Identità e istituzioni nel Veneto contemporaneo

Pubblicato il 23 gennaio 2015, da Relazioni e interventi

Filiberto Agostini (a cura), Identità e istituzioni nel Veneto contemporaneo, Cleup 2014

Le elezioni regionali sono alle porte. Il nostro candidato è in campo, tra poco ci saranno anche i candidati al Consiglio regionale. Una occasione importante per riflettere sul Veneto. Ci saranno anche le proposte programmatiche del PD, ma  intanto per chi ha voglia e tempo suggerisco la lettura del libro curato dal prof. Filiberto Agostini da poco in libreria. Ci sono saggi tra gli altri di Francesco Jori, Enzo Pace, Silvia Fattore, Toni Grossi oltre allo stesso Filiberto Agostini. Con diverse chiavi di lettura sulla realtà veneta. Riporto qui di seguito anche il mio saggio contenuto nel volume. Nulla di immediatamente utile per la campagna elettorale, ma un po’ di storia recente da avere presente.

Territorio, istituzioni, identità

Affronto il tema così decisivo del rapporto identità/istituzioni da una angolazione particolare. Quella sostanzialmente di un testimone, che dentro le istituzioni ha compiuto un lungo viaggio, con due capisaldi: l’esperienza di Sindaco di una media città (Padova, dal 1987 al 1993) e quella di senatore (dal 1996 al 2013, con una parentesi come sottosegretario allo Sviluppo Economico nel Governo Prodi 2).

Un quarto di secolo in cui molte cose sono cambiate. In profondità. Sia negli elementi costitutivi della identità di un territorio (struttura della popolazione, sistema dei valori, capitale sociale, insediamenti, lavoro) sia nella struttura delle istituzioni e della rappresentanza politica. Ho iniziato ad assumere responsabilità istituzionali quando la rappresentanza si articolava pressochè interamente nei partiti che avevano costruito la democrazia repubblicana e la Lega era il più nuovo dei partiti ed ho terminato quando la Lega era il più vecchio dei partiti presenti in Parlamento.identità

Cambiamenti intensi, veloci e profondi. Molta parte della lontananza tra cittadino ed istituzioni è dovuta a mio avviso alle due diverse velocità. Una società che è cambiata velocemente e profondamente, con cambiamenti entrati direttamente nella vita familiare, nelle aspettative, nelle speranze e nelle paure dei cittