Crescita, lavoro, capitale umano

Pubblicato il 13 ottobre 2012, da Relazioni

43esima edizione delle Giornate Internazionali di studio del centro Pio Manzù, Rimini 12 ottobre 2012

Intervento alla tavola rotonda con Hanifa Mezoul (ONU), Roger Abravanel (consulente e saggista), Matteo Iannaccone (giovane ricercatore, da Harvard al San Raffaele), Giovanni Masini (giovane imprenditore, tra Italia e Polonia), Maria Ludovica Giovanardi (ItaliaCamp)

Il problema dei problemi dell’Italia è la bassa crescita. Ce lo dicono in modo convincente i libri di uno dei nostri interlocutori, Roger Abravanel: “Italia, cresci o esci” ed il libro di un giovane economista Tommaso Nannicini “Non ci resta che crescere”.

La bassa crescita italiana non ha la sua causa nel grave peggioramento dell’andamento economico nel mondo occidentale a partire dal manifestarsi delle grandi crisi finanziarie. Ovviamente la crisi ha aggravato il problema, ma esso ha radici più antiche. Dal 1994 al 2008 la crescita cumulata italiana è stata del 19%, mentre paesi nostri diretti competitori si sono collocati su un range di crescita tra il 30 ed il 40%. In media tra il 1995 ed il 2007 siamo cresciuti un punto all’anno, rispetto a due punti dell’area UE. Negli anni della grande crisi la perdita di ricchezza è stata maggiore e più lenta è la ripresa.

Perché la buona crescita

Minore crescita e peggioramento relativo dei redditi degli italiani. Nel 1990 il PIL pro capite italiano era pari al 76% del PIL statunitense, oggi è calato al 64%.

Nella minore crescita un aumento delle diseguaglianze: nell’ultimo ventennio il tasso di crescita medio del reddito reale delle famiglie italiane è stato dello 0,2% per il decile delle famiglie più povere e dell’1,1% del decile delle famiglie più ricche. Sempre l’ultimo decile, il 10% più ricco possiede il 42% della ricchezza patrimoniale ed il 28% dei redditi.

Non si tratta di essere prigionieri del mito della crescita. Anzi c’è chi parla di “decrescita felice”. Crescita sostenibile, certo, sostenibile dal punto di vista sociale e da quello ambientale. Ma crescita per tre buone ragioni.

Crescere per rendere sostenibile il debito pubblico, questo macigno che condiziona le nostre politiche. Si può agevolmente sostenere se la velocità con cui cresce l’economia è superiore a quella con cui cresce il debito, se no il destino è segnato: o il fallimento, o l’eliminazione del sistema del welfare che pure è un fattore potente di buona crescita.

Crescere per attenuare le diseguaglianze. Solo una società dinamica può mettere in moto con più rapidità il processo di eguaglianza basata su opportunità e buona distribuzione del reddito prodotto.

C’è anche un aspetto psicologico fondamentale. Una società dinamica è una società più aperta e ottimista. Le prospettive di migliorare aumentano la propensione al consumo ed all’investimento. Una società ferma è una società che si incattivisce, che diventa più triste, alimenta paure e perciò si trincera nella difesa degli interessi particolari e nella conservazione. E perciò diventa prigioniera di una trappola: conservare ciò che c’è e perciò incapace dell’innovazione necessaria a risolvere i problemi.

Il sociologo italiano Mauro Magatti nel suo saggio “La grande contrazione” ha descritto le società occidentali come società indebitate, impoverite, invecchiate e depresse, e sono elementi da correggere.

Poca crescita perché c’è poca produttività

C’è un indicatore sintetico che contribuisce a spiegare le ragioni della bassa crescita, che è diventata negli ultimi anni contrazione. E’ l’indice della produttività totale dei fattori in sostanza una misurazione della capacità dell’economia di sviluppare efficienza ed innovazione nel sistema, come basi strutturali della capacità di crescita. Se prendiamo lo stesso arco di tempo 94-2008 dobbiamo constatare che l’Italia non si è mossa: fatto 100 il dato del 1994 a fine periodo l’indicatore sta a 98, mentre Germania, Francia, USA, Regno Unito hanno avuto un incremento tra 15 e 20 punti.

