Federalismo all’italiana

Pubblicato il 15 settembre 2013, da Relazioni e interventi

Luca Antonini, Federalismo all’italiana, Marsilio 2013

Pensando alla vicenda del federalismo si avverta anche in questo caso un certo infantilismo del Paese (che è della politica, della informazione, dei gruppi dirigenti in cui però si adagia una larga opinione pubblica). C’è stato un periodo in cui si mangiava esclusivamente pane e federalismo. Di qualsiasi cosa si parlasse lì si andava a parare. Il federalismo, parola in sé dai molti ed imprecisi significati, era la ricetta per ogni cosa. Con un forte impianto comunicativo ed ideologico da parte della Lega. Potremmo applicare al federalismo ciò che il grande Indro Montanelli scriveva negli anni ’50 della passione per il ciclismo degli italiani: “tutto ciò che la massa fa in Italia lo fa attraverso la bicicletta: le adunate, le guerre, l’amore, i delitti, perfino la marcia su Roma. Non toccate la bicicletta agli italiani, perché è in bicicletta che da noi tutto va, anche le idee”. Un’altra Italia naturalmente, ma il paragone mi sembra azzeccato.

Ora il tema è scomparso dal radar della politica e dell’informazione. Grazie anche al fatto che in questi anni si è fatta molta retorica del federalismo ma molta pratica di centralismo, anche (e soprattutto) con la Lega al governo.

E questo è un grave errore, per le ragioni che il libro di Antonini spiega molto bene. Perché il “federalismo” resta un passaggio necessario per risolvere il grande problema della spesa pubblica. Che a differenza di quanto si dice e si scrive anche ai massimi livelli dell’informazione giornalistica non è affatto superiore alla media dei paesi europei e dei paesi che organizzano un serio sistema di welfare. Specie se la depuriamo dalla spesa per il servizio del debito: che nei paesi nostri competitori è dalla metà a due terzi di quello che spendiamo noi e non è esattamente una politica sociale fare debito per poi prelevare i soldi dai cittadini non per restituirli in termini di servizi ma per darli ai grandi gruppi finanziari.antonini

Il problema della spesa in Italia ha due storture: che è mal distribuita e che è scarsamente efficiente: a parità di prelievo con altri paesi restituiamo troppo poco in termini di quantità e qualità di servizi e copriamo in modo squilibrato i bisogni delle famiglie: ad esempio molto per le pensioni, poco per le politiche familiari e per i giovani.

Poi c’è un ritratto semplicistico della spesa: sembra che tutto sia dovuto alla incompetenza dei politici. Basterebbe mettere persone competenti e tutto sarebbe risolto. Se così fosse il governo dei tecnici avrebbe fatto tutto…La realtà è che dietro la spesa si sostanziano interessi corposi e diffusi: si spende troppo certo anche perché mancano nel settore pubblico sufficienti competenze manageriali ma anche perché è difficile intaccare interessi diffusi, talvolta rispettabili, talvolta corporativi, talvolta previlegi.

Antonini fa alcuni esempi di queste storture della spesa. La spesa per i forestali: in Sicilia si spendono 1455 euro per ettaro di foresta, in Calabria 597, in Campania 410 rispetto ai 65 euro del Veneto. Cosicché tre regioni che hanno solo il 15% della superfice forestale italiana spendono il 75% della spesa complessiva. Cosa ci sta dietro questi dati? Molte cose probabilmente: l’uso del posto pubblico come ammortizzatore sociale, l’incapacità gestionale, probabilmente corruzioni e intermediazioni malavitose. Dati non dissimili sono ad esempio quelli della spesa farmaceutica. Sono solo tre o quattro regioni che assommano quasi il totale del deficit di spesa, senza che vi siano motivi oggettivi che lo giustifichino: ancora una volta incapacità gestionali, mancanza di strumenti moderni di controllo, complicità truffaldine, ecc.

Oppure pensiamo alla “rivolta” per la chiusura dei piccoli tribunali. Eppure tutte le ricerche dimostrano che tribunali troppo piccoli non possono gestire in modo efficiente i processi, che c’è un enorme spreco di risorse umane e gestionali e che è un passaggi necessario per la malandata giustizia. Eppure proteste che evidenziano tanti interessi che prosperano nel cattivo funzionamento: da magistrati, ad avvocati fin agli interessi minuti che sempre vengono toccati quando cambiano le cose: un piccolo esercente un bar piuttosto che una cartoleria viene profondamente toccato dalla chiusura di un tribunale.

Per questo serve la politica: valutare gli interessi in gioco, metterli in fila, scegliere, spiegare al paese. Solo che anche la politica per far questo ha bisogno di strumenti che gli facciano conoscere la realtà non in modo superficiale o per sentito dire, ragionando col nasometro piuttosto che con la razionalità che deriva dalla conoscenza.

C’è bisogno di due pilastri, di due grandi R da mettere in campo: la Revisione e la Responsabilità. La capacità di mettere sotto controllo l’intera spesa pubblica, capitolo per capitolo, ai diversi livelli istituzionali, non dando nulla per scontato. La cosiddetta spending review che deve essere applicata con continuità nel tempo perché solo adottandola come criterio permanente si possono ottenere risultati. Solo che la revisione della spesa richiede una strumentazione tecnica che va messa in campo: conoscenza e confrontabilità dei dati, trasparenza dei processi, ecc.

