La grande contrazione

Pubblicato il 28 giugno 2012, da Relazioni

Il Domani d’Italia n. 6 2012

Questo piccolo saggio è stato scritto un mese fa ma penso che il ritardo nella pubblicazione non tolga sostanzialmente attualità alle considerazioni contenute. Alla vigilia del vertice europeo di questo fine settimana di giugno offre una rilettura delle questioni sul tappeto, augurandoci che l’esito del vertice sia più ambizioso di quanto appaia in queste ore

Di fronte alla Grande Contrazione del mondo occidentale non serve molto una divisione un po’ schematica tra “rigoristi” e “sviluppisti”. Magari nella versione estrema: da una parte chi continua a guardare in modo ideologico agli automatismi del mercato (di un mercato senza regole, tra l’altro) e ad un rientro da esposizioni debitorie senza considerarne gli effetti sulla tenuta sociale e politica delle comunità. Dall’altro chi si avventura sulla narrazione rassicurante. Il debito si può fare, tanto basta non pagarlo: e chi mai presterebbe soldi se il richiedente dichiara programmaticamente che non intende assolvere gli impegni presi?

Conviene partire da un’altra angolazione. Perché le ultime tornate elettorali europee hanno dato voce ad un sentimento diffuso nell’opinione pubblica europea. Che l’Europa sia una causa della grave ed inedita crisi economica e sociale piuttosto che lo strumento per risolverla. Mancanza di lavoro, riduzione dei redditi e delle tutele sociali. Se le leadership europee non sanno mettere in campo azioni efficaci per combattere questi mali sociali è evidente il rischio di un arretramento gravissimo con il risorgere di populismi, nazionalismi, degrado delle basi democratiche della convivenza e la Storia è lì ad insegnarci quali possano essere i drammatici esiti. Sarebbe la sconfitta del sogno europeo nato dalla tragedia della guerra e di sanguinarie dittature: promuovere pace, democrazia, diritti attraverso una maggiore integrazione.

L’insegnamento che si deve trarre è che l’austerità fiscale fine a sé stessa non è una soluzione adeguata e sufficiente. Come non lo è immaginare che non ci debbano essere regole di bilancio pubblico per rendere sostenibili le politiche di bilancio.

La sostenibilità del bilancio pubblico (la sua capacità di sostenere una spesa in debito per la capacità di produrre nuova ricchezza) è piuttosto una premessa. Senza la sostenibilità non si possono sostenere politiche pubbliche per lo sviluppo. Sbaglia chi pensa che la modificazione degli equilibri politici europei possa togliere di mezzo il fiscal compact. Potrà renderlo più intelligente e graduale, soprattutto potrà e dovrà essere accompagnato da una accordo sulla crescita, ma la sostanza resterà. Perché dal 2001 nell’Eurozona non è che non si sia usato il bilancio in deficit. La spesa pubblica è aumentata in termini reali del 39,6%. Nell’Europa senza la Germania è cresciuta del 41,5%, 23 punti più della crescita della spesa tedesca. Naturalmente conta anche la diversità dell’inflazione: con più inflazione e meno efficacia nelle prestazione dei servizi pubblici l’incremento della spesa più elevata non si traduce in più servizi. Resta il fatto che la Germania sostiene per un quarto l’onere del Fondo salva stati. Non è solo questione di una visione politica insufficiente, certo diversa dalla lungimiranza dei predecessori della Merkel che hanno fatto della costruzione europea la leva su cui appoggiare la crescita tedesca. E’ questione che è difficile spiegare all’opinione pubblica tedesca questi differenziali.

Difficile parlare di mancanza di uso del bilancio pubblico in senso keynesiano. Il punto è che contravvenendo Keynes è cresciuta la cattiva spesa pubblica a danno di quella buona: più spesa corrente che investimenti, più spesa per il mantenimento degli apparati che spesa per servizi innovativi per un nuovo welfare.

Ma la regola fiscale da sola lascia in campo solo macerie. La regola fiscale ha senso se si accompagna alla regola dello sviluppo e ne è lo strumento. Su questo punto deve esercitarsi un nuovo coraggioso compromesso europeo. Senza politiche per lo sviluppo non cade solo la sostenibilità del bilancio, cade la sostenibilità sociale dell’intero edificio europeo, con esiti drammatici.