Questo differenziale spiega la difficoltà a crescere da parte del nostro paese e su questo differenziale occorre agire. Le componenti sono molteplici: dalla qualità del sistema d’istruzione alla struttura del sistema imprenditoriale, alla dotazione infrastrutturale, così come influiscono il livello di concorrenza ed aperture dei mercati, l’efficienza della macchina amministrativa e gli oneri conseguenti e così via.

Il lavoro ha dato molto

Tra queste componenti assume un ruolo fondamentale il buon funzionamento del mercato del lavoro, tenendo anche conto di una caratteristica negativa del sistema italiano che potremmo così riassumere: bassa produttività/bassi salari.

In effetti possiamo constatare che il sistema produttivo italiano ha cercato di sfruttare nella competizione internazionale in successione due elementi. Finchè è stato possibile, l’adozione della svalutazione competitiva che ha successivamente sostenuta la capacità di penetrazione nei mercati esteri dei prodotti italiani. Cessata dai primi anni’90 la possibilità dell’uso di questa leva il sistema produttivo ha utilizzato pienamente i margini offerti dalla nuova legislazione del lavoro (riforma Treu 1997 e legge Biagi 2003) con effetti positivi anche dal punti di vista di crescita della domanda di lavoro, tuttavia valorizzando più della flessibilità a sostegno delle fasi del ciclo produttivo la possibilità di utilizzare manodopera ad un costo inferiore: il forte differenziale dei costi specie contributivi ha portato ad un abuso dei contratti flessibili indipendentemente dalle esigenze del ciclo produttivo. I dati Eurostat mettono in luce che sempre nel periodo 1994 – 2008 per l’Italia il contributo dell’occupazione alla crescita del PIL è stato pari al 90% a fronte di un modesto 10% dovuto all’incremento della produttività, mentre per i paesi più dinamici le percentuali sono rovesciate, con il peso dell’aumento della produttività che si colloca tra il 50 ed il 60%. Riassumendo: bassa produttività (il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto in Italia nell’ultimo decennio del 40% a fronte del 15% della Francia e dell’8% della Germania) e salari fermi (nel settore privato i salari netti sono inferiori mediamente del 10% rispetto a quelli tedeschi e del 25% rispetto a quelli francesi).

La riforma del lavoro: passi in avanti per i giovani

Questo quadro ci suggerisce che una buona regolamentazione del mercato del lavoro è solo una parte della questione del rapporto tra lavoro e crescita e tuttavia è un’area importante di intervento.

Un’area su cui il governo ha operato con la presentazione della proposta di riforma del mercato del lavoro, poi approvata dal parlamento con modifiche di un certo rilievo, mantenendo tuttavia l’impianto sostanziale.

Il tema fondamentale da affrontare nella situazione italiana dal punto di vista della regolamentazione è quella situazione di apartheid così bene descritta dal mio amico e collega prof. Pietro Ichino. In sostanza 9 milioni di dipendenti a tempo indeterminato prevalentemente nelle aziende medio grandi e nel pubblico impiego con una protezione elevata e 12 milioni di dipendenti di piccole imprese, con varie forme di lavoro precario o di lavoro di fatto dipendente mascherato come partite IVA con pochi o nessun diritto. Una apartheid che sta dentro i confini della stessa azienda, dove dipendenti addetti alla stessa mansione godono di trattamenti economici, benefit e tutele profondamente differenziate.

C’è un problema di eguaglianza violata ma c’è anche un problema che riguarda la produttività: utilizzo eccessivo di forme contrattuali che includono scarso investimento sulla formazione, poco riconoscimento del merito, ostacoli alla crescita della dimensione aziendale, sia con la barriera dei 15 dipendenti sia con l’incentivo all’outsorcing verso strutture aziendali meno regolamentate.

