Oltre la crisi, il ruolo dei riformisti

Pubblicato il 19 marzo 2012, da Relazioni

Prolusione alla IV edizione del Corso della Scuola Veneta di Politica
Abano Terme, 3 marzo 2012

relazione di apertura Scuola Veneta di Politica 2012 formato PDF
Siamo alla quarta edizione del Corso annuale della Scuola Veneta di Politica. Un percorso che ha accompagnato la nascita del PD veneto. Nel 2009 una prima riflessione sul PD e le modalità dell’azione politica, nel 2010 il Veneto e le sue caratteristiche, l’anno scorso le parole chiave della Costituzione, nel 150esimo dell’unità d’Italia, quest’anno uno sguardo aperto al mondo: la vita al tempo del globale, per una globalizzazione intelligente.
Ci siamo lasciati festeggiando l’unità d’Italia e volendo ritrovare nei valori costituzionali il percorso per una iniziativa politica che finalmente desse una svolta all’Italia. Il berlusconismo era già in crisi evidente, con un Governo immobile ed inadeguato ad affrontare le difficoltà, ma non potevamo ancora sperare che da lì a qualche mese davvero si aprisse una pagina nuova per l’Italia.
Oggi ci ritroviamo con un nuovo Governo, sostenuto anche dal PD, che quei valori costituzionali li sta facendo rivivere, che ci ha ridato reputazione nel consesso internazionale e che sta mettendo in sicurezza il paese. Governo politico, come spesso ripeto, senza ministri espresso dai partiti, ma pienamente politico per le scelte che deve fare e perché è la politica a sostenerlo.
Con il corso di quest’anno cerchiamo di offrire delle risposte alla domanda del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz che abbiamo messo in testa al programma: “Il paesaggio economico globale è mutato irreversibilmente. La domanda è: che tipo di mondo sarà?” . Capire meglio che tipo di mondo sarà, ed anche cosa potremo fare perché vada nella giusta direzione.

Il mondo soffre per mancanza di pensiero
Perché non c’è dubbio che il grande sviluppo della scienza e della tecnologia, un sistema di relazioni globali oltre le frontiere degli Stati nazionali hanno profondamente mutato il mondo. Non sempre però all’enorme progresso scientifico e alla crescita delle opportunità per tutta l’umanità ha corrisposto un avanzamento sul piano dei diritti, delle tutele dei soggetti più deboli, di una piena realizzazione della persona umana.
I valori su cui si è fondato il lavoro dei progressisti non hanno fatto gli stessi passi in avanti, paragonabili a quelli che fecero dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, con l’avvio di un nuovo ciclo di sviluppo che sostenne l’ampliarsi di un moderno sistema di diritti e di tutele. La competizione con la dittatura sovietica condusse il mondo occidentale ad uno sviluppo più maturo, con una redistribuzione dei frutti della ricchezza prima sconosciuta, con un quadro di coesione sociale.
Nel 1967 il Papa Paolo VI presentava l’Enciclica “Populorum Progressio”. Quel processo di internazionalizzazione che poi avremmo chiamata globalizzazione era agli albori. Eppure nell’enciclica c’è una lettura lungimirante delle grandi opportunità che si potevano aprire per popoli economicamente oppressi ed insieme dei rischi di uno sviluppo non guidato da una chiara visione dei diritti inalienabili della persona umana. E ad un certo punto il Papa lascia cadere questa osservazione: “Il mondo soffre per una mancanza di pensiero”. Notazione di straordinaria attualità, perché è evidente che alle radici della crisi contemporanea del mondo occidentale non ci stanno solo componenti economiche, ma più ampiamente questioni che riguardano il senso stesso della vita, il rapporto tra scienza ed umanità, tra globale e locale, tra crescita e diritti, tra popolo e democrazia.

Una crisi diversa
In che cosa è diversa questa crisi? Gli economisti ci dicono che dal 1970 ad oggi si sono verificate circa 120 crisi finanziarie, naturalmente con caratteristiche diverse: solo locali, per aree geo economiche, ecc.
Certamente nessuna con queste caratteristiche: per durata (iniziata nel 2008 ancora non si vede un assestamento), per profondità (dalla finanza, alla produzione, al commercio, per gli effetti sociali in termini di impoverimento e perdita di lavoro), per estensione (tutto il mondo occidentale).
Perché segna la fine della centralità occidentale: è proprio all’interno del ricco mondo occidentale che si creano le condizioni della grande crisi, semmai attutite dalla presenza di altre economie, quella cinese in particolare che fa da prestatore alle esauste finanze occidentali.
Perché segna la fine di un pensiero unico, quello di un capitalismo finanziario senza regole, che ha segnato il mondo dopo la fine degli accordi di Bretton Woods.
Per la mia generazione se si volevano alzare gli occhi sul mondo la parola chiave non era globalizzazione. Era un’altra: sottosviluppo. L’uscita dal colonialismo dell’Africa, con le speranze che anche lì si potesse uscire da una condizione di interi popoli privati di diritti fondamentali, dall’accesso al cibo e all’acqua, alla sanità, all’istruzione. Il riscatto dell’America Latina, con la delusione della kennediana “Nuova Frontiera”, ma insieme la liberazione da sanguinarie dittature. Il continente indiano, attanagliato da crisi alimentari gravissime. Il gigante asiatico, mondo separato, che doveva conoscere i drammi della decadenza della dittatura maoista.
Se oggi digitiamo su Google il termine “sottosviluppo” troviamo 230.000 ricorrenze. Se digitiamo “globalizzazione” ne troviamo 3.780.000, limitandoci alla lingua italiana. 15.500.000 per “globalisation”.

