Quale riformismo in Italia e in Europa?

Pubblicato il 13 dicembre 2003, da Relazioni

Intervento al convegno del “Tavolo dell’Ulivo”

C’è un vecchio aforisma che risale ai tempi del dibattito, tutto interno alla sinistra, tra massimalismo e riformismo che dice: “il massimalismo è il tutto mai, il riformismo è il niente subito”. E’ un aforisma che esprime bene come il dibattito teorico, se non fa i conti con le concretezze delle situazioni, rischia di portare alla sconfitta e all’impotenza.

Il nostro dovere è di uscire da questa ambivalenza distruttiva e far sì che il riformismo non sia il niente subito, ma un percorso vincente per la trasformazione in positivo della società.

I riformisti sanno che i cambiamenti più o meno graduali della società sono fasi della storia che non si possono impedire ma si possono entro certi limiti indirizzare perché rispettino valori fondamentali di convivenza, sul piano della equità sociale e del rispetto di diritti inalienabili di ciascuno. Sulle strade del riformismo le regole e le condizioni del passato ci aiutano a capire e ad interpretare la realtà, ma quasi mai sono sufficienti da sole a dare la risposta per il futuro. Opporsi al cambiamento è votarsi alla sconfitta.

Problemi nuovi, ma radici antiche

La società così come l’hanno conosciuta le forze politiche e sindacali che hanno costruito la democrazia occidentale ed il sistema dei diritti di cittadinanza nel corso del ‘900 si è andata disarticolando e se guardiamo solo al passato perdiamo di vista il terreno della sua trasformazione. I problemi che si presentano sono altrettante sfide per il riformismo; le ricorda Prodi nel suo appello “Europa, il sogno, le scelte”: la globalizzazione, la spinta dell’innovazione tecnologica, l’evoluzione demografica, il degrado dell’ambiente, il divario tra nord e sud del mondo. Problemi ambivalenti appunto: lasciati a sé stessi generano squilibri ed incertezze, paure e conflitti, ma costituiscono anche opportunità che una politica riformista deve saper sfruttare.

Sotto un certo profilo possiamo dire che all’inizio del ventunesimo secolo il riformismo si trova a fare i conti con le stesse questioni con cui aveva dovuto misurarsi all’inizio del secolo precedente: la povertà e la disuguaglianza accentuata nella distribuzione della ricchezza tornano ad essere un problema anche nelle ricche società occidentali, che sembravano aver largamente superato questo problema. E’ un fenomeno visibilissimo nella società statunitense, in cui nelle fasi depressive si ampliano gli spazi di povertà ed emarginazione senza tutela e si indeboliscono i presidi per l’eguaglianza futura, vale a dire scuola, sanità, previdenza, ma lo vediamo ormai anche in Italia ed Europa, in cui i sostegni tradizionali del welfare non riescono più a garantire da nuove incertezze ed esclusioni e ad assicurare le tradizionali coperture. Il divario tra coloro che hanno e sanno e coloro che non hanno e non sanno tende a riallargarsi: ricchezza economica familiare e possibilità di accedere alle informazioni costituiscono una barriera insormontabile per chi ne è escluso.

Insieme si presentano incertezze ed insicurezze in forme nuove rispetto al passato, ma con le stesse caratteristiche di preoccupazione per il futuro: un ambiente sempre più devastato, la guerra e la violenza del terrorismo che restano compagni indesiderati dell’umanità, le incertezze poste dalle nuove frontiere della biotecnologie che fanno delle sorgenti stesse della vita un’area oggetto al dominio economico dei più ricchi. Semmai almeno nelle società occidentali la riproposizione dei problemi del passato avviene con una aggravante: i popoli occidentali nel corso del novecento hanno guardato con passione al futuro, si sono appassionati alla lotta politica intravedendo attraverso di essa la possibilità di conquistare un futuro migliore, oggi molti aspettano un futuro che significa meno reddito, meno opportunità, meno sicurezze, si percepisce una politica che ha perso capacità o possibilità di essere strumento di emancipazione e di affermazione di diritti e finisce per prevalere il distacco ed il disinteresse per la politica.

Volendo ricondurre ad unità le grandi questioni che interpellano una ambizione riformista possiamo individuare tre aree in cui dovrebbe esercitarsi una forte visione politica, capace di superare vecchie incrostazioni e di offrire una nuova prospettiva.