La recente riforma del lavoro fa degli importanti passi in avanti su tre aree principali: flessibilità in entrata, riassetto dei licenziamenti, riforma parziale degli ammortizzatori sociali. Naturalmente bisogna considerare il noto paradosso.

Quando le cose vanno bene non c’è pressione sufficiente per realizzare riforme che incidono su comportamenti consolidati, quando le cose vanno male aumenta la paura verso il cambiamento, e diminuisce l’autorevolezza dei decisori politici e delle rappresentanze sociali. E’ più facile affrontare la riforma del mercato del lavoro quando abbondano ai cancelli delle fabbriche i cartelli “cercansi” e anche quando ci sono aperture coraggiose in altri settori chiusi della società: mercati protetti, situazioni di rendita, scarsa concorrenza, ecc.

Circa l’entrata la riforma interviene su tutte le forme contrattuali flessibili con l’introduzione di criteri più stringenti per distinguere le prestazioni autonome vere dalle forme di subordinazione di fatto, con una presunzione di prestazioni di collaborazione coordinata e continuativa in presenza di indicatori sensibili, si prevede un disincentivo economico all’uso del contratto a termine attraverso un aumento del costo contributivo, peraltro interamente recuperabile in caso di stabilizzazione, si prevede un compenso minimo per il lavoro a progetto.

Sulla flessibilità in uscita agisce la modifica dell’art. 18 limitando l’obbligo al reintegro nei casi in cui è in gioco una lesione di diritti assoluti rimettendo negli altri casi la valutazione del giudice se applicare il reintegro od un risarcimento.

Infine si agisce sul sistema degli ammortizzatori sociali con l’avvio di un istituto sostitutivo a regime delle attuali forme di tutela per la disoccupazione denominato Associazione sociale per l’impiego.

I compiti per la prossima legislatura

Sono passi in avanti importanti anche se restano dei nodi ancora irrisolti. Perché il nuovo sistema degli ammortizzatori sociali possa andare a regime occorre reperire risorse adeguate perché l’intervento possa estendersi a tutta la platea attualmente non garantita senza compromettere un livello adeguato per i già tutelati. Egualmente la mancanza di risorse potrebbe limitare l’azione di disincentivo all’utilizzo del precariato, che potrebbe essere ben più efficacie se all’aggravio degli oneri contributivi potesse affiancarsi una riduzione del cuneo fiscale per il lavoro a tempo indeterminato.

Quale potrebbe essere l’obiettivo ulteriore da raggiungere ormai nella prossima legislatura? Mi richiamo ai quattro punti programmatici suggeriti dal prof. Ichino.

Semplificazione del diritto del lavoro. Tutta la disciplina legislativa in materia di lavoro riunita in un Codice del lavoro semplificato composta da una settantina di articoli leggibili senza dubbi interpretativi e traducibili in inglese, perché uno degli ostacoli agli investimenti esteri in Italia è dato anche dalle incertezza normativa e dalla sua difficile comprensione, Esiste già un disegno di legge in questo senso depositato al Senato.

Un orientamento più deciso verso un modello integrale di flexsecurity. Iniziando da nuove imprese e nuove assunzioni tutti assunti a tempo indeterminato (tranne casi specifici di contratti a termine), a tutti una protezione forte dei diritti fondamentali in particolare contro le discriminazioni, nessuno inamovibile ma con robusto sostegni per chi perde il posto per motivi economici ed organizzativi con efficaci sistemi di outplacement, basata anche sul vantaggio economico per l’azienda al ricollocamento del lavoratore licenziato.

