Senza scoraggiarsi, un PD con nuove opportunità

Pubblicato il 3 giugno 2012, da Relazioni

Intervento alla Scuola di Formazione Politica dei Giovani Democratici del Veneto “Il nuovo Veneto: reti, nuovi linguaggi, sussidiarietà”, Monselice, 1 giugno 2012

Il ringraziamento è sincero per i giovani democratici veneti: per chi ha investito tempo ed energie nel programmare e realizzare questo appuntamento formativo, per chi ha scelto di investire sulla propria formazione passando insieme questo week end. Ad una iniziativa di partito, nel momento in cui si mette in discussione la capacità dei partiti di essere strumento di partecipazione per i cittadini.
Non credo che sia il momento dello scoraggiamento, piuttosto quello della consapevolezza. Della ricerca del da farsi di fronte ad uno scenario inedito. Certamente segno di una crisi più profonda rispetto a quella che caratterizzò la fine della prima repubblica ed il passaggio ad una presunta seconda repubblica, con protagonisti nuovi.
Crisi più profonda, generata dalla compresenza di tre emergenze, che cambiano aspettative, rapporti di rappresentanza, legami di fiducia.

Dalla crisi alla sfiducia
Prima di tutto una crisi economica, che aggredisce strutturalmente le modalità della produzione, i rapporti economici, le certezze che orientano i comportamenti. Con conseguenze sociali molto gravi: perdita di lavoro, smarrimento di diritti, incertezza di futuro, crescita delle diseguaglianze. Emerge dai sondaggi che fa periodicamente Eurobarometro che l’opinione italiana è quella più pessimista tra tutti i paesi europei, fatta eccezione della Grecia, che si trova in condizioni oggettive molto peggiori delle nostre. Alle condizioni oggettive si aggiunge una scoraggiamento diffuso. Rischiamo di perdere quella che è stata la carta vincente, una forza vitale che ha fatto superare momenti di difficoltà, ovviare a carenze organizzative, bypassare inefficienze del sistema pubblico.

La seconda repubblica delle delusioni
In secondo luogo una perdita di fiducia nei confronti del sistema istituzionale, dei canali di rappresentanza e di lavoro collettivo per la comunità. Se ci pensiamo bene in realtà il ventennio della seconda repubblica è stato un ventennio di delusioni, nei diversi campi politici.
Per noi con la nascita dell’Ulivo e le speranze che lo hanno accompagnato, presto svuotate dalle difficoltà di sostenere i due Governi Prodi (due volte gli italiani ci hanno creduto) per le divisioni della sua base politica, fino alla nascita del PD, che ha faticato a mantenere la sua missione: un partito nuovo (nelle modalità di azione, nei meccanismi di partecipazione, nelle logiche delle alleanze) per tempi nuovi dell’Italia.
Ma ancora più grande la delusione nel campo avverso: la discesa in campo del Cavaliere come superamento del teatrino della politica e costruzione di un sogno di benessere e libertà che ha esaurito la sua forza nell’immobilismo governativo e nel degrado della vita pubblica. Altrettanto per la Lega, il partito alternativo a Roma ladrona, risucchiato nella corruzione e nell’inconcludenza dell’azione di governo.

Antipolitica, altra politica
Infine e di conseguenza un terzo aspetto: il fallimento dei partiti come soggetti capaci di attuare un progetto riformatore fa nascere la domanda di una politica al di fuori dai partiti, parte della quale si incanala verso sentimenti di una greve antipolitica: il rifiuto di uno spazio pubblico, il rifiuto del confronto, il disprezzo per chi la pensa diversamente e di ogni istituzione e di ogni rappresentanza.
Nascono i diversi popoli: il popolo viola, il popolo rosa, il popolo verde, il popolo delle primarie, dal popolo dei fax nella crisi della prima repubblica al popolo dei social forum che vorrebbe prepararne una terza, fino ai popoli delle battaglie puntuali: il popolo dell’acqua, il popolo del no tav, ecc. Ognuno con l’ambizione di essere davvero tutto il popolo, piuttosto che una parte. Di poter rappresentare tutto il popolo, togliendo ogni rispetto, curiosità, attenzione ad altri popoli che la pensano diversamente.

Una società senza intermediazione?
I sociologi e gli scienziati della politica parlano di una “società della disintermediazione”: la ricerca di una partecipazione senza filtri, senza corpi intermedi, utilizzando le nuove opportunità offerte dalla rete. E’ una disintermediazione che non riguarda solo la società politica. Ne è testimone il fatto che altri ambiti vivono una crisi di rappresentanza, dal sindacato, che vede calare il tasso di adesione, alle associazioni di categoria del mondo imprenditoriale, fino alla stessa intermediazione comunicativa, in cui quotidiani e tv sono scavalcate dalla informazione auto costruita sulla rete.
Sotto la superficie delle cose in realtà permangono processi profondi. Non è certo una novità il rifiuto dell’intermediazione. Le dittature che abbiamo conosciuto nel novecento e che sono sopravvissute nel nostro secolo sono state costruite attorno all’idea di un rapporto diretto, senza contrappesi e mediazioni, tra il leader e il popolo. Le piazze oceaniche, convocate con le tecnologie allora disponibile e con una capillare struttura organizzativa e di controllo, diventavano i luoghi dove si manifestava il consenso totalitario. E del resto questo è stato il messaggio fondamentale che ha caratterizzato l’irrompere di Berlusconi nella scena politica italiana: un leader capace di uscire dalle strettoie defatiganti della politica tradizionale, di costruire un rapporto diretto con il popolo: “io sono uno di voi”, anche con i vostri difetti, che difetti non sono, ma legittimi egoismi, di superare di slancio i condizionamenti e le regole istituzionali. Poi abbiamo visto come è finito: nell’incapacità di governare, nella corruzione dell’etica pubblica, nella liquefazione del soggetto politico che aveva costruito attorno ad una leadership proprietaria. L’imperatore dell’antipolitica travolto dal diffondersi di una anti/altra politica.

Dal populismo televisivo a quello cybernetico
Sotto questo profilo Grillo è la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi, lo stesso rapporto diretto tra popolo e leader, in Berlusconi avendo di mira il popolo del teledipendente (che secondo il Cav. avrebbe la cultura media di uno studente di seconda media), in Grillo l’uso raffinato dello strumento del cyberpopulismo, tuttavia con la stessa attitudine all’insulto degli avversari, alla demonizzazione del diverso, al compiacimento dei luoghi comuni generati dalle paure e dalle incertezze. Anch’io sono uno di voi: uso le stesse parolacce, la stessa faziosità, la stessa diffidenza e disprezzo per gli uomini delle istituzioni. Per questo lo stesso successo del Movimento 5 Stelle farà presto emergere la profonda frattura tra questa idea violenta dell’uso della parola, questa idea autoritaria di un unico dominus del movimento (che ammette ed esclude a proprio arbitrio, che è proprietario unico del marchio) e la realtà plurale e partecipata che si organizza sul territorio.

Democrazia senza partiti?
La forma tradizionale della militanza partitica da un lato è attaccata dalla domanda di forme nuove (e questa era stata la lungimirante intuizioni di Veltroni nell’impianto del PD) che si rafforza nell’immobilismo dei partiti tradizionali, dall’altro subisce un attacco evidente dal sistema dei mass media. Oltre i ritardi, gli errori, le deviazioni che legittimano le critiche. C’è però qualcosa di più. La linea assunta dai due maggiori quotidiani “Repubblica “ e “Corriere” fanno intravedere una ambizione politica di pezzi importanti della borghesia italiana, produttiva e finanziaria, che controlla i due quotidiani per immaginare una sorta di repubblica senza i partiti, i cui le èlites sono chiamate alla responsabilità del governo del paese, in una sorta di sospensione democratica. Se i parti non sono stati capaci di riformarsi (vero) allora facciamo a meno dei partiti (conseguenza pericolosa). Se su Repubblica uno degli editorialisti più autorevoli come Curzio Maltese derubrica a fatto marginale ed insufficiente la decisione di un profondo cambiamento del sistema di finanziamento pubblico dei partiti, con il suo dimezzamento immediato, che era esattamente la sfida che aveva posto il quotidiano, quando Pirani sullo stesso foglio definisce Bersani “una personalità adatta a dirigere un supermercato delle coop”, c’è qualcosa di più di una legittima critica. Piuttosto il disegno alquanto irresponsabile in un periodo così difficile di destabilizzare i pochi presidi organizzati di rappresentanza popolare. Verso che cosa? Già una volta la borghesia italiana cadde in errore: pensò che Mussolini fosse un utile e temporaneo strumento per affrontare i disordini postbellici, e poi sappiamo come è andata a finire…

