce più direttamente le responsabilità della politica.
La crisi nasce negli Stati Uniti da un eccesso di diseguaglianza. In luogo di procedere per via fiscale ad una più equa distribuzione del reddito prodotto le politiche fiscali dell'Amministrazione Bush hanno privilegiato i redditi più elevati. Per le famiglie a reddito medio e basso invece di politiche salariali adeguate a sostenere un maggiore potere d'acquisto si è concessa la possibilità di accedere a credito senza garanzie idonee e con tassi di interesse molto bassi. Ciò ha generato un colossale indebitamento delle famiglie americane e con l'esplodere della crisi un enorme impoverimento: posti di lavoro persi, case pignorate, risparmi in fumo. La crisi segnala anche gli elementi di una diseguaglianza a livello planetario. Gli Stati Uniti che vivono con un tenore di vita superiore a quello che sarebbe consentito dalla ricchezza prodotta e si indebitano sul mercato internazionale. La Cina che impone un risparmio forzoso ai propri cittadini mantenendo bassi consumi e servizi e investendo i risparmi sul debito americano: la Cina è il primo creditore degli Stati Uniti, e questo spiega molte difficoltà della politica estera americana.
Crescono molto le diseguaglianze nel mondo, sia all'interno dei singoli paesi, sia tra la parte della popolazione mondiale che è riuscita a prendere un treno della crescita e quella parte che è prigioniera della trappola della povertà. All'interno degli Stati le politiche fiscali figlie di una idea di un iperliberismo senza regole ha contribuito ad accrescere le diseguaglianze. Negli Stati Uniti il compenso medio dei top manager è divenuto pari a 150 volte il salario operaio, mentre 20 anni fa era 25 volte il salario operaio. Anche in Italia gli studi della Banca d'Italia registrano un crescere delle diseguaglianze: chi è ricco diventa più ricco, chi è povero non riesce più a trovare ascensori sociali che diano opportunità di migliorare le proprie condizioni.
La globalizzazione ha comportato opportunità di crescita per paesi che in un mondo più chiuso erano rimasti al margine di processi di sviluppo ma, a parte il fatto che anche per questi paesi la distribuzione del reddito marca forti diseguaglianze, superiori a quelle dei paesi occidentali, la distribuzione resta fortemente squilibrata e la velocità di crescita non diminuisce le distanze. Se prendiamo l'indice di sviluppo umano calcolato ogni anno dall'ONU possiamo registrare che i 20 paesi più ricchi hanno lo stesso scarto con i paesi più poveri oggi come vent'anni fa.
Lo sviluppo si accompagna poi al permanere di fenomeni intollerabili con la visione dei diritti umani sancita dalla carta dell'ONU. Facciamo sostanzialmente finta di non vedere ma al mondo continuano ad esserci decine di milioni di schiavi, legati al datore di lavoro da debiti contratti che gli tolgono la libertà, cresce la tratta internazionale degli esseri umani (circa un milione di esseri umani trafficati ogni anno, per motivi sessuali o di lavoro nero), il lavoro minorile, anche di bambini di pochi anni, resta una componente essenziale nella divisione internazionale del lavoro. Oltre 1 miliardo di esseri umani (per la prima volta è stata superata la barriera del miliardo) soffre la fame ed è prigioniero (particolarmente nell'Africa subsahariana) di una trappola della povertà che non offre alcuna speranza di una vita migliore. Resta precario per miliardi di esseri umani l'accesso a beni essenziali: casa, salute, istruzione. Più della metà della popolazione mondiale vive in città, spesso megalopoli in cui le condizioni di vita per miliardi di esseri umani non sono diverse da quelle che il terzo Reich offriva nei campi di concentramento (4).
Questi squilibri irrisolti generano due fenomeni: la iniqua distribuzione delle risorse genera una sovraproduzione (con le conseguenze che vedremo sugli equilibri ecologici). Poiché le fasce più ricche non vogliono rinunciare al benessere raggiunto, anzi lo devono incrementare, per garantire un minimo di accesso alle fasce più deboli occorre prevedere sovraproduzioni di beni, con tutti i costi che ne derivano. Le diseguaglianze planetarie, rese visibili dai network mondiali della comunicazione, accessibili in ogni parte del globo, caricano una molla di rancore sociale e un sentimento di ingiustizia che offre a movimenti fondamentalisti e terroristi una drammatica riserva di reclutamento.
