Tra Dio e cesare

Pubblicato il 17 ottobre 2011, da Relazioni

Relazione al ciclo di Incontri “Chioggia 2011” sul tema “L’Ulisse di Dante e l’uomo moderno” organizzato dall’associazione “Il Fondaco”

Chioggia 7 ottobre 2011 

 E’ questo un tema che attraversa tutta la storia e ottiene nel tempo risposte diverse. Con i cristiani accusati volta a volta di essere assenti dalla cosa pubblica o troppo dentro la cosa pubblica.

Fin dall’inizio. E’ nota la confutazione da parte di Origene delle accuse che il filosofo Celso rivolgeva ai cristiani di sottrarsi ai doveri civici: “non è per sfuggire ai doveri civili di questa esistenza che noi cristiani ci asteniamo da certe responsabilità, ma per dedicarci ad un servizio più santo”. Negli stessi anni la Lettera a Diogneto ritrae mirabilmente l’atteggiamento proprio dei cristiani del tempo: “i cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano neppure città proprie, né usano un linguaggio particolare, né conducono un genere speciale di vita…ogni terra straniera e patria per loro e ogni patria è terra straniera”.

Poi con il dissolvimento del potere imperiale romano, la Chiesa cattolica assume compiti di supplenza e poi di penetrante potere temporale. Poi l’autonomia degli stati nazionali, la contrapposizione tra fede e scienza, il laicismo. Insomma un rapporto complesso e mutevole nel tempo.

Nel testo evangelico: il comandamento del discernimento

Però possiamo proprio partire dall’episodio evangelico in Mt 22,16: “Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. Dicci dunque il tuo parere: “È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”.

Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli risposero: “Di Cesare”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.

Gesù usa le famose parole per sottrarsi ad una domanda capziosa. Se avesse risposto di sì sarebbe stato considerato un collaborazionista dei romani, e avrebbe indebolita la propria predicazione. Se avesse risposto di no avrebbe probabilmente anticipato la propria fine e avrebbe iscritto la propria testimonianza in una dimensione più direttamente politica. Avrebbe potuto semplicemente dire: “non mi occupo di queste cose”, sfuggendo alla provocazione. Invece la risposta è rivoluzionaria. Ciò che conta per orientarci è che non viene prescritta una norma di comportamento generale, ma viene indicato un criterio di discernimento. E’ l’introduzione di un principio di libertà di discernimento nel rapporto tra la coscienza del cittadino e l’autorità pubblica. E’ un appello alla maturità della coscienza individuale. Richiama alla responsabilità del credente nella Storia. Dovrà il cristiano di volta in volta, nella complessità delle situazioni concrete, decidere ciò che è di Dio, vivendo la dimensione del possibile conflitto tra la dimensione religiosa e quella civile.

Per questo aveva ragione Robert Schumann, il grande politico cattolico francese, tra i fondatori, insieme a De Gasperi ed Adenauer, della prospettiva di una Europa unita, quando scriveva: “La democrazia deve la sua esistenza al cristianesimo. E’ nata nel giorno in cui l’uomo è stato chiamato a realizzare nella sua vita temporale la dignità della persona umana nella sua libertà individuale, nel rispetto dei diritti di ognuno e della pratica dell’amore fraterno verso tutti”. Non ce ne possiamo troppo gloriare perché spesso la Chiesa come istituzione nel passato si è opposta alla democrazia, ne ha avuto paura, ma certo non sono mai mancati Santi ed uomini di Chiesa o laici impegnati nella vita civile che queste parole le hanno avute ben presenti.

Oltre i luoghi comuni

Sono parole quelle di Gesù che spiazzano i tanti luoghi comuni che accompagnano il dibattito pubblico sul rapporto tra religione e spazio civile. Spiazzano le parole dei laicisti, che vorrebbero le Chiese rinchiuse nello spazio sacro, ridotte al silenzio nella dimensione pubblica, incapaci di dare il proprio contributo allo spazio civile. Fanno giustizia anche delle parole dei clericali, che sono spessi dimentichi del comandamento “non nominare il nome di Dio invano” e vorrebbero trascinare Dio nella contesa politica, cercando di utilizzare la Sua autorità per giustificare le proprie misere ambizioni e ragioni umane. Non danno appigli neppure alle pretese degli “atei devoti”, che vorrebbero utilizzare la religione come puntello alle debolezze del potere civile. Una “religione civile” fatta su misura delle necessità del potere temporale.

Che vi sia un discorso pubblico che il cristianesimo ha il diritto ed il dovere di fare sta nella visione antropologica su cui si fonda al fede cristiana.