Semplicemente una nuova geopolitica
Della globalizzazione noi ormai tendiamo a vedere la parte negativa. Ci siamo messi dietro alle spalle la fase in cui l’economia occidentale ha tratta vantaggi consistenti dall’ampliarsi degli scambi commerciali, ha sfruttato la disponibilità della materie prime a prezzi convenienti, ecc. Oggi ne vediamo le conseguenze negative in termini di lavoro e salari, per i quali la competizione globale indebolisce contenuti economici e diritti, con una pressione migratoria che pone problemi di equilibri demografici, vivibilità delle città, ancora competizione al ribasso per i salari. Con una perdita di potere statuale che, nel periodo della dominanza di un pensiero di capitalismo senza regole ha significato ridimensionamenti del sistema di welfare.
Ciò che dobbiamo invece leggere è una enorme redistribuzione degli equilibri mondiali. Ciò che per l’Occidente è stata la grande gelata per il resto del mondo ha avuto conseguenze marginali. Anzi Brasile e Cina in particolare hanno avuto un vantaggio specifico per l’affanno dell’economia statunitense. Come ha osservato l’ex Presidente brasiliano Lula rivolgendosi all’opinione pubblica statunitense: “Per anni ci avete voluto insegnare quello che dovevamo fare, ed ora siete voi che non sapete dove andare”.
Il cambiamento geopolitico lo possiamo leggere con pochi dati. La classifica degli stati secondo il PIL oggi vede ancora dominante il vecchio mondo. I primi sette sono USA, Giappone, Cina, Germania, Francia, Regno Unito, Italia. Ma se prolunghiamo lo sguardo alle previsioni per il 2050 leggiamo un mondo con una geografia economica tutta diversa: Cina, India, Usa, Giappone, Brasile, Messico, Indonesia. L’Europa non c’è più, o meglio ci sarà se evolverà verso uno stato federale, capace di sommare anche nelle statistiche le singole economie.
Nel complesso il PIL dei paesi dell’area OCSE che rappresenta oggi il 54% del prodotto mondiale scenderà al 2050 al 30%. La maggior parte della domanda di lavoro sarà fuori dei paesi occidentali: al 2050 la popolazione in età lavorativa dai 15 ai 65 anni crescerà di 1,7 miliardi, per oltre 1 miliardo concentrato nei paesi emergenti .
Naturalmente questa reditribuzione è avvenuta conservando grandi squilibri redistribuitivi all’interno delle singole economie emergenti, e tuttavia i risultati sono imponenti. In Cina si calcola che 600 milioni di cinesi siano usciti dalla povertà. Esiste ormai una classe di neoricchi di almeno 50 milioni di persone ed una classe borghese di 150.000 di persone. Più di 40 milioni di studenti frequentano le università cinesi. Ci sono piani ciclopici per l’infrastrutturazione (oltre 22.000 chilometri di treni ad alta velocità), il risanamento ecologico della struttura economica, del tutto trascurato fin qui, la ricerca in campi strategici come la sicurezza alimentare. ecc. Come osserva un profondo conoscitore della realtà cinese come Romano Prodi la Cina è l’unico attore globale che esporta contemporaneamente merci, capitali, uomini e con una spesa militare di molto inferiore a quella statunitense sta accrescendo enormemente la propria influenza globale .
Anche l’Africa non è più solo il luogo della miseria assoluta. Restano situazioni subumane nella fascia subsahariana, tra carestie, guerre tribali, malattie, sulla faglia di espansione di estremismo islamico, ma al Sud il Sudafrica sta realizzando performance importanti. Ormai si parla non più di Bric ma di Brics, aggiungendo appunto il Sudafrica al Brasile, Russia, India, Cina. Sulla sponda del Mediterraneo la rivoluzione dei gelsomini fa sperare che regimi politicamente più aperti e democratici possano sostenere più robusti cicli di sviluppo.
L’Occidente deve riuscire a guardare a questa reditribuzione come una fase inevitabile, necessaria per evitare crolli economici e sociali ed un mondo troppo instabile. Possono apparire un po’ pessimiste le osservazioni di Edmondo Berselli: “La scelta è tra essere poveri nella consapevolezza della propria condizione storica ed antropologica, da un lato, e dall’altro essere poveri nell’assoluta inconsapevolezza di ciò che è avvenuto, nella sorpresa dell’indicibile, e quindi soggetti a tutte le frustrazioni possibili. Occorre accingersi a costruire una cultura, forse non della povertà, bensì della minore ricchezza” . Si trata naturalmente di un impoverimento materiale relativo, soprattuto di un impoverimento delle aspettative per le popolazioni del mondo occidentale. Dall’altra parte però c’è una crescita impetuosa ed un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita per un’altra parte del mondo. Semmai il problema è che la crescita avvenga replicando un modello dissipativo, che ha dimostrato di non poter reggere nel tempo .
In ogni caso la globalizzazione è un fenomeno inarrestabile ed è inutile discutere sul se. Sarebbe come se nel ‘500 si fosse discusso sull’essere pro o contro la scoperta dell’America. L’importante è essere consapevoli che non si tratta solo di un salto di scala: non riguarda solo la grandezza ma la qualità del modello economico, con un cambiamento dei rapporti di scambio, dei ruoli degli Stati.
Per una sintetica lettura del contesto della grande crisi possiamo individuare
tre caratteristiche: l’economia del superfluo, del debito, dell’assenza di regole;
tre cause: l’eccesso di diseguaglianza, l’assenza di buone regole, una ideologia sbagliata;
Tre insostenibilità: sociale, ambientale, finanziaria;

Una economia del superfluo
Il grande ciclo economico che abbiamo attraversato è certamente stato trainato da una economia che potremmo definire del superfluo. Consumismo veniva chiamato nell’Italia degli anni ’60 per descrivere il brusco passaggio da una economia contadina al miracolo economico, con l’accesso anche delle fasce più popolari a consumi prima riservati alle fasce più ricche: dall’auto agli elettrodomestici. Consumi derivanti da un innalzamento dei salari e ad un incremento della produttività . “Consumo, dunque sono” si intitola un fortunato saggio di Bauman che descrive il passaggio dalla “società dei produttori” alla “società dei consumatori”, il cui valore supremo è il diritto-obbligo alla “ricerca della felicità”, una felicità istantanea e perpetua che non deriva tanto dalla soddisfazione dei desideri quanto dalla loro quantità e intensità. Eppure, dice Bauman, rispetto ai nostri antenati noi non siamo più felici: più alienati semmai, isolati, spesso vessati, prosciugati da vite frenetiche e vuote, costretti a prendere parte a una competizione grottesca per la visibilità e lo status, in una società che vive per il consumo e trasforma tutto in merce. Vi è una enorme pressione consumistica indotta dalla potenza del sistema pubblicità/mass-media sia con una pulsione diretta al consumo, con uno stimolo continuo all’acquisto di nuovi beni ed al rinnovo di quelli posseduti, sia con un invito indiretto, con la proposizione in fantasy e reality di un modello di vita basato sul successo, accompagnato da una infinita disponibilità di beni. Anche in questo caso una spirale deformata che si autoalimenta: la qualità delle trasmissione è soggetta al giudizio immediato dell’auditel, che misura il costo dello spazio pubblicitario e la resa immediata delle vendite condiziona l’afflusso di pubblicità: più successo di pubblico, più costi pubblicitari, più costi del prodotto, più volumi di vendita necessari. Di conseguenza l’accelerazione verso i beni privati ed il degrado di quelli pubblici e comunitari.