Dunque non aveva torto il pensiero cattolico a ricordare che alla base di una crescita equilibrata sta necessariamente una equilibrata distribuzione delle risorse, rispettosa della dignità umana, che, lungi dall'impedire la necessaria accumulazione del capitale come sostegno dello sviluppo, ne avrebbe assicurato la sua durevolezza.
Una seconda insostenibilità riguarda la sostenibilità ambientale. Il tema è all'attenzione del dibattito pubblico e non occorre aggiungere molte considerazioni. L'intensità dello sviluppo ha avuto come altra faccia della medaglia un pesantissimo stress ambientale: consumo delle fonti fossili accumulate per miliardi di anni, deforestazione, avvelenamento dell'area e dell'acqua, alterazioni climatiche. Finora l'ambiente non è stato un costo, ma un bene disponibile per chiunque e senza misura. Non si può continuare in questo modo: il rapporto tra produzione di ricchezza e consumo di beni non rinnovabili è troppo elevato e ci stiamo appropriando dei beni delle generazioni future. Siamo ormai in presenza di una rottura del ciclo energetico, un impoverimento della biosfera con una fortissima diminuzione delle biodiversità, ecc. Lo stock dei beni naturali sta deperendo troppo rapidamente. L'ultima conferenza di Copenhaghen è stato un fallimento quanto a risultati concreti sotto il profilo dell'adozione di politiche, però lascia in eredità un riconoscimento globale che il problema esiste, è drammatico e richiede un di più di responsabilità.
Anche in questo caso nel filone della Dottrina sociale della Chiesa si trovano molti richiami al rapporto corretto tra attività umana e creato. C'è un punto su cui costruire un nuovo paradigma: è vero che abbiamo meno disponibilità di beni ambientali, ma in compenso abbiamo molto più sapere e molta più tecnica che ci offrono il modo di produrre le stesse quantità di beni con meno risorse con una assunzione di responsabilità collettiva, con una distribuzione equa degli oneri, è possibile garantire sviluppo ecosostenibile (5). Semmai ancora una volta è valido il richiamo così presente nelle encicliche sociali: ciò che manca non sono i beni ma una antropologia che renda l'uomo capace di avere il senso del limite ed il senso del corretto uso dei beni.

I fallimenti del mercato
Appare evidente che la crisi globale abbia una ragione fondamentale in alcuni fallimenti del mercato, sia per mancanza di regole adeguate a offrire uno spazio di un mercato realmente competitivo e non oligopolistico, sia per l'incapacità del mercato di produrre indispensabili beni pubblici. Gli esempi sono molti, possiamo richiamarne tre.
Il più evidente e discusso riguarda naturalmente l'eccesso di finanziarizzazione dell'economia. Brutta parola, ma in sostanza ha significato una grande finzione in cui si è privilegiato il capitale speculativo a quello creatore di ricchezza. Non vi è alcun rapporto tra la massa finanziaria e la ricchezza prodotta. Il volume delle attività supera di molte volte, da 7 a 10 il volume della ricchezza prodotta. L'indice Down Jones in 5 anni alla fine degli anni 90 è passato da circa 3.000 a oltre 11.000: quasi quadruplicato, ma nello stesso tempo il prodotto interno lordo cresceva solo del 30% e gli utili delle aziende quotate in borsa del 60%. Non diventa più conveniente dedicarsi alla produzione di ricchezza materiale, innovare sulla qualità dei prodotti. Rende di più scommettere sul futuro. Come ha osservato Giorgio Ruffolo questa enorme finanziarizzazione non genera nuova ricchezza (6). Gran parte delle transazioni avviene su mercati secondari, riguardano cioè titoli che rappresentano ricchezze già esistenti e si risolve quindi in distribuzione della ricchezza esistente.
Occorre sempre ricordare che la crisi è figlia di una scelta ideologica della destra. Risale all'epoca delle politiche del duo Reagan Thatcher sostenuto dalle idee della scuola di Chicago con Milton Friedman la decisione di eliminare ogni forma di regolazione dei movimenti di capitale a livello transnazionale creando le premesse di un eccesso di finanza speculativa. I fondi speculativi si muovano a livello globale, cercando il rendimento a brevissimo termine, spesso spolpando le aziende e abbandonandole al loro destino, scommettendo sui rendimenti futuri di ogni bene, innescando rialzi speculativi di beni essenziali, dal cibo ai metalli.
L'estrema volatilità dei capitali genera una crisi fiscale degli Stati, che devono competere al ribasso sui livelli di tassazione. E questo porta ad un arretramento generale della capacità dello Stato di produrre buoni beni pubblici ed una progressiva privatizzazione, con un declino dei beni collettivi rispetto a quelli privati: consumo, quindi sono.