Pace e sviluppo

La prima questione è quella della pace e dello sviluppo planetario. L’illusione che la caduta del muro di Berlino portasse con sé il superamento del conflitto nei rapporti internazionali si è rivelata appunto una illusione. Si sono moltiplicati i conflitti locali, è emersa la tentazione unilaterale di Bush, si sono indeboliti i fragili organismi di governance mondiale come l’ONU, si è perso uno slancio adeguato per le politiche di sviluppo globale, lasciando interi continenti come l’Africa abbandonati a sé stessi e destinando pochissime risorse per creare opportunità diffuse di sviluppo come leva per la convivenza pacifica. Anche sul piano internazionale diminuisce la povertà assoluta ma si allunga di molto la disuguaglianza e la distanza tra chi sta bene e chi sta male, e chi sta bene vuole esercitare un dominio assoluto: dalle regole del commercio internazionale alla questione del debito estero, del controllo delle tecnologie alimentari, molti sono gli strumenti che vanno in direzione delle disuguaglianze e perciò della preparazione dei conflitti. I riformisti devono porre al centro della loro riflessione politica questi problemi: la spinta che viene dal complesso mondo del no, new o post global deve trovare nella politica riformista la strada per coraggiose trasformazioni, edificazione di strumenti nuovi, nuove alleanze sociali e politiche transnazionali.

Per questo la vicenda europea è così importante. L’Europa non possiamo leggerla attraverso al bardatura di regole o apparati burocratici, come una certa vulgata antieuropeista vuole fare. In realtà il processo di costruzione europea costituisce con tante difficoltà ma anche con tante opportunità il primo tentativo di “globalizzazione democratica” in cui l’integrazione economica e l’allargamento dei mercati si accompagna a regole decise da poteri democratici, in cui la voce del popolo e non solo quella degli interessi economici globalizzati si può far sentire. Per questo è così importante il successo dell’allargamento europeo, con la costruzione di un soggetto forte capace di portare nuovi equilibri nello scenario internazionale, di essere di esempio per altre aree del pianeta, di costruire nuove opportunità offrendo una sponda ai paesi emergenti, che sotto la guida del Brasile hanno imposto a Cancun anche la loro voce.

Dunque le prossime elezioni europee sono veramente costitutive per una visione riformista, e Prodi ha avuto il merito di individuare con grande chiarezza questo tema: altro che invasione della politica nazionale!

Dalla democrazia alla postdemocrazia

La seconda questione riguarda la natura stessa della democrazia: le forme che abbiamo conosciuto e che sono il portato del novecento appaiono in crisi. In crisi l’aspetto formale: libere elezioni a suffragio universale per l’elezioni di parlamenti nazionali, in crisi gli strumenti che ne davano sostanza: partiti a radicamento popolare, sindacati forti e diffusi, equilibrio tra i diversi poteri, pluralismo nell’informazione. Se pensiamo alla situazione delle tre maggiori potenze mondiali percepiamo fino in fondo il senso di questa crisi.

Negli Stati Uniti Bush esercita il potere (e con quale ampiezza e con quali conseguenze per il mondo) sostanzialmente sulla base di brogli elettorali decisivi nello stato della Florida, governato dal fratello. Poche migliaia di voti hanno deciso il risultato, prima contestato e poi accettato per prevenire un conflitto istituzionale senza precedenti: si presenta una democrazia in cui il controllo del denaro, i legami di interesse anche parentale si sostituiscono alla libera espressione del voto.

Non dissimile è la situazione in Russia, in cui l’eredità del regime sovietico e la faticosa costruzione di assetti simildemocratici hanno saltato molti passaggi ma fanno arrivare ad un risultato comparabile: tutti gli osservatori internazionali hanno rilevato che il successo di Putin è dovuto al ferreo controllo dei mezzi di informazione, senza alcun principio di parità tra i concorrenti. Rispetto formale del procedimento democratico, ma sostanziale violazione del principio di parità (e questo spiega la grande simpatia dell’anticomunista Berlusconi per il postcomunista ed ex capo del KGB Putin).

Se guardiamo poi alla Cina possiamo intravedere che forme ormai diffuse di democrazia economica convivono con la mancanza di processi democratici sul piano politico e della selezione dei gruppi dirigenti.

Ormai esiste una letteratura molto ampia che, fin dai titoli, evidenzia questo nuovo problema: possiamo leggere “Dopo la democrazia” di Dahrendorf, “Democrazia senza libertà” di Zakaria, “Postdemocrazia” di Crouch e troviamo le stesse preoccupate riflessioni.