Nel PD, con un po’ più di orgoglio e di spirito innovativo
Da queste difficoltà tuttavia non dobbiamo raccogliere un segno di scoraggiamento, piuttosto ritrovare le motivazioni di quel disegno di profonda innovazione politica che sta alle radici della nascita del PD. Nel ritrovare anche l’orgoglio della militanza partitica, che non ha nulla a che invidiare a forme divere di partecipazione politica. L’orgoglio di vivere in una comunità politica che pensa a come organizzare le risposte necessarie per il perseguimento del bene comune. L’entusiasmo dei neo sindaci grillini è giustificato. Ma non ha nulla di diverso dell’entusiasmo che ci hanno messo candidati e militanti del PD per vincere la sfida, e non c’è nulla di diverso dall’impegno con cui i nostri sindaci raccolgono il mandato popolare.
Dobbiamo piuttosto guardare alle nuove opportunità, non intristirci sulle difficoltà.
Perché alla fine potrebbe dimostrarsi che ciò che serve è proprio il modello che potenzialmente il PD potrebbe esprimere, che avrebbe già espresso se si fosse tenuto sui binari che avevano caratterizzato la sua fondazione. Un partito “leggero”, con una rete di insediamenti territoriali che affianca le nuove potenzialità della rete virtuale e che reciprocamente si potenzia: riferimenti fisici di una comunità di cittadini che si incontra, legge la realtà, la influenza e ne è influenzato e lo strumento potenziatore che è il supporto tecnologico della rete. Un modello di partito più orizzontale e aperto alla partecipazione di quello tradizionale, che del resto il PD ha sperimentato in profondità con le primarie.

Un nuovo patto anche per l’Italia
Lo possiamo fare. Bisogna lavorarci con convinzione. Sapendo poi che il Partito-strumento è solo il mezzo che serve a dare forza e gambe al progetto per il paese: proporre in modo convincente una idea per il futuro, che serva a prendere per mano un paese smarrito, a farlo sentire rappresentato nelle sue incertezze e nelle sue fatiche, a dargli una ragionevole rassicurazione di essere guidato da chi lo sa fare.
Dentro la grande crisi abbiamo spesso parlato del drammatico precedente della depressione del 1929, in cui gli Stati Uniti sprofondarono in un periodo di miseria e drammi sociali, da cui uscirono con il grande disegno riformatore di Roosevelt. Sono quest’anno ottant’anni dal famoso discorso del New deal, il nuovo patto, tenuto di fronte alla convenzione democratica nel 1932: una convenzione molto combattuta, da cui uscì vincente Roosevelt. Anche allora si discusse tra radicali, che avrebbero voluto cogliere l’occasione del sommovimento sociale per portare la politica a scelte estreme e la reazione dei ceti conservatori che avrebbero voluto politiche appunto reazionarie per combattere il malessere sociale. Roosevelt rifiuta queste due estreme, e sceglie la strada di un robusto intervento riformatore, di cui sente tutta la responsabilità morale: “Fallire nell’offrire ai milioni di persone che hanno sofferto tanto una nuova possibilità equivarrebbe non solo a tradire le loro speranze ma a fraintendere la loro pazienza. Affrontare con la reazione questo pericolo del radicalismo significa invitare la disastro. La reazione non è una barriera ai radicali. E’ una sfida, una provocazione. La via per affrontare quel pericolo sta nell’offrire un programma possibile di ricostruzione”.
Parole che possiamo tenere ben presenti di fronte alle responsabilità del momento.

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1 commento

  1. Francesca Nicastro
    3 giugno 2012

    c’è un problema di tempi. una parte del paese, l’impresa, è costretto a innovare, cambiare, correre veloce per poter rimanere concorrenziale. e un’altra parte, le organizzazioni della rappresentanza sociale e il ceto politico, non sente la stessa spinta competitiva e nemmeno la responsabilità di essere competitiva. questo sfasamento crea naturale incomprensione, tra due sfere ormai distanti, l’una necessariamente proiettata sul mondo esterno, l’altra molto autoreferenziale, innamorata dei suoi riti. la classe dirigente divenuta dominante, per usare una categoria gramsciana, risulta incapace di autoriformarsi, cioè di colmare quel gap di competitività con il paese “produttivo”. leggendo la storia, mi pare che le classi dominanti del nostro paese non siano mai state capaci di autoriformarsi. con le conseguenze, spesso drammatiche, che sappiamo…


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