Esempi parziali di fallimento del mercato sono rintracciabili in aspetti che toccano da vicino la vita dei cittadini. Pensiamo alla organizzazione del sistema distributivo. Si è molto scritto sugli effetti negativi di una polverizzazione della rete del commercio al dettaglio, sulla opportunità di una maggiore concentrazione per garantire al consumatore prezzi più convenienti. Se ora diamo un giudizio sul processo che ha interessato tutto il sistema distributivo vediamo che l'enorme crescita dei megacentri commerciali in realtà ha comportato costi indiretti piuttosto rilevanti: desertificazione dei centri storici e delle prime periferie, con la rarefazione degli esercizi di vicinato, peggiorandone la qualità e la sicurezza, elevatissimo consumo di suolo nelle cinture urbane, aumento degli spostamenti con mezzi privati, depressione dello spirito di piccola imprenditorialità e del valore positivo del lavoro autonomo, alterazione degli spazi tra lavoro, consumo, tempo libero, con una enorme pressione consumeristica dilatata negli spazi domenicali e del tempo libero. Inoltre come ci ricorda Federico Rampini "dagli anni '90 in avanti l'America ha subito una concentrazione senza precedenti del settore distributivo...All'inizio di questo decennio i dieci protagonisti dominanti della distribuzione ormai concentravano il 72% di tutte le vendite di moda, abbigliamento ed accessori. Di conseguenza tutta la politica dei prezzi è nelle loro mani. Come rileva una dei boss della grande distribuzione il prezzo finale lo facciamo noi e lo imponiamo alle due estremità: il produttore ed il consumatore" (7).
Su un altro piano pensiamo all'enorme sviluppo di una industria culturale globale. E' un tema che ci porterebbe lontano dal focus di queste note, mi limito a dire che purtroppo la formazione di un mercato globale non ha portato ad un innalzamento della qualità media dei prodotti, ma al contrario un mercato iperconcorrenziale ha fatto sì che anche in questo campo la moneta cattiva scacciasse quelle buona. Sotto la pressione del circuito pubblicità/mass media è venuta completamente meno una ambizione educativa del sistema ed il livellamento avviene al livello più basso possibile, semmai creando una segmentazione del mercato che aggiunge diseguaglianza a diseguaglianza: la qualità sulle reti a pagamento, per le fasce più basse gli spettacoli più volgari ed inutili. E' un fenomeno in parte corretto dalla circuitazione alternativa attraverso internet e con la moltiplicazione degli spazi di accesso attraverso le piattaforme digitali, ma anche in questo caso nascono problemi di opposta natura: la grande opportunità della libertà della rete diventa veicolo anche di comportamenti socialmente preoccupanti.

Per un mercato luogo di promozione umana
Per una buona economia deve per forza tornare in campo la buona politica ed una visione antropologica che restituisca senso al produrre e al consumare come parte equilibrata ed non esclusiva dell'avventura comunitaria dell'uomo. Il ciclo aperto con la stagione dell'eccesso liberista si è concluso con un fallimento. Occorre rifondare i materiali che pure sono stati alla base di una stagione di grande crescita e di progresso sociale. Non si tratta di tornare a forme improbabili e fallimentari di statalismo, in un mondo in cui lo Stato nazione ha perso molti poteri ed in cui, purtroppo, la vitalità democratica delle pubbliche istituzioni si sta pericolosamente indebolendo. Si tratta come osserva Stefano Zamagni di " consentire che il mercato possa tornare ad essere mezzo per rafforzare il vincolo sociale attraverso la promozione sia di pratiche della distribuzione della ricchezza che si servono dei suoi meccanismi per raggiungere l'equità, sia di uno spazio economico in cui i cittadini che liberamente lo scelgono possono mettere in atto, e dunque rigenerare, quei valori (quali la solidarietà, lo spirito d'impresa, la simpatia, la responsabilità d'impresa) senza i quali il mercato stesso non potrebbe durare a lungo" (8). Per strada, sotto la pressione di cambiamenti economici, sociali, antropologici, si è perso il valore di alcuni pilastri che avevano fatto nascere l'economia di mercato e la sua evoluzione nell'Europa occidentale che usciva dalla tragedia della seconda guerra mondiale in economia sociale di mercato. Dobbiamo risalire indietro, ce lo ricorda sempre Stefano Zamagni, a prima della rivoluzione industriale ed alla filosofia utilitaristica di Bentham per ritrovare il significato profondo di alcuni termini. L'idea della divisione del lavoro che lungi dall'essere lo strumento per una redistribuzione del lavoro basata sulla compressione del salario era l'aspirazione di poter far lavorare tutti secondo le proprie capacità. L'idea dello sviluppo che lungi dall'interpretare una ideologia della crescita basata sulla rapina dei beni del futuro e sulla alienazione dell'umanità era al contrario l'idea che la generazione presente deve farsi carico delle generazioni future, non consumando tutto ciò che viene prodotto ma attraverso l'accumulazione trasferirlo al futuro, innescando un meccanismo solidale nel tempo di crescita. L'idea della competizione nel mercato che lungi dall'essere l'ideologia del successo del più forte era la creazione di uno spazio di libertà in cui il cittadino poteva realizzare le proprie aspirazioni.