Sono tutte riflessioni, penetranti e convincenti, che hanno in comune la preoccupazione per l’indebolimento della natura della democrazia. Da un lato il processo elettorale dipende sempre meno dalla libera opinione del cittadino, formatasi nel dibattito democratico, ma piuttosto fa capo alla presenza di lobby ristrette, alla forza del denaro ed al controllo dei mezzi di informazione. Si impoverisce fino quasi ad estinguersi la partecipazione del cittadino al di fuori della fase propriamente elettorale. Dall’altro si restringono i diritti di cittadinanza faticosamente conquistati durante tutto l’arco del novecento: la partecipazione al reddito dei lavoratori rispetto al capitale sta rapidamente declinando, così come la funzione redistributrice della tassazione. Il luogo delle decisioni, anche per l’indebolimento degli stati-nazione ed il prevalere di processi globalizzati, appare sempre meno quello delle istituzioni politiche e sempre di più quello dei mercati finanziari o del controllo dei mezzi di informazione.

Come ha osservato Giuliano Amato le caratteristiche tradizionali della democrazia basata su una robusta delega elettorale, una forte leaderhip politica e la possibilità di verifica dei risultati dell’azione di governo appaiono tutte in crisi: la delega appare transeunte, con la debolezza dei processi partecipativi dei partiti, le leadership sempre più precarie, piegate alla emotività dell’attimo presente affidata pressoché esclusivamente al mezzo televisivo, le capacità di verifica appaiono sempre più complesse per il cittadino, con decisioni che si spostano a livelli sopranazionali, extrapolitici, o nella frammentazione del potere regionale.

Nella crisi emergono anche sintomi di reazione: ovunque nel mondo si organizzano forme nuove di cittadinanza attiva, una rete globale di partecipazione e contestazione del degrado della democrazia: Una visione riformista deve intercettare questi segnali e sfruttare queste linee di resistenza che si stanno organizzando. Come ci ricorda Romano Prodi “l’esercizio pieno delle libertà politiche è premessa per la tutela dei diritti sociali e delle opportunità economiche”. E’ difficile immaginare una politica che voglia portare equità e libertà e perciò ha l’ambizione di porre regole di convivenza come garanzia di diritti e esplicitazione di un dovere di solidarietà senza avere la forza che deriva da una attiva ed estesa partecipazione di cittadini, che controbilanci il potere organizzato del denaro.

Diritti di cittadinanza e non “compassione”

Infine vi è la grande questione dello “stato sociale”: il più evidente e rivoluzionario aspetto delle lotte politiche nate dall’affermazione del suffragio universale è l’affermarsi di un sistema di servizi pubblici che hanno garantito una ampia cittadinanza sociale. Una serie di beni essenziali sono rimasti fuori da una logica esclusivamente di mercato e il cittadino ha acquisito il diritto di accedere a beni e servizi nel campo della sanità, della previdenza, dell’istruzione indipendentemente dalla capacità di poterli acquisire sul mercato. Anche dal punto di vista della teoria economica il pensiero keynesiano ha dimostrato come una ragionevole sicurezza sul futuro di fronte alle possibili avversità di perdita della salute o del lavoro o all’uscita dalla vita attiva sia una assicurazione sulla crescita di tutti.

Questi principi vengono messi in discussione dalla durezza della concorrenza nel mondo globalizzato, in cui la tendenza è di livellare i diritti al livello più basso, di limitare fortemente la funzione redistributiva del reddito propria della leva fiscale e perciò limitare le risorse disponibili per il finanziamento del welfare. Come efficacemente ci ricorda Crouch “il welfare state diventa poco a poco residuale, destinato al povero bisognoso piuttosto che parte dei diritti universali della cittadinanza; i sindacati vengono relegati ai margini della società; torna in auge il ruolo dello stato come poliziotto e carceriere; cresce il divario tra ricchi e poveri…i politici rispondono in prima istanza alle esigenze di un pugno di imprenditori ai quali si consente di tradurre i propri interessi particolari in linee di condotta generali; i poveri smettono di interessarsi al processo in qualsiasi forma e non vanno neppure a votare, tornando volontariamente alla posizione che erano obbligati a occupare nella fase predemocratica”.

Con Prodi sulle strade del futuro

Ora se inseriamo queste tematiche generali nella concretezza della situazione italiana, vediamo che abbiamo un problema ed una opportunità. Il problema è che la stagione berlusconiana porta all’ennesima potenza i sintomi del decadimento della democrazia: il controllo penetrante nei mezzi di informazione, il conflitto di interesse portato al centro della condotta del governo, il populismo come surrogato della proposta politica. L’opportunità è data dalle elezioni europee, accompagnate da una importante tornata amministrativa, in cui sono in gioco tanta parte dei concreti diritti di cittadinanza degli italiani: vi è la possibilità per le forze politiche riformiste di impostare una proposta politica di alto livello, che parli con parole nuove ai cittadini che vivono sulla loro pelle ed iniziano a percepire con durezza i frutti perversi della postdemocrazia.