Un migliore sfruttamento di giacimenti occupazionali non adeguatamente sfruttati. A fronte di una disoccupazione elevata permangono permanentemente scoperti posti di lavoro nel settore in particolare dell’artigianato e dei servizi per mancanza di idonea qualificazione, pur trattandosi di posti di lavoro in grado di offrire soddisfazione economica e motivazionale. Il Rapporto Excelsior Unioncamere parla di 117.000 scoperture nel 2011, ma probabilmente il numero è molto maggiore

Il tema dell’emigrazione intellettuale è solo in parte legata alla questione specifica della normativa del lavoro, il tema che mi è stato assegnato. Tuttavia non sarebbe completa una riflessione se non si considerasse il bilancio della emigrazione/immigrazione intellettuale. Che riguarda fenomeni diversi: giovani cervelli e ricercatori, giovani desiderosi di avviare imprese ad alto contenuto di conoscenza e tecnologia, imprenditori affermati che cercano migliori opportunità all’estero: una delocalizzazione non alla ricerca di condizioni più compiacenti in materia di costo e tutela del lavoro, e dell’ambiente ma realizzazioni di nuove imprese a servizio di nuovi mercati e di sistema paese che si ritengono più accoglienti.

Emigrazione intellettuale? C’è anche quella buona

Ora la circolazione intellettuale e dei saperi in un mondo globalizzato è un bene: le eccellenze si aggregano nei punti di eccellenza. Il punto è non essere solo esportatori netti ma avere risorse ed eccellenze per attrarre intelligenze, in una circuitazione virtuosa. Sia perché l’italiano che va all’estero può essere messo nelle condizioni di tornare e comunque di mantenere rapporti con il mondo della ricerca e della produzione italiani, sia perché il ricercatore estero che rientra nel proprio paese dopo una attività italiana diventa nel suo paese ambasciatore delle potenzialità italiane.

Gli ultimi dati disponibili ci dicono che il 22% degli italiani tra i 25 e 39 anni che emigrano sono laureati, mentre gli immigrati sono solo l’8% ad avere una laurea e tuttavia il saldo in valore assoluto è positivo: entrano 5.000 laureati in più di quanti escono, anche se naturalmente bisognerebbe verificare il contenuto formativo delle lauree non riconosciute.

Capitale umano al centro (ma non è così)

Il tema è molto ampio, limitiamoci a considerare alcuni aspetti.

Il primo riguarda la struttura formativa e quindi l’efficacia dell’investimento sul capitale umano. I dati sono preoccupanti. Mi limito a questo In Italia i cittadini tra i 25 e i 64 anni laureati sono il 15%, rispetto ad una media dei paesi OCSE del 30%. Il dato migliora guardando una coorte più giovane, i cittadini tra i 24 e i 34 anni: in questo caso i laureati sono il 20%, ma il dato OCSE sale al 37%. Chi insegna è mediamente in una età parecchio elevata. Gli insegnanti di scuola superiore con meno di 40 anni sono solo il 9%, rispetto al 25% della Germania, il 34% della Francia ed il 39% del Regno Unito. E’ sconfortante anche il dato dell’Università: i docenti con meno di 40 anni sono solo il 16%, rispetto al 30% della Francia. Al 39% del Regno Unito e al 47% della Germania. Cioè si diventa docenti universitari in una età in cui la maggiore fertilità scientifica rischia di essere già alle spalle.

Del resto chiediamoci qual’è l’iter perchè un giovane ricercatore raggiunga un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con un’istituzione accademica. Mediamente:

–           3 anni di dottorato

–           3 anni di collaborazione di ricerca (assegno di ricerca)

–           3 anni primo triennio ricercatore

–           3 anni secondo triennio ricercatore

In totale vi sono dunque 10-12 anni prima di garantire un contratto a tempo indeterminato. L’idea della tenure track introdotta nell’ordinamento è sicuramente valida, ma costituisce per i nostri giovani un ostacolo elevato, senza alcun tipo di premialita’. Mentre negli alti Paesi infatti questo lungo iter di precarietà è premiato da un trattamento economico che costituisce di fatto un premio al rischio, in Italia la remunerazione di dottorandi, assegnisti e ricercatori in tenure track è tra le più basse d’Europa e non costituisce certo un incentivo ad intraprendere la carriera accademica.