Una economia del debito
Una seconda caratteristica è una economia basata sul debito. Si scommette sul futuro, attualizzando ogni valore, comprando a debito. Si scommette su tutto, anche sul valore futuro dei beni alimentari, generando fluttuazione dei prezzi che portano drammatiche conseguenze per i piccoli coltivatori e crisi alimentari non governate. Cresce il debito degli stati, accresciuto da politiche fiscali competitive tra gli stati e da scelte delocalizzative verso paesi a bassa pressione fiscale.

Una economia senza regole
Infine una economia senza regole. O una economia dell’indebolimento delle regole. Poteri statuali più deboli, poteri sovra statuali troppo deboli non sono stati in grado di offrire una adeguata cornice normativa alla globalizzazione. I principi di etica pubblica sono stati travolti da una corrente di avidità, di pretesa di ritorni immediati.
Sulle cause molto si è scritto. Forse più su quelle immediate, sulle radici nel sistema finanziario più che su quelle remote. Ad esempio Paolo Savona sottolinea che il contagio dell’economia reale da parte degli squilibri monetari e finanziari vada riletto alla luce di un preesistente squilibrio dell’economia reale “per l’ingresso sul mercato di circa tre miliardi di nuovi lavoratori a basso costo e a spese di welfare quasi nulle, che hanno causato un aumento della domanda di materie prime e conseguente impennata dei loro prezzi e, a seguito dell’abbondanza di offerta creata dai nuovi produttori una caduta di prezzi dei beni finali” .
In ogni caso ci sono tre cause ben individuabili, e importanti per i riflessi politici che esse hanno.

L’eccesso di diseguaglianza
La crisi nasce da un eccesso di diseguaglianza. In luogo di procedere per via fiscale ad una più equa distribuzione del reddito prodotto le politiche fiscali dell’Amministrazione Bush hanno privilegiato i redditi più elevati. Per le famiglie a reddito medio e basso invece di politiche salariali adeguate a sostenere un maggiore potere d’acquisto si è concessa la possibilità di accedere a credito senza garanzie idonee e con tassi di interesse molto bassi. Ciò ha generato un colossale indebitamento delle famiglie americane e con l’esplodere della crisi un enorme impoverimento: posti di lavoro persi, case pignorate, risparmi in fumo. Per comprendere la psicologia del risparmiatore medio americano è significativa una intervista ad una soldatessa, volontaria in Iraq per cercare di sbarcare il lunario: “Avevo un reddito di 2500 dollari e la rata del mutuo era di 3.500 dollari, ma mi avevano detto che poi avrei potuto rinegoziarlo”.
La crisi segnala anche di una diseguaglianza a livello planetario. Gli Stati Uniti che vivono con un tenore di vita superiore a quello che sarebbe consentito dalla ricchezza prodotta e si indebitano sul mercato internazionale. La Cina che impone un risparmio forzoso ai propri cittadini mantenendo bassi consumi e servizi e investendo i risparmi sul debito americano.
Tutte le statistiche sulla distribuzione del reddito registrano un impoverimento delle classi medie. La quota di reddito detenuta dall’1% più ricco della popolazione statunitense è salito al 23,5% del totale, rispetto al 10% degli anni ’70. Ed è interessante rilevare che siamo alla stessa concentrazione che aveva il reddito negli anni precedenti il crollo del 1929: l’eccessiva concentrazione della ricchezza e l’impoverimento dei ceti medi rende insostenibile il sistema economico. Negli Stati Uniti il compenso medio dei top manager è divenuto pari a 150 volte il salario operaio, mentre 20 anni fa era 25 volte il salario operaio. In 30 anni le quote di salario sul PIL nella media dei paesi OCSE sono calate di 9 punti. Anche in Italia gli studi della Banca d’Italia registrano un crescere delle diseguaglianze: chi è ricco diventa più ricco, chi è povero non riesce più a trovare ascensori sociali che diano opportunità di migliorare le proprie condizioni.
Basterebbe riandare alle riflessioni del fondatore della scelta economica moderna, bandiera del pensiero liberale: “Nessuna società può essere florida e felice se la grande maggioranza dei suoi membri è povera e miserabile”. Non lo scriveva nell’800 Karl Marx ma nel ‘700 Adam Smith.

L’assenza dei doveri dei regolatori
Un secondo motivo consiste nella rinuncia dei pubblici poteri ed in genere degli organismi preposti al buon funzionamento del mercato alla tutela del risparmiatore e del consumatore. Una enorme asimmetria informativa deforma il buon funzionamento dei mercati finanziari. La lievitazione di strumenti finanziari sempre più complessi che in realtà nascondono la mancanza di un rapporto tra ricchezza disponibile e strumento finanziario sono resi possibile dalla rinuncia dello Stato a svolgere il proprio compito di buon regolatore del mercato. Le autorità di vigilanza chiudono gli occhi, gli interessi tutelati sono quelli dei grandi manager, dei fondi speculativi, della creazione di ricchezza senza base produttiva. “It’s the economy, stupid” disse con successo Bill Clinton, portato alla seconda vittoria dallo ondata espansiva dell’economia americana, che presto avrebbe dimostrato la sua fragilità. Ma è stata una economia in cui l’inventiva finanziaria si è spinta verso la vera e propria truffa. Accanto ad una troppa facile concessione di credito invece che di aumenti salariali ci sta anche la malversazione della cosiddetta finanza creativa. Titoli derivati in cui si mischiavano titoli spazzatura con titoli a basso rischio, complicità delle agenzie di rating nella valutazione del rischio, avidità di traders e finanzieri per un profitto spropositato ed immediato.