Tre riferimenti sempre presenti

Il cristianesimo è una religione del cammino. Non è una religione dell’eterno ritorno ad un punto immutabile, dell’eterno identico come è di altre visioni spirituali. Come ci ricorda San Paolo la creazione geme sotto le doglie del parto e il compito del cristiano è completare la creazione nella dimensione storica. I cristiani sanno che alla salvezza si accede attraverso il tempo che è dato loro di vivere, che sono le nostre scelte nel contingente a determinare il nostro destino eterno. Ricordando ancora le parole della lettera a Diogneto: “A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo”.

Il cristianesimo è una religione di libertà, che deve sempre misurarsi con la responsabilità individuale della propria coscienza. La Chiesa è madre e maestra, la comunità aiuta il cammino, ma alla fine è il dono del libero arbitrio che da all’uomo la tremenda responsabilità di essere arbitro del proprio destino, in questa vita ed in quella eterna.

Infine centrale nel pensiero cristiano è l’idea di persona: l’irripetibile singolarità di ogni individuo, ma nello stesso tempo l’essenzialità della relazione. La libertà si costruisce mettendosi in relazione con la comunità, da quella elementare della famiglia alla più vasta comunità ecclesiale e civile.

Il discorso pubblico della Chiesa

Dunque quando la Chiesa parla nel discorso pubblico può essere accusata di ingerenza? E’ l’accusa che ritorna e di volta in volta gli accusatori possono essere diversi. Nella realtà italiana, semplificando un po’ gli schieramenti possiamo dire che si lamenta la destra quando la Chiesa ricorda il dovere della solidarietà, della giustizia sociale e richiama, come è avvenuto, la necessità che i comportamenti privati siano coerenti con la professione pubblica. Si lamenta la sinistra quando la Chiesa ricorda che la libertà individuale ha un limite nel bene comune.

Piuttosto possiamo affrontare il tema in questo modo.

La Chiesa ha naturalmente, come qualsiasi altra organizzazione sociale, il diritto ed il dovere di manifestare pubblicamente il proprio pensiero anche sulle cose temporali, con i diritti garantiti a qualsiasi cittadino ed organizzazione sociale dalla nostra Costituzione. E anche chi può non condividere il discorso pubblico della Chiesa dovrebbe ascoltarlo comunque con rispetto, come espressione di un pensiero secolare che conosce profondamente il bisogno spirituale dell’umanità. Tanto più di fronte allo smarrimento ed alle evidenti sconfitte di tante ricette laiciste.

Si pone il problema di valutare a chi competa il discorso pubblico, specie quando dai principi si scende nel terreno più propriamente discrezionale delle differenti opzioni politiche. Qui il Concilio Vaticano II avrebbe data una risposta chiara: ai Vescovi la proclamazione della parola, ai laici impegnati l’azione, in modo da non compromettere il magistero nelle cose temporali, di per sé soggette ai necessari compromessi, anche nella loro dimensione più nobile: cum promittere, promettere insieme per la costruzione di positivi vincoli comunitari. Non sempre questa chiara divisione dei compiti viene rispettata, per le contingenze della storia, per la debolezza dei laici, o per un eccesso di diretto presenzialismo della gerarchia nelle cose temporali.

E qui si corre il rischio di indebolire il valore della testimonianza cristiana. Se si pensa di sostituire alla capacità persuasiva dell’annuncio del Vangelo una diretta contrattazione con il potere civile, per ottenere benefici concreti, basati anche su diritti condivisibili, ma smarrendo in questa contrattazione una libertà di giudizio e di azione. In questo caso si potrebbe parlare di ingerenza. Possiamo ancora andare ai primi secoli della Chiesa e pensare alle parole preoccupate di Ilario di Poitiers, che coglieva tutti i rischi di una Chiesa che nel dissolvimento del potere imperiale diventava puntello del potere temporale: “Combattiamo un nemico insidioso, un nemico che lusinga: non ferisce la schiena ma lusinga il ventre; non confisca i beni per darci la vita, ma arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà gettandoci in prigione, ma verso la schiavitù onorandoci nel suo palazzo; non colpisce i fianchi ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro”.

Cesare ha bisogno di Dio?

Potremmo chiederci: Cesare ha dunque bisogno di Dio? Naturalmente la storia, e anche la storia del mondo cristiano, ci da molte risposte: il tentativo di asservirLo e di utilizzarLo per conservare il potere temporale, il tentativo di eliminarLo dalla dimensione umana o al contrario di farLo diventare il punto di divisione, con sanguinosissime guerre di religione.