Gli strumenti necessari sono stati individuati, anche nella lettera del febbraio scorso di 12 primi ministri dell’eurozona a Van Rompuy e Barroso: project bond, ricapitalizzazione della BEI, rilancio dell’Europa sociale, scomputo delle spese per investimenti strategici, utilizzo almeno parziale degli euro bond, ecc.

Devono essere robusti tutti e tre i pilastri per sostenere la buona Europa: una sostenibilità fiscale condivisa, un progetto per la buona crescita, un grande mercato ben regolato. Su questi tre pilastri tornerà ad essere evidente un positivo dividendo europeo.

Guardando oltre, alla natura sistemica della crisi, ai fallimenti di una cultura ideologica della destra e degli economisti che la hanno ispirata in questi anni.

L’idea di un mondo globalizzato senza regole per una finanza che da ancella dell’economia reale è diventata distruttrice di ricchezza.

Uno spazio globale senza regole e l’infrastruttura tecnologica offerta da internet ha provocato una mutazione finanziaria del capitalismo. Osserva Giulio Tremonti che è nato un nuovo tipo di capitale, un capitale dominante, “la base del superpotere transnazionale del mercato finanziario, ciò che esprime e configura nella sua forma ultima l’odierna dittatura del denaro”. Che poi l’azione dei Governi Berlusconi (e del Ministro dell’Economia che li ha serviti) non sia stata conseguente a questa analisi non toglie vigore alla descrizione.

Alla fine degli anni ’80 i prodotti finanziari derivati erano il 5% del PIL mondiale, oggi c’è un totale rovesciamento del rapporto: la finanza derivata è dieci volte il PIL mondiale. Una realtà che si sottrae ad ogni giurisdizione nazionale o sovranazionale e che con la speculazione di brevissimo periodo può distruggere (ha distrutto) ricchezza reale, lavoro, condizioni di vita. Una tassa globale sulle transazioni finanziarie è stata da tempo proposta e trova l’opposizione del mondo anglosassone: se non questo un altro strumento, ma non si può stare a vedere senza porre un argine a questa deriva.

Quelli che non vogliono l’intervento dello Stato. In realtà vi è stata una enorme socializzazione delle perdite generate dalla esplosione dell’eccesso di finanziarizzazione dell’economia. A fine 2009 gli interventi a carico dei bilanci pubblici sono assommati ad oltre 10.000 miliardi di dollari, una somma pari al 24% del PIL mondiale. Gli interventi sono poi proseguiti assorbendo ulteriori risorse. Con la contraddizione di fondo: bilanci pubblici appesantiti per sostenere la finanza, finanza che chiede un prezzo più alto per finanziare il servizio del debito sovrano in ragione dell’aumentato rischio. Una cifra enorme, sottratta ad altri impieghi: finanziamento dell’innovazione del welfare, infrastrutturazione, politiche per il lavoro, l’educazione, ecc.

Una deriva che rischia di andare fuori controllo. Osserva Raffaele Mauro (Limes n. 2 2012) che sempre di più le decisioni riguardanti le transazioni finanziarie ad alta frequenza non dipendono da decisioni umane ma da uso evoluto di programmi e sistemi automatici per la definizione del prezzo, della quantità e del timing degli ordini. Si afferma il regno del trading algoritmico o algotrading. I programmi sono in grado di gestire decisioni ad un ritmo molto superiore a quello umano. In quattro anni l’uso di queste tecnologie è cresciuto del 164% e nel 2010 l’algotrading avrebbe riguardato il 56% delle transazioni in USA, il 38% in Europa, tra il 10 ed il 30% in Asia.

Un mercato strategico che esce da ogni controllo umano e da una valutazione delle conseguenze sociali e della costruzione della ricchezza di medio lungo periodo.

Davvero la Caritas in veritate ha colto la natura antropologica della crisi e la necessità di costruire una nuova alleanza per una economia più umana. I leader mondiali lo devono mettere con urgenza nell’agenda.

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