Una ideologia sbagliata
Infine occorre sempre ricordare che a crisi è figlia di una scelta ideologica della destra. Risale all’epoca delle politiche del duo Reagan Thatcher sostenuto dalle idee della scuola di Chicago con Milton Friedman la decisione di eliminare ogni forma di regolazione dei movimenti di capitale a livello transnazionale creando le premesse di un eccesso di finanza speculativa. I fondi speculativi si muovano a livello globale, cercando il rendimento a brevissimo termine, spesso spolpando le aziende e abbandonandole al loro destino, scommettendo sui rendimenti futuri di ogni bene, innescando rialzi speculativi di beni essenziali, dal cibo ai metalli. La scelta politica a favore di una finanza globale in un mercato senza regole non avrebbe avuto effetti così profondi senza la contemporanea presenza di una piattaforma tecnologica che la sostenesse. Il mercato diviene veramente globale con il supporto della rete del web che consente transazioni planetarie in millesimi di secondo.
L’estrema volatilità dei capitali genera una crisi fiscale degli Stati, che devono competere al ribasso sui livelli di tassazione. E questo porta ad un arretramento generale della capacità dello Stato di produrre buoni beni pubblici ed una progressiva privatizzazione, con un declino dei beni collettivi rispetto a quelli privati.

L’insostenibilità sociale
La prima insostenibilità è di carattere sociale. Ho già detto del crescere delle diseguaglianze sociali. Al centro della insostenibilità ritorna però la questione del lavoro. Sotto questo profilo si torna pienamente alla questione sociale che tra fine ‘800 e primi del ‘900 fece la storia. C’è una perdita di ruolo, di status, di valore economico del lavoro. Nei paesi dell’OCSE la quota che va a remunerare il lavoro è scesa mediamente di 5 punti negli ultimi 25 anni, mentre la quota che va a remunerare il capitale è cresciuta di 5 punti. Sono in complesso 1900 miliardi di dollari che sono usciti dalle tasche dei lavoratori dipendenti. Il lavoro ritorna ad essere una merce, diversamente combinabile con le tecnologie disponibili e con le opportunità geografiche. Secondo uno studio comparato del 2007 fatto 100 il PIL complessivo dell’Italia la quota andata a remunerare il lavoro è scesa in dieci anni da 77 a 69, quella del capitale da 23 è salita a 31. Con un trend analogo per gli altri paesi, in cui la quota del capitale sale da 24 a 33 in Francia e Giappone, dal 30 al 33 in USA, dal 28 a 38 in Spagna, da 24 a 44 in Irlanda (e questo poi spiega il quasi default dell’economia irlandese).
Lavoro meno remunerato e lavoro sempre più scarso. La crisi del 2008/2009 ha cancellato secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro 34 milioni di posti di lavoro, 2/3 dei quali nell’area OCSE ed America Latina. La disoccupazione giovanile globale, sempre secondo i dati OIL, è aumentata dell’1,3% tra il 2008 ed il 2009, con un balzo addirittura del 4,6% per i paesi sviluppati .
La perdita di valore economico del valore si accompagna ad una perdita del suo valore sociale e del suo peso morale . Non a caso si è scritto all’art. 1 della nostra Costituzione che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro: è stato il valore il valore fondante della costruzione delle democrazie occidentali e lo strumento della coesione sociale. Per questo parlo di insostenibilità sociale. Ha osservato il Presidente dell’ISTAT Enrico Giovannini che manca alle scienze sociali una teoria del funzionamento del sistema sociale che dica, per esempio, che oltre un certo livello del tasso di disoccupazione o oltre un certo livello di aumento del prezzo dei beni alimentari si determinano cambiamenti non controllabili .

L’insostenibilità ambientale
Una seconda insostenibilità riguarda la sostenibilità ambientale. L’intensità dello sviluppo ha avuto come altra faccia della medaglia un pesantissimo stress ambientale: consumo delle fonti fossili accumulate per miliardi di anni, deforestazione, avvelenamento dell’area e dell’acqua, alterazioni climatiche. Finora l’ambiente non è stato un costo, ma un bene disponibile per chiunque e senza misura. Non si può continuare in questo modo: il rapporto tra produzione di ricchezza e consumo di beni non rinnovabili è troppo elevato e ci stiamo appropriando dei beni delle generazioni future. Siamo ormai in presenza di una rottura del ciclo energetico, un impoverimento della biosfera con una fortissima diminuzione delle biodiversità. Lo stock dei beni naturali sta deperendo troppo rapidamente. La crisi ecologica si spiega fondamentalmente con lo sfasamento esistente tra un ritmo troppo veloce di consumo di risorse naturali non riproducibili o non riproducibili con la stessa velocità con cui vengono consumate e un ritmo di investimento troppo lento nelle nuove tecnologie ambientali ed energetiche .

L’insostenibilità finanziaria
C’è un eccesso di finanziarizzazione dell’economia. Si è privilegiato il capitale speculativo a quello creatore di ricchezza. Non vi è alcun rapporto tra la massa finanziaria e la ricchezza prodotta. Il volume delle attività supera di molte volte, da 7 a 10 il volume della ricchezza prodotta. L’indice Down Jones in 5 anni alla fine degli anni 90 è passato da circa 3.000 a oltre 11.000: quasi quadruplicato, ma nello stesso tempo il prodotto interno lordo cresceva solo del 30% e gli utili delle aziende quotate in borsa del 60%. Non diventa più conveniente dedicarsi alla produzione di ricchezza materiale, innovare sulla qualità dei prodotti. Rende di più scommettere sul futuro. Come ha osservato Giorgio Ruffolo questa enorme finanziarizzazione non genera nuova ricchezza. Gran parte delle transazioni avviene su mercati secondari, riguardano cioè titoli che rappresentano ricchezze già esistenti e si risolve quindi in distribuzione della ricchezza esistente .
Ancora 10 anni prima dello scoppiare della crisi il movimento giornaliero dei capitali si aggirava attorno a 2.000 miliardi di dollari e le stime del FMI indicavano che solo una cifra che si collocava tra il cinquantesimo ed il centesimo del totale era riferibile a scambi dell’economia reale, cioè al pagamento di beni e servizi. Questi dati, riferiti al 1999 indicano che il totale delle transazioni erano già allora superiore di 6/7 volte le riserve delle banche centrali dei 7 paesi più sviluppati. Un’economia di carta (elettronica), una gigantesca piramide per sua natura a grande instabilità. Con un problema in più. Il formarsi nell’opinione pubblica di una reazione di sfiducia globale che tende a considerare tout court la finanza come un nemico, mentre la buona finanza è l’ancella necessaria della buona economia.