Ma se guardiamo al futuro si aprono nuovi scenari. L’impetuoso processo di globalizzazione, sostenuta da una intensa e globale circolazione delle merci, delle persone, dei flussi finanziari, da un network comunicativo mondiale, sostiene con più evidenza l’unicità della famiglia umana, ma insieme presenta il pluralismo delle fedi, delle culture, rischia di previlegiare la dimensione economica come regola prevalente cui conformare gli altri bisogni umani. Tuttavia l’evidente fallimento di una globalizzazione guidata solo dalla finanza e dalle esigenze di una agguerrita competizione economica, messe così bene in evidenza nella “Caritas in veritate” rafforza la validità di un insegnamento che considera la trascendenza una molla necessaria nell’avventura umana, oltre il dominio dei mercati e dello scientismo e indica la necessità di un’etica condivisa, come ricerca del bello, del vero, del buono.

Tre bivi per l’umanità

E possiamo dire che la saggezza della parola del pensiero cristiano, indipendentemente anche da una adesione alla fede, può offrire risolutivi punti di orientamento di fronte a problemi fondamentali della contemporaneità.

Pensiamo al valore dell’eguaglianza. Alle impegnative parole della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino”. Approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948, qualche giorno prima dell’approvazione della nostra Costituzione, è un frutto alto della riflessione di una umanità piegata dal terribile evento di una guerra mondiale, dalla tragedia unica dell’Olocausto, dall’affacciarsi della potenza distruttiva della bomba atomica. Della consapevolezza, come disse il presidente Roosevelt, di contrapporre al “Nuovo ordine” che aveva tentato di imporre la dittatura nazista “una concezione più grande, un ordine morale”. Che aveva il suo pilastro appunto nell’articolo 1 della Dichiarazione: “Tutti gli esseri umani nascono liberi, in eguale dignità e diritti. Essi sono dotati di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Così come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1795, con i suoi principi di libertè, ègalitè, fraternitè non preservò dagli orrori del Terrore, la dichiarazione del 1948 non ha dato pace e rispetto dei diritti umani all’umanità. E tuttavia su quei principi si costruisce la convivenza umana.

Su questo tema la Chiesa ha avuto parole determinanti e coraggiose. Con le grandi encicliche sociali, dalla Pacem in terris alla Populorum progressio fino alla Caritas in Veritate. Parole coraggiose e scomode. Proviamo a rileggere i giudizi che dava Leone XIII nel 1891 con la Rerum Novarum: “avvenne che a poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi, in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza, Accrebbe il male una usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa continua lo stesso sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile”. Non si può non vedere la straordinaria attualità di queste parole: lo stesso sfruttamento, la stessa speculazione, la stessa avidità. Da queste parole così ferme e disturbatrici dell’ordine prevalente nacque la molteplicità delle organizzazioni sociali cattoliche. Vale sempre la potenza delle parole del Concilio: “Nessuno osi chiamare Dio Padre se non considera ogni uomo suo fratello”.

La globalizzazione porta poi con sé una necessaria riflessione. L’idea di uno sviluppo senza limiti e senza un principio ordinatore s’infrange contro l’evidenza. Uno sviluppo senza limiti esterni è destinato ad accrescere le diseguaglianza, a consumare risorse non riproducibili appropriandosi dei beni delle successive generazioni. L’enorme potere della scienza pone necessariamente dei limiti etici: sarà lecito clonare l’uomo, fino a che punto può spingersi la manipolazione genetica? E una alleanza tra il potere sconfinato del denaro e quello della scienza come si coniuga con un assetto democratico? E’ la riflessione che Benedetto XVI ha posto in modo esigente nel suo discorso di fronte al Bundenstag: “nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va, la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguirne le indicazioni…esiste anche una ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé” Padre Theilard de Chardin pagò duramente le sue ardite tesi teologiche con la sua fede nella bontà del Mondo, ma le riflessioni di Papa Benedetto sembrano riecheggiare ora le linee del pensiero del gesuita francese.

Infine cresce una enorme domanda di senso: chi sia e chi voglia essere il soggetto umano e quale sia la natura dei suoi bisogni. La grande crisi che attraversa in particolare il mondo occidentale evidenzia che le soluzioni non potranno essere solo di carattere tecnico. Non si tratta solo di cattiva distribuzione della ricchezza, di mancanza di regole per orientare l’attività umana al bene comune. Il card. Scola ha parlato di una sorta di paralisi culturale che caratterizza le società occidentali, l’incapacità di pensare il futuro in modo innovativo. Alla rapidità dei cambiamenti scientifici ed economici no ha corrisposto una adeguata produzione di pensiero. Dice Scola “paralisi culturale che la crisi ha da un lato evidenziato e dall’altro contribuito ad accentuare e che si manifesta in alcuni atteggiamenti ormai piuttosto generalizzati in molte società europee: penso alla scarsa tendenza a progettare il futuro, al prevalere di legami revocabili a scapito di relazioni stabili, al bisogno interpretato come diritto esclusivo, al benessere da soddisfare tramite il consumo”.