Vi è poi il tema della frammentazione degli istituti di ricerca e della mancanza di idonee procedure di valutazione che assicuri una collocazione ottimale dei fondi disponibili. Finalmente è in via di ultimazione il processo di valutazione effettuato dall’ANVUR e si potranno utilizzare i risultati per un miglioramento dell’efficacia dei finanziamenti. Un primo segnale è contenuto nel decreto estivo sulla valutazione della spesa, perché i tagli nel caso degli enti di ricerca saranno legati agli indici di produttività che la valutazione evidenzierà.

Qualcosa si muove

Mi concentro su due aspetti per i quali l’Italia ha delle carte da giocare. C‘è in Italia una maggiore propensione ad una cultura dell’imprenditorialità, la numerosità di microimprese a livelli sconosciuti in altri paesi europei può costituire una fragilità nel mercato globale ma anche una opportunità. C’è un vivaio di cultura imprenditoriale che può essere meglio sfruttato. In proposito si possono riprendere gli indirizzi dell’Agenda di Oslo sulla formazione imprenditoriale che indica un insieme di azioni che i governi nazionali e locali possono mettere in essere per stimolare una cultura innovativa dell’imprenditorialità, a partire dalle formazione scolastica, diffondendo competenze imprenditoriali in termini di creatività, leadership, valutazione del rischio, team building, ecc.

Uno strumento promettente può essere il progetto “Restart Italia” promosso dal Ministro Passera con l’obiettivo di rendere l’Italia un paese più ospitale per nuove imprese innovative. Il progetto prevede una serie di misure di facilitazione per le diverse fasi di vita in particolare delle start up: semplificazioni e riduzioni degli oneri amministrativi, agevolazioni fiscali per le start up e per chi investe nelle start up, sostegno al capitale di rischio con fondi dedicati, detassazione degli investimenti provati e agevolazioni per la raccolta di investimenti diffusi, semplificazioni e agevolazioni per il riacquisto delle quote, l’acquisizione industriale delle start up, procedure di liquidazioni agevolate, ecc. Inoltre una parte degli obiettivi della richiamata agenda di Oslo trovano nel progetto un riscontro, con la previsione di programmi ed iniziative volte a favorire la diffusione di una cultura dell’innovazione e dell’imprenditorialità nelle scuole italiane, anche attraverso la costituzione di contimination lab per promuovere la formazione, il mentoring, la contaminazione tra discipline diverse e la nascita di idee di business innovativo.

Perché il passato non afferri il futuro

Ciò che va fatto, un grande ciclo riformatore, richiede una visione lunga. E quindi la capacità di un dialogo con il paese con parole di verità. Ognuno deve fare la propria parte. La dose di cambiamento che è stata introdotta sul mercato del lavoro ed in materia pensionistica non ha paragoni con ciò che è stato fatto in altri campi in modo molto più timido. Pensiamo alla liberalizzazione di mercati protetti.

Occorre evitare che il passato che afferri il presente e condizioni negativamente il futuro. Non è popolare (nell’immediato) riformare le pensioni cambiando le aspettative per milioni di cittadini o intervenire nel ridurre la spesa pubblica e quindi modificando in peggio le condizioni di chi è beneficiato dalla spesa, in particolare da quella cattiva. Ma questi sono due casi tipici in cui il passato afferra il presente. Il costo annuo per erogare le pensioni a cittadini con meno di 65 anni è di 80 md (addirittura 7 md per pagare le pensioni a persone andate in pensione con meno di 50 anni). Il sostegno del debito pubblico  incide annualmente sul bilancio dello stato per 80 md. Sono risorse di cui le generazioni passate si sono appropriate a danno delle generazioni future, perché è un debito fatto pressochè totalmente per finanziare spesa corrente.

Invece dobbiamo liberare energie per il futuro. Come ci ricordava il Ministro Padoa Schioppa la “veduta corta” è un grande difetto per i gruppi dirigenti.

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