Tre strade davanti a noi
Come si può uscirne?
Semplificando un po’, vista da destra la cosa sarebbe semplice.
E’ una parentesi, come ce ne sono state in passato, occorre lasciare che si riaggiustino un po’ le cose e poi si potrà ripartire con un altro ciclo. Non deve essere certamente l’occasione per pensare ad una nuova soggettività dell’azione pubblica.
Vi è in questa posizione un autentico paradosso. Gli stati hanno speso tra i 12.000 e i 15.000 miliardi di dollari per evitare un crash globale del sistema finanziario privato. Per assicurare questi interventi si sono dovuti indebitare sui mercati privati. I destinatari degli aiuti sono gli stessi che hanno creato il disastro, quasi sempre senza pagare pegno. Ed ora lucrano sull’indebolimento delle finanze pubbliche, esigendo tassi di interesse più elevati per il servizio del debito degli stati. Assistiti da quelle stesse agenzie di rating che certificavano che titoli dimostratisi pura spazzatura erano pienamente affidabili.
Come abbiamo visto c’è una instabilità strutturale. Una economia della dissipazione che non può reggere, tra divinizzazione di un mercato senza regole (che è la negazione stessa del concetto di mercato) ed una denigrazione del ruolo del pubblico e dei beni comuni, salvo richiedere a quella “bestia” che si voleva affamare, secondo le teorie della scuola di Chicago, di intervenire in forza per rimediare ai fallimenti del mercato non regolato.
Ci conviene riandare sul concetto di mercato alle pagine di un grande liberale come Luigi Einaudi, quando descriveva il meccanismo di funzionamento di una fiera contadina: “Tutti coloro che vanno alla fiera sanno che questa non potrebbe avere luogo se, oltre ai banchi dei venditori […] non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri […] la divisa della guardia municipale […] il palazzo del Municipio con il segretario ed il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato […], il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno alla fiera. E ci sono le piazze e le strade […], ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono che, se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere” . Il mercato per ben funzionare ha bisogno di regole certe e di una infrastruttura pubblica. E sul ruolo del pubblico possiamo riandare alla famosa frase di Keynes: “La cosa importante per il governo non è fare cose che singoli individui già fanno, e farle un po’ meglio o un po’ peggio; ma fare cose che al momento nessuno fa”.
Visto da sinistra le cose sono un po’ più complicate.
Può essere presente una legittima nostalgia per modelli di welfare che hanno consentito dopo la seconda guerra mondiale di costruire nelle società occidentali un autentico progresso, fornendo ragionevoli sicurezze sociali e un ampliamento dell’accessibilità a beni fondamentali. Troppo spesso però è un ripiegarsi non solo sui valori che hanno fatto da motore a quella stagione ma anche su modelli che non hanno più riferimento con il cambiamento delle modalità produttive e degli equilibri demografici e con una statualità ed una dimensione della finanza pubblica che non c’è più.
Oppure è un lavoro attorno ai miti della decrescita ed in genere di una società antindustriale. Partendo da osservazioni condivisibili sui guasti prodotti dal modello di consumo e produzione che ci ha accompagnati si vuole “scendere dal mondo” . Se il male è stato prodotto dalla tensione verso una crescita indefinita bisogna abbattere questo feticcio. In questa impostazione non si valuta a sufficienza il rischio di una involuzione regressiva, che chiude ogni finestra verso il futuro.
Occorre incamminarsi su una terza strada. Curare una modernità deviata con rimedi premoderni non offre una via d’uscita. Al contrario: si tratta di usare la forza che si è sprigionata con la modernità incanalandola nella giusta direzione. Come scrive Enzo Rullani: “Tornare alle condizioni di partenza con la compressione dei consumi e dei redditi verso livelli di sopravvivenza non è all’ordine del giorno. Semmai si tratta di fare il contrario: usare i mezzi che la scienza e la produzione moderna ci hanno messo a disposizione per reinterpretare la natura, le ecologie, la cultura condivisa di cui sentiamo il bisogno per noi ed i nostri figli. Bisogna ampliare le ambizioni, non restringerle, assumendo nel tempo la responsabilità di chi mette la sua impronta su assetti e legami che ha ricevuto, e che deve lasciare ad altri senza pregiudicare la loro possibilità di scegliere come andare avanti” .
Non si tratta insomma solo di ritrovare ciò che si è perso. Si tratta di inventare.
Possiamo considerare tre punti di attacco per una nuova iniziativa politica, a favore di una globalizzazione intelligente:
una più alta consapevolezza della natura antropologica della crisi
la ricerca di un nuovo paradigma economico
la necessità di un nuovo ordine democratico mondiale.