Su questi tre aspetti: eguaglianza, senso profondo della vita e del limite certo non da sola ma sulla base di un pensiero secolare la Chiesa Cattolica ha molto da offrire alla compagnia degli uomini.

Bagnasco e Benedetto XVI: parole da meditare

Possiamo attentamente due ultimi documenti del magistero, che hanno esplicitamente affrontato il problema del rapporto tra fede e dimensione umana, ed il ruolo della Chiesa per vivificare la vita democratica: il discorso del Card. Bagnasco all’ultimo consiglio permanente della CEI ed il discorso di Papa Benedetto XVI al Parlamento tedesco.

La parte più importante del discorso di Bagnasco non riguarda il pur nettissimo giudizio sui comportamenti del Presidente del Consiglio (mortifica soprattutto dover prendere atto di comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui…i comportamenti licenziosi e le relazioni improprie sono in sé stessi negativi e producono un danno sociale a prescindere dalla notorietà. Ammorbano l’aria ed appesantiscono il cammino comune) e neppure il richiamo ad una più ambiziosa presenza dei cattolici nella vita politica, banalizzata dai media all’ipotesi di un nuovo “partito cattolico”. Che il politico per fare una buona politica debba condurre una vita buona è un insegnamento per fino ovvio per il cristiano. Ce lo ricorda del resto Santa Caterina da Siena, quando scriveva ai potenti del tempo: “è male possedere la cosa prestata se prima non si governa e signoreggia sé medesimo. Signoria prestata sono le signorie delle città e delle altre signorie temporali (…) Colui che signoreggia sé le possederà con timore santo, con amore ordinato e non disordinato, come cosa prestata e non sua”.

Ciò che conta è l’analisi del paese, dei suoi bisogni, di come rimediare a quel “disastro antropologico” di cui Bagnasco aveva parlato in una precedente occasione. Come aiutare un “paese disamorato, privo di slanci”? Bagnasco ci invita a riflettere sul fatto che se non si risveglia la speranza e ad un tempo quella tensione verso la verità senza la quale non c’è democrazia il paese non può salvarsi. Ricordo in proposito le parole di Benigno Zaccagnini: “La politica ha un suo compito: far sì che sia ragionevole continuare a coltivare la speranza”. Torna un giudizio severo sulla conduzione dell’economia: una globalizzazione che agisce dispoticamente prescindendo dalla politica, le agenzie di rating esercitano una autarchica e misteriosa influenza, la speculazione coinvolge i beni essenziali, come il cibo, l’acqua, la terra.

Di qui la necessità di “drenare tutte le risorse disponibili –intellettuali, economiche, di tempo – convogliandole verso l’utilità comune. E’ da questa analisi impietosa ma realistica della situazione italiana che si ricava la necessità per i credenti di “rendere politicamente più operante la propria fede” e perciò “la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita – sia promettente grembo di futuro”. Senza nostalgie, ne ingenue illusioni, aggiunge Bagnasco: non si vuol tornare ad un passato pure non privo di nobiltà, ma proprio di un’altra fase sociale e politica, né immaginare semplificatorie scorciatoie. Ma, appunto, cercare di rendere a Cesare quel che è di  Cesare e a Dio quel che è di Dio, e di farlo come comunità di credenti. E pensando a quel rinnovamento di spirito e di personale politico che è necessario per affrontare nuovi orizzonti. Lo ricordava negli anni disastrati dell’immediato dopoguerra, dopo la tragedia del fascismo e dell’occupazione nazista, il card. Schuster: “le cose nuove possono essere intraprese solo da uomini nuovi”.

Altrettanto importante è il discorso di Benedetto XVI: una riflessione aperta sul tema del rapporto tra fede, politica, diritto, ragione. Una riflessione di straordinaria modernità. La negazione di un integralismo fondamentalista che voglia ricavare da una fede certezze normative per tutti ed insieme il rifiuto di un integralismo laicista che non voglia riconoscere altro valore di orientamento per la convivenza che quello dell’arbitrio individuale.

Dice il Santo Padre: “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino. Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto (…) Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente?” Benedetto XVI dà una risposta: “La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico.”

Vediamo dunque che la Chiesa può essere veramente madre e maestra; in mezzo alla compagnia degli uomini, nella storia e nel mondo per diffondere un messaggio di salvezza per tutti.

Con umiltà. Il giovane giudice Rosario Livatino, assassinato dalla mafia, teneva un diario spirituale, al quale confidava la difficoltà nell’essere un giudice giusto: il dilemma sempre presente nel giudicare tra la giustizia e la pietà umana. In una delle ultime pagine annotava “Non ci sarà chiesto se siamo credenti, ma se siamo credibili”. Alla fine è quello che conta anche sul piano dell’impegno politico.

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