Per questo la proposta di Prodi è la strada obbligata per il riformismo italiano. Individua con chiarezza le due gambe su cui deve camminare la proposta politica: il progetto ed il soggetto politico.

L’appello presentato da Prodi ha certo bisogno di essere tradotto in un programma politico più compiuto, e già l’assemblea di febbraio offrirà l’occasione di fare un passo in avanti anche su questo piano; però già nel documento non a caso intitolato “Europa: il sogno, le scelte” ci sono tutti gli ingredienti e anche le discriminanti da accettare se si vuole essere partecipi del progetto. Si sta in politica per dare senso al futuro, e perciò occorre conoscere le sfide, avere chiari i valori che si vogliono porre a fondamento dell’azione politica, indicare le soluzioni politiche concrete. L’alternativa al populismo è la capacità di compiere con coraggio scelte lungimiranti, accettando il rischio che è insito nella lungimiranza.

Nuove culture politiche e nuovi soggetti

Ma la sfida per essere vinta ha bisogno di una nuova cultura politica per i nuovi problemi, e perciò sono insufficienti le vecchie famiglie politiche. Possiamo pensare sufficienti le ricette tradizionali della socialdemocrazia europea? Una tradizione politica da un lato attardata spesso su posizioni conservatrici e poco lungimiranti, dall’altro ridotta in affanno in molti paesi: vincitori di misura in Germania, distrutti in Francia, in difficoltà il Spagna, al governo in Gran Bretagna, ma con ricette in molti casi discutibili ed estranee alla tradizione socialdemocratica, con una posizione di politica estera per nulla innovativa e rinchiusa dentro il recinto della sovranità statunitense. Ancor meno offre soluzioni la tradizione del popolarismo europeo, abbandonata la tradizione ispiratrice del cattolicesimo democratico, alle prese con una deriva di puro stampo conservatore.

Quale sarà l’esito di questa iniziativa: un partito riformista che unisce le diverse tradizioni italiane, una federazione di partiti, semplicemente una alleanza elettorale? Sarà quello che vorrà che sia il popolo italiano e ciò che consentirà di essere la capacità della leadership politica. Se si avrà il consenso elettorale, se questa iniziativa sarà capace di suscitare tante speranze inespresse si avrà la forza di marciare verso una iniziativa politica che condurrà ad un grande partito riformista, nutrito dalle radici profonde della migliore storia democratica del nostro paese, in cui le vecchie appartenenze ed identità saranno ricchezza da far fruttare e non barriere da elevare. E’ successo così anche con la Margherita. Certo questa forza politica non potrà nascere per convenienze transitorie dei vertici politici ma dovrà essere frutto della fatica e della passione che in tanti luoghi del paese, nei circoli, nelle sezioni, nei luoghi di studio e di lavoro si eserciterà per confermare le ragioni di un comune progetto, ragioni del futuro e non del passato. I pavidi, i dubbiosi, i nostalgici, vogliono conoscere tutto prima, ma così facendo si perdono le occasioni della storia. Se si ha una visione lungimirante le cose complessi diventano semplici: non vuol dire esercitare un semplicismo dannoso o un volontarismo inadeguato, vuol dire guardare alle cose essenziali.

Occorre perciò mettersi in cammino per dare corpo all’appello di Prodi, senza alcuna esclusione che non sia quella della fiducia e del rispetto reciproco. Ci sono dei punti fermi: tre partiti hanno già deciso di avviare questo cammino, lo hanno fatto attraverso una grande consultazione e decisione democratica, un dibattito spesso complicato, è un cantiere aperto da cui non deve essere escluso nessuno, in cui i partiti da soli non bastano, ma che tutti devono accettare di presidiare con regole di rispetto: gli insulti di Di Pietro non sono il migliore viatico per superare resistenze. Dobbiamo metterci insieme perché siamo convinti di avere una visione comune della società nei suoi valori fondamentali, perché riteniamo che in questo modo più chiaro, attraente e convincente sia il messaggio agli elettori. Il criterio deve essere quello della generosità e non dell’opportunismo. Chi nello schieramento della attuale opposizione decide liberamente di seguire strade diverse non sarà un avversario ma un alleato comunque prezioso, ma il cammino aperto da Prodi deve essere percorso con determinazione, senza più guardare indietro.

Rimini, 13 dicembre 2003

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