Dare un nuovo senso alla vita
Bisogna ripartire dalle esperienze di vita delle persone e delle comunità. Non c’è solo l’economia. C’è una perdita di senso della vita: per la velocità dei cambiamenti, per la perdita di tranquillizzanti sistemi identitari, per l’incertezza che domina l’orizzonte di vita.
Non a caso il card. Bagnasco, parlando della società italiana in questo passaggio parla del rischio di un disastro antropologico e degli studiosi di impianto marxista come Tronti e Vacca parlano di un’emergenza antropologica, promuovendo le ragioni di un incontro con il magistero sociale della Chiesa cattolica. Dicono questi studiosi in un appello pubblicato qualche mesa fa: “La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pone di fronte ad una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e al tempo stesso la radice più profonda della crisi della democrazia. Germina sfide che esigono una nuova alleanza fra uomini e donne, credenti e non credenti, religioni e politica” .
Vi è un eccesso di precarietà nella società, che rende più difficile il formarsi di progetti a lungo termine, di coltivare relazioni solide, che toglie spessore ai progetti familiari. Sono, come osserva Bauman “vite di corsa” prigioniere della tirannia dell’effimero .
Scivoliamo lentamente verso una società del reality, in cui per strati crescenti della popolazione diventa difficile distinguere tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica. Un popolo di spettatori più che di attori, che si ritaglia spazi sul set: si tratti di visitare lo scenario dei grandi fatti di sangue (la visita ad Avetrana) o di fotografarsi sorridenti qualche ora dopo il naufragio avendo sullo sfondo la Concordia.
Vi è una società dello smarrimento: alcuni dati statistici dovrebbero fare riflettere di più la politica. Negli ultimi 5 anni sono cresciuti del 35% i reati di percosse, del 35% i reati di minacce ed ingiurie, del 114% il consumo degli antidepressivi, per non parlare del consumo di alcol e droga anche in età giovanissima. Tutti segni di una instabilità relazionale, di una difficoltà a interfacciarsi a livello comunitario.
Tutte le ricerche dimostrano una asimmetria tra la crescita del PIL e la crescita dei diversi indicatori con cui si cerca di misurare il benessere, anzi la felicità, parola che è rientrata nel lessico dell’economia e della politica .
Come ha scritto Aldo Schiavone: “nel cuneo che sta spaccando in due la nostra intelligenza – scienza e tecnologia da una parte, controllo politico, responsabilità etica, progettualità sociale che reagiscono più lentamente dall’altra – potrebbe inserirsi in effetti di tutto: tendenze regressive, scelte irrazionali dagli esiti più disastrosi, scollamenti tra generazioni, drammatici deficit di regole che lascerebbero ingovernate potenze enormi o all’opposto spinte ossessive all’iper decisione e alla sovra normazione” .
Vale la riflessione dello scrittore tedesco M. Ende: “Siamo corsi così avanti in questi anni che dobbiamo sostare un attimo per consentire alla nostra anima di raggiungerci”. O come dicevano in dialogo Giuseppe Ungaretti e Mario Rigoni Stern già qualche anno fa, intravedendo il futuro: “C’è il progresso tecnologico che ora va velocissimo, c’è il progresso morale che ora tiene il passo, e la distanza si fa sempre più lunga”.
Bisogna ricongiungere queste due velocità. Le trasformazioni tecnologiche, la disponibilità di beni, essere inseriti nel flusso di una società affluente sono tutti elementi insufficienti. Se non c’è una adeguata risposta al senso della vita si inceppa anche il meccanismo dello sviluppo.

Un nuovo paradigma economico
Bisogna costruire un nuovo paradigma economico. Abbiamo vissuto un ciclo basato sull’economia della dissipazione: una dissipazione del valore delle persone, delle ecologie, dei beni comuni.
Ci sono diverse direttrici su cui lavorare, elementi su cui appoggiare una iniziativa che naturalmente non riguarda solo la politica, ma il complesso della società e dei gruppi dirigenti: politici certo, ma anche manager, intellettuali, referenti sociali, organizzazioni della società.

Una economia della cooperazione
Intanto noi veneti possiamo imparare dall’economia dei distretti. Una economia di successo, di un successo basato sulla cooperazione, con la gestione in comune di risorse e di saperi, con una integrazione delle specializzazioni, con un rapporto stretto con il capitale sociale dei territori.
Possiamo osservare che sul tema dei beni comuni che trova una nuova attenzione da parte di una opinione pubblica allargata queste forme di economia cooperativa sono le più adatte. Infatti nella gestione dei beni comuni bisogna superare i due estremi del pendolo. La gestione privatistica previlegia esclusivamente le rendite possibile, con una attenzione marginale per le utilità condivise. D’altra parte la gestione pubblica non è esente da difetti. L’abbandono del bene se non c’è una domanda pubblica, i possibili sprechi se il bene viene considerato gratuito e non viene perciò apprezzato come bene .
La gestione cooperativa dei beni comuni – che non sono naturalmente solo quelli ambientali, su cui forse si accentua maggiormente l’attenzione, dopo il referendum sulla gestione dell’acqua, ma anche quelli sociali (il sistema delle tutele) e quelli cognitivi: la scuola e la trasmissione dei saperi – può diventare uno strumento fortemente innovativo per la loro buona gestione.

L’alleanza virtuosa con l’ambiente
C’è naturalmente il tema della green economy. Che ha plurimi aspetti. Non solo far pagare i costi ambientali, le esternalità negative conseguenza dei processi produttivi, cambiando le ragioni di scambio a favore di economie pulite. Si tratta, di più, di investire su tutta la filiera di una economia maggiormente sostenibile, con una radicale ridefinizione dei cicli produttivi. Impiegando meno energia con apparati più efficienti di generazione, meno materie prime con una ottimizzazione dei cicli ed il recupero degli scarti. Ampliare le potenzialità del riuso, mentre una adeguata tassazione degli impatti ambientali accresce la convenienza ad investire su cicli produttivi più puliti
Dalla contrapposizione tra attività produttiva ed ambiente si può passare ad una alleanza virtuosa, sostenuta anche da una maggiore sensibilità del cliente non solo verso beni sostenibili nelle modalità d’uso ma anche per le modalità con cui questi beni vengono prodotti .

Una economia civile di mercato
Il ciclo aperto con la stagione dell’eccesso liberista si è concluso con un fallimento. Occorre rifondare i materiali che pure sono stati alla base di una stagione di grande crescita e di progresso sociale. Non si tratta di tornare a forme improbabili e fallimentari di statalismo, in un mondo in cui lo Stato nazione ha perso molti poteri. Si tratta come osserva Stefano Zamagni di “ consentire che il mercato possa tornare ad essere mezzo per rafforzare il vincolo sociale attraverso la promozione sia di pratiche della distribuzione della ricchezza che si servono dei suoi meccanismi per raggiungere l’equità, sia di uno spazio economico in cui i cittadini che liberamente lo scelgono possono mettere in atto, e dunque rigenerare, quei valori (quali la solidarietà, lo spirito d’impresa, la simpatia, la responsabilità d’impresa) senza i quali il mercato stesso non potrebbe durare a lungo” . Per strada, sotto la pressione di cambianti economici, sociali, antropologici, si è perso il valore di alcuni pilastri che avevano fatto nascere l’economia di mercato e la sua evoluzione nell’Europa occidentale che usciva dalla tragedia della seconda guerra mondiale in economia sociale di mercato. Dobbiamo risalire indietro, ce lo ricorda sempre Stefano Zamagni, a prima della rivoluzione industriale ed alla filosofia utilitaristica di Bentham per ritrovare il significato profondo di alcuni termini. L’idea della divisione del lavoro che lungi dall’essere lo strumento per una redistribuzione del lavoro basata sulla compressione del salario era l’aspirazione di poter far lavorare tutti secondo le proprie capacità. L’idea dello sviluppo che lungi dall’interpretare una ideologia della crescita basata sulla rapina dei beni del futuro e sulla alienazione dell’umanità era al contrario l’idea che la generazione presente deve farsi carico delle generazioni future, non consumando tutto ciò che viene prodotto ma attraverso l’accumulazione trasferirlo al futuro, innescando un meccanismo solidale nel tempo di crescita. L’idea della competizione nel mercato che lungi dall’essere l’ideologia del successo del più forte era la creazione di uno spazio di libertà in cui il cittadino poteva realizzare le proprie aspirazioni.