Possiamo aggiungere: la rifondazione dell'idea del ruolo dello Stato nell'economia. Non una dialettica sbagliata (più mercato meno stato recitava uno slogan di un certo successo qualche anno fa) ma piuttosto la necessità di una leale cooperazione tra stato ed economia privata, in cui lo Stato si riassume il ruolo del buon regolatore del mercato e della produzione di quei buoni beni pubblici essenziali allo sviluppo equo e sostenibile. In cui lo Stato sia di nuova capace della profonda innovazione che ha consentito dopo la grande crisi del '29 di offrire il contesto necessario alla ripresa su basi più eque e durature, riponendo di nuovo al centro uno sviluppo in cui il concetto del diritto al lavoro, dell'uguaglianza, di una condivisione solidale dei beni abbiano piena cittadinanza (9).

La lungimiranza dello sviluppo
Non occorre qui ricordare come il lungo cammino di riflessione della Chiesa Cattolica che va sotto il nome di Dottrina Sociale ha prodotto sempre documenti rivoluzionari per il tempo in cui furono scritti. Dalla prima enciclica di Leone XIII la "Rerum Novarum" che alla fine dell'800 poneva il grande tema della questione operaia, della giustizia sociale e del conflitto tra capitale e lavoro, alla "Populorum Progressio" di Paolo VI, che con molta lungimiranza poneva il tema della globalizzazione dello sviluppo e dell'unicità delle famiglia umana, fino alle encicliche sociali di Giovanni Paolo II che contengono una critica serrata e radicale alle deviazioni del capitalismo. Fino all'ultima enciclica di Benedetto XVI "Caritas in veritate" che offre una chiave di lettura unificante tra giustizia sociale e rispetto del creato. Ci ricorda Benedetto XVI che per dare un senso al profitto occorre che abbia senso il modo di produrlo tanto quanto il modo di utilizzarlo, che spesso la povertà estrema si basa non tanto sulla mancanza in assoluto di risorse materiali, ma sulla scarsità di risorse sociali. Che i costi umani sono sempre anche costi economici. Vi è l'invito a saper "dilatare la ragione" per affrontare le sfide inedite di imponenti nuove dinamiche.
Il pensiero laico e quello religioso, quello cattolico in particolare, si scontrano con molta durezza su alcuni temi, penso all'area della tematica della bioetica, eppure trova invece una particolare consonanza di fronte ai mutamenti economici e sulle ricette che servono. Tanto da far dire ad un pensatore laico come Giorgio Ruffolo che è necessario recuperare la dimensione della trascendenza: "le società umane, diversamente da quelle animali, hanno bisogno di dare un senso alla loro vita, perchè sono consapevoli della loro morte...l'immaginario capitalista frustra il bisogno esistenziale di senso immergendolo su una ricerca ossessiva di mezzi che sopprime ogni ricerca di fini (10)". Non diversamente Aldo Schiavone, anch'esso pensatore laico, afferma che attraverso la scienza e la tecnologia l'infinito sta entrando stabilmente nel mondo degli uomini (11).
Questa evoluzione del pensiero è una risorsa particolare per il PD, perchè si dimostra che i materiali culturali su cui è possibile fondare il progetto culturale del partito sono ancora materiali validi. I principi della giustizia sociale, del personalismo comunitario, i valori dell'eguaglianza e dell'unica appartenenza alla famiglia umana che hanno segnato la storia delle culture fondative della sinistra e del cattolicesimo democratico, così come la cultura dell'ambientalismo del fare sono materiali appropriati per affrontare le sfide che abbiamo davanti a noi. Sotto questo profilo il Pd ha un serbatoio di idee valide a cui attingere per impostare la propria proposta politica, molto più appropriate di quelle fallimentari che in questi anni ha messo in campo il centrodestra.