Responsabilità: ricostruire il legame necessario tra i centri decisionali di spesa ed i centri di raccolta fiscale, restaurando il principio del “pago, vedo, voto”: il cittadino in grado di valutare la corrispondenza tra prelievo e servizi ricevuti, una chiara individuazione di responsabilità per chi decide sull’utilizzo delle risorse.

Il libro di Antonini spiega bene tutto questo. Con l’itinerario interessante di chi docente dell’Università di Padova in diritto costituzionale tributario si trova a passare dall’accademia e dalla ricerca alla dura realtà come consulente di diversi governi, diventando la figura centrale per il progetto federalista che ha attraversato la politica in questi anni.

Quindi come dice il sottotitolo “dietro le quinte della grande incompiuta”.

Antonini fa molti esempi dell’albero storto che andrebbe raddrizzato: gli errori delle riforme del titolo V fatte in modo non condiviso, la mancanza di un senato di rappresentanza degli interessi regionali che rende inefficiente il processo legislativo e moltiplica in modo esponenziale i conflitti tra stato e regioni di fronte alla Corte Costituzionale.

Errori anche sui processi positivi che vi sono pure stati per avviare un assetto federalistico. Ad esempio quello che l’autore chiama il federalismo delle complicazioni: con un differenziazione delle regolazioni locali delle attività economiche che ha ulteriormente aggravato il fardello burocratico delle imprese, la moltiplicazione di “pianifici” con l’esondazione di decine e decini di “piani” che poi le amministrazioni non sono in grado di gestire e valutare, una differenziazione dei principi contabili delle singole regioni, che poi rende estremamente complicato la necessaria opera di confronto e valutazione, ecc.

Il ritorno ad un nuovo centralismo indotto dalla grande crisi della finanza pubblica. Antonini parla di una dittature dello spread che ha portato gli Stati a stringere il controllo della spesa a livello centrale, esautorando autonomie consolidate e caricando sui livelli locali un costo più elevato di quello centrale per il risanamento della finanza pubblica. E d’altra parte con la presenza a livello locale, specie in alcuni grandi comuni, di inaccettabili livelli di spreco ed incapacità gestionale.

Un centralismo inefficiente che resiste ad ogni spirito riformista, facilitato anche dalla debolezza e instabilità politica che rafforza il ruolo delle burocrazie. Ad esempio quando si impostò il federalismo demaniale (idea giustissima: trasferire un patrimonio mal gestito ed inutilizzato a livello centrale alle autonomie locali, meglio in grado di gestirlo, valorizzarlo, creare le condizioni migliori per l’alienazione di ciò che non serve) le resistenze furono fortissime. Ad esempio l’Amministrazione dei Beni Culturali giustificò la resistenza affermano che non possedevano un elenco dei beni in proprietà! Si tocca qui un aspetto su cui anche il PD deve riflettere. Non è la conservazione delle storture che difende la buona conservazione dei beni culturali, In  questi anni sono stati sempre presenti appelli firmati da grandi difensori dei beni culturali per impedire ogni ipotesi di alienazione ragionevole o di buona collaborazione pubblico/privato. Ma si pensa davvero di difendere i beni culturali tollerando l’arbitrio totale di organi che dovrebbero essere preposti alla tutela che non amministrano con cura il patrimonio affidato e pretendono di averne l’esclusivo dominio senza dimostrare rigore e passione?

Antonini nel suo libro sottolinea i punti fondamentali di un buon federalismo. Sono tutti condivisibili e sono anche le linee che abbiamo sostenuto in questi anni come PD.

Intanto una scelta netta tra i due modelli di federalismo, quello competitivo di stampo statunitense e quello solidale. In un paese dalle forti differenziazioni come l’Italia se si vuole fare un federalismo bisogna che sia solidale, basato su una compartecipazione ai grandi tributi erariali, un sistema di pochi e ben delineati tributi propri delle autonomie e un a razionale perequazione che premi i bisogni essenziali e non gli sprechi.

Poi la centralità del metodo dell’individuazione dei costi e fabbisogni standard, su cui il lavoro del tavolo tecnico è andato molto avanti e finalmente sono disponibili dati che consentano una comparazione delle efficienze. Si deve sapere quanto costa con una buona gestione produrre un servizio e quanto può servire per fornire i diritti fondamentali garantiti dai principi costituzionale. Poi che vuole mantenere pletoriche strutture di costi per motivi suoi o vuole offrire una base di servizi più ampia deve provvedere in proprio, senza pretendere la solidarietà degli altri.

Infine Antonini sottolinea un aspetto del tutto condivisibile: le crescenti diseguaglianze sono una grave patologia sociale. Non solo mettono i discussione i grandi principi costituzionali ma azzoppano l’economia, con forte calo di quel motore dello sviluppo che è il volume della domanda interna. Antonini mette in luce le torture dell’IMU e fa una proposta molto importante che il PD deve riprendere. Istituire una razionale imposta patrimoniale, dimostrando Antonini, dati alla mano, che una ragionevole imposta sui maggiori patrimoni potrebbe dare un gettito aggiuntivo di 5 miliardi di euro, colpendo meno di 80.000 persone. Gettito che potrebbe essere destinato ad esempio ad abbattere del 50% l’IMU sugli immobili strumentali d’impresa, con un grande vantaggio per la competitività.

Nel nostro campo magari si è guardato con un certo sospetto al prof. Antonini, vedendolo come collaboratore diretto di Tremonti e Calderoli. A parte che la collaborazione è continuata con i governi Monti e Letta sono proprio le tesi del libro che dimostrano invece una piena convergenza con una idea di federalismo che certamente possiamo e dobbiamo condividere.

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