La dimensione sociale del fare impresa
Si tratta di cambiare dal di dentro il processo produttivo. Qui c’è un filone di pensiero molto importante che si sta sviluppando a partire dalla dottrina sociale della Chiesa. E questo è il punto fondamentale del messaggio della Caritas in Veritate, quando Benedetto XVI sottolinea che la dottrina sociale della Chiesa “ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o « dopo » di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente” .
E’ il richiamo alla necessità di orientare il pensiero su un nuovo fondamento nella visione dell’attività economica: la centralità di un’etica condivisa basata sul rispetto della pienezza della persona umana come fattore non solo di equilibrio individuale ma come risorsa collettiva per il buon funzionamento del mercato e delle relazioni economiche. E del resto le più moderne tecniche di management richiamano la necessità di recuperare il senso sociale dell’impresa. Così si vede che l’art. 42 della Costituzione sulla dimensione sociale della proprietà non è affatto un reperto del passato ma una straordinaria anticipazione.

Nuovi poteri del consumatore
Un’ultima leva da considerare è quella del consumo intelligente. La pressione del mondo del consumo, oltre al tradizionale sistema di rappresentanza consumeristica, ha oggi con la rete strumenti di mobilitazione cospicui per costruire decisioni solidali in termini di cambiamento degli stili di vita, delle abitudini di consumo, di scelte alternative nelle modalità di acquisto. Ci sono sotto questo profilo fenomeni molto interessanti. Sulla capacità di una maggiore sensibilità del consumatore sui temi della sostenibilità ad orientare anche le grandi catene distributive. Ad esempio la catena Mark & Spencer nella valutazione dei punti vendita pone al centro 5 imperativi da raggiungere entro il 2015: vendita di prodotti carbon neutral, zero rifiuti, materie prime rinnovabili, uso del commercio equo, prodotti salutari. C’è chi teorizza il passaggio dall’economia dell’abbondanza all’economia dell’abbastanza. Si sperimentano forme di consumismo collaborativo: invece dell’acquisto ritornano forme di baratto, affitto, prestito, scambio . La rete, oltre il commercio elettronico professionale, consente di sostenere queste nuove esperienze, che contribuiscono a modellare il sistema di produzione e di distribuzione in senso maggiormente sostenibile, dallo spreco al necessario.

La nostra casa è il mondo
C’è una evidente e pericolosa asimmetria tra la globalizzazione dei processi economici, il protagonismo di entità economiche sovranazionali, l’indebolimento generalizzato delle democrazie statuali e la mancanza di adeguate governance globali.
E’ un importante campo di lavoro per i riformisti. Come ristabilire un legame tra popolo e rappresentanza, ampliando forme di partecipazione e democrazia diretta e come costruire una architettura democratica sovranazionale. . La dilatazione delle potenzialità della tecnologia, degli scambi a livello planetario, di una economia che travalica i confini degli stati e può imporsi ai poteri degli stati richiede la capacità di costruire nuove istituzioni globali. Non solo aprendo ad una maggiore partecipazioni quelle esistenti, tenendo conto delle variazioni della geopolitica, ma rafforzando ed ampliando le istituzioni regionali esistenti. Per questo è decisivo un ulteriore passo in avanti delle istituzioni europee, verso un vero e proprio stato federale a base democratica, capace di essere un fattore di equilibrio nel mondo multipolare.
Bisogna valorizzare fino in fondo la faticosa costruzione europea, l’unico grande esempio di globalizzazione politica in corso. Come ha ricordato Romano Prodi in occasione del decennale dell’euro “per la prima volta un folto gruppo di Paesi abbandonava la propria moneta per abbracciare una valuta comune. Con questa decisione essi rinunciavano a uno dei due fondamenti della sovranità, cioè la moneta, in attesa di condividere con i Paesi fratelli anche l’altro pilastro della Stato moderno, e cioè l’esercito. Una decisione che voltava definitivamente le spalle al passato europeo di guerre e di sangue e che, nello stesso tempo, era in grado di inserire l’Europa tra i grandi protagonisti della politica e dell’economia mondiale. Con la moneta unica l’Unione Europea si candidava a entrare tra i costruttori della globalizzazione ormai in corso e non più arrestabile…Tuttavia i compiti a casa non basteranno mai se non si ritorna alle fondamenta dell’euro, per cui ogni Paese deve fare il suo dovere ma sotto un’autorità europea in grado di stabilire quali siano questi doveri e di farli rispettare… E’ inutile girare attorno al problema. O noi costruiamo gli strumenti comuni ormai noti, e cioè un reale potere della Banca centrale europea e gli euro bond per una comune difesa della moneta, o la crisi continuerà a lungo, perché contrastata da azioni sempre deboli e ritardate.