Mario Rigoni Stern in una intervista rilasciata poco prima di morire ha raccontato di un incontro con Giuseppe Ungaretti, in cui il poeta gli aveva detto: "La civiltà va a due velocità: c'è il progresso tecnologico che ora va velocissimo, c'è il progresso morale che ora non tiene il passo e la distanza si fa sempre più lunga". Occorre lavorare per ricongiungere queste due velocità. La velocità con cui avvengono le trasformazioni tecnologiche e la disponibilità di di nuovi beni non fa più velo al fatto che senza una risposta alla domanda di senso della vita il meccanismo della crescita economica si inceppa.
La triade della modernità, liberté, égalité, fraternité,va rideclinata e in questa operazione il lascito della riflessione della dottrina sociale della Chiesa offre un giacimento importante, che può servire a far emergere "ciò che accomuna gli uomini di tutte le culture e di tutte le epoche, ciò che nell'essere umano è ritrovabile come indispensabile perchè si possa giungere a una qualità della convivenza umana sotto il segno della giustizia e della pace (12) ".
Le stesse riflessioni che si stanno sviluppando in campo economico ai massimi livelli sui limiti e sul significato della misurazione del PIL come fattore prevalente di giudizio sulle capacità di crescita di una economia segnalano una importante acquisizione. Non basta sapere quanto cresce una comunità, ma come viene distribuito il prodotto della crescita, quali siano le aspettative di vita, il livello dell'istruzione, il consumo dei beni non riproducibili, ecc. Come osservano Mauro Ceruti e Tiziano Treu: "questo approccio...respinge l'assunto di fondo che vi sia identità tra utilità e benessere; implica il riferimento alla persona come attore anche sociale, non semplicemente al consumatore; assume la configurazione del capitale umano come strumento fondamentale non solo per la crescita e per la produttività ma anche in funzione dello sviluppo sociale e politico...richiede il superamento della stessa concezione classica dell'eguaglianza di opportunità per considerare tutte le caratteristiche personali, sociali e ambientali che concorrono a promuovere le capacità delle persone e quindi le loro libertà e le concrete condizioni di vita (13)".
Un nuovo paradigma dello sviluppo si può fondare perciò su due pilastri. Da un lato ritrovare la cura ed il rispetto per il futuro. L'attualizzazione di ogni cosa (sia merce, persona, bene naturale) porta ad un deprezzamento del futuro che rompe il legame intergenerazionale ed il senso di un destino comune che è il motore principale dello sviluppo e dell'accumulazione necessaria per sostenere lo sviluppo. Dall'altro riportare con vigore al centro dell'economia il pieno rispetto dei diritti umani. Su questo piano le tragedie dei totalitarismi del '900 avevano imposto una importante costruzione intellettuale e giuridica della comunità internazionale che avevano prodotto le grandi carte dei Diritti dell'ONU. E' un lascito su cui tornare a lavorare con convinzione. Il pensiero cattolico può offrire chiavi di lettura e proposte innovative preziose per tutti, perchè i fondamenti antropologici della fede cristiana sono particolarmente adatti ad accompagnare questa nuova fase dello sviluppo, purchè non restino rinserrati in un dogmatismo inconcludente e si aprano con coraggio alle sfide del futuro.

(1) R Wilkinson, K. Pickett, La misura dell'anima, Feltrinelli, Milano, 2009
(2) M. Nicoletti in E. Bockenforde, G Bazoli, Chiesa e capitalismo, Morcelliana, Brescia, 2010, pag.7
(3) Benedetto XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2009, n.36
(4) P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Bari, 2009
(5) Per questi aspetti ad esempio J.D. Sachs Il bene comune economia di un pianeta affollato, Mondadori, Milano, 2010
(6) G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino, 2008
(7) F. Rampini, Slow economy, rinascere con saggezza, Mondadori, Milano, 2010, pag.13
(8) S. Zamagni, L'economia del bene comune, Città Nuova, Roma 2008, pag. 10
(9) L. Pennacchi, La moralità del welfare, Donzelli, Roma, 2008
(10) G. Ruffolo, op. cit., pag. 276
(11) A. Schiavone, Storia e destino, Einaudi, Torino, 2007
(12) E. Bianchi, Per un'etica condivisa, Einaudi, Torino, 2009
(13) M. Ceruti, T. Treu, Organizzare l'altruismo globalizzazione e welfare, Laterza, Bari, 2010  

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