E il Partito Democratico?
Quale può e deve essere il ruolo del PD in questo nuovo contesto, così esigente e così innovativo?
Del PD c’è bisogno. Ne ha bisogno l’Italia. Possiamo partire da una sicurezza. I materiali culturali su cui è nato il PD, con i quali è possibile dargli più sicure fondamenta sono quelli che escono vincitori dal lungo periodo della dominanza del pensiero unico neoliberista.
I principi della giustizia sociale, del personalismo comunitario, i valori dell’eguaglianza e dell’unica appartenenza alla famiglia umana che hanno segnato la storia delle culture fondative della sinistra e del cattolicesimo democratico, così come la cultura dell’ambientalismo del fare sono materiali appropriati per affrontare le sfide che abbiamo davanti a noi. Sotto questo profilo il Pd ha un serbatoio di idee valide a cui attingere per impostare la propria proposta politica, molto più appropriate di quelle fallimentari che in questi anni ha messo in campo il centrodestra. Bisogna però crederci, mantenere viva questa vocazione originaria costruendo su quei materiali un edificio nuovo. Pensando a quello che osservava Tony Judt in un fortunato saggio sui nuovi doveri della politica: “quello che ci manca è una narrazione morale, una descrizione dotata di coerenza interna che attribuisca alle nostre azioni uno scopo che le trascenda”

Per il nuovo compromesso sociale
In realtà la crisi che stiamo attraversando è molte cose. Anche la fine del grande compromesso tra capitalismo e lavoro che ha dato origine al moderno sistema di welfare che ha garantito per molti anni un rapporto stretto tra democrazia, sviluppo, lavoro, diritti sociali. E’ stato un costruttore di fiducia e di pacificazione sociale . Occorre trovare un nuovo compromesso, diverso da quello conosciuto. Il fallimento contemporaneo dell’idea di un capitalismo senza regole e di uno statalismo senza responsabilità (ancora una volta la Cina può insegnare molto) apre un grande spazio all’iniziativa di un partito politico come il PD.
Occorre perciò conservare l’ambizione di una sintesi di culture diverse, nate nel ‘900 che al ‘900 hanno dato molto, ma che ora devono dare origine ad una nuova fecondità. Senza perciò la tentazione sempre immanente di tornare da dove siamo partiti, per nostalgia, per mancanza di coraggio, per una ostinata idea sulle ragioni del passato. Mantenendo perciò l’ambizione, che il fondamento di ogni visione progressista, di esprimere progetti nuovi per la vita nuova che sta davanti ai cittadini.

Per una democrazia vitale
C’è bisogno di dare una nuova vitalità alla partecipazione democratica. Ai partiti l’opinione pubblica chiede molto, salvo dare pochissima fiducia e poca partecipazione. Ed il rischio è che più alta la fiducia più forte sia la tentazione dell’autosufficienza. I cambiamenti che si devono affrontare richiedono una guida politica. C’è nell’opinione pubblica un sentimento ambivalente, che oscilla tra la pretesa di una libertà individuale senza regole e quella che comunque il pubblico (disprezzato e vilipeso) si sostituisca alla deresponsabilizzazione privata. Hanno scritto Ceruti e Treu: “Da un lato l’importanza delle regole nella politica e nella vita associativa viene sottovalutata: sempre più spesso la libertà è percepita come libertà dalle regole e non come libertà secondo le regole (o secondo nuove regole). Dall’altro lato con un atteggiamento simmetrico e complementare, c’è una crescente tendenza alla deresponsabilizzazione: si auspicherebbe quasi che ogni aspetto della vita individuale e sociale fosse precisamente normato” .
Potremmo chiederci: quanta parte dell’elevato consenso di cui gode tuttora il Governo Monti è legata ad un consenso sulle politiche e ad una fiducia sulla persona e quanto alla totale sfiducia nei confronti della “politica”? Stiamo assistendo ad un altro illusionismo: la sostituzione della tecnica al posto del berlusconiano “sono uno di voi”? Come dice Ilvo Diamanti l’aristocrazia democratica al posto della democrazia populista? Certamente c’è anche questo. E può essere singolare osservare che l’esito di una lunga coltivazione da parte dei mass media del tema dei costi della politica e del rinnovamento ha prodotto un Governo che certamente ha il più alto reddito medio dei suoi componenti (in gran parte prodotto nel perimetro allargato della pubblica amministrazione e del settore finanziario) ed una altrettanto elevata età media, sia in senso anagrafico sia di attività di servizio.
Ciò che rileva tuttavia è che dopo i disastri antropologici del berlusconismo (insieme sollecitatore e ricettore di un’Italia senza etica pubblica) cresce sia pure in modo contraddittorio una domanda per una politica fatta di competenza, di sobrietà, di lungimiranza. Anche sotto questo profilo possiamo dire che il PD è potenzialmente meglio piazzato. Occorre convincersi che anche al nostro interno le qualità per emergere hanno a che fare con le idee, la competenza, la capacità di iniziativa piuttosto che all’improvvisazione mediatica. Non ci servono meteore. Ne abbiamo avute parecchie, create e magari poi abbandonate dai media quando non servivano più nel conflitto tra vecchio e nuovo. Hanno suscitato speranza positive. Ma più che di meteore abbiamo bisogno di comete: riferimenti che indichino la strada, sapendo condurre verso il futuro.

Non avere paura del nuovo
Nel cuore della grande crisi, nel drammatico vuoto di governabilità del mondo, nella distruzione del grande compromesso tra capitale e lavoro che ha accompagnato la rivoluzione del welfare come luogo dei diritti, delle libertà, della democrazia nasce una nuova domanda politica. Non lungo le strade conosciute, non necessariamente indirizzata solo ai partiti. Ne uscirà rafforzata una grande idea di un nuovo compromesso democratico o la deriva populista in termini diversi (la tecnocrazia ed il governo delle élite al posto del leader tribunizio)?
Per l’Italia dipenderà anche dal PD, perno necessario di ogni iniziativa democratica e riformatrice, dalla sua capacità di mettere in campo idee grandi. Animate dalla capacità di guidare il cambiamento.
Mercedes Sosa è sta una grande cantante argentina. Molte canzoni che ha cantato sono state la colonna sonora che ha accompagnato tante lotte dei popoli dell’America Latina per la libertà ed i diritti sociali. Quella più famosa è forse Todo cambia, con i suoi versi: “cambia, todo cambia, cambia lo superfical/cambia tambien lo profundo/cambia el modo de pensar/ cambia todo en este mundo”. Lo diceva qualche secolo prima Thomas More, il Cancelliere dello Scacchiere decapitato per aver difeso la legge invece dell’arbitrio del potere: “Signore dammi un’anima semplice che non si spaventi alla vista del nuovo”.
Se tutto cambia sta al PD contribuire perché il cambiamento avvenga in direzione dell’allargamento della democrazia, dei diritti fondamentali, della giustizia, senza spaventarsi alla vista del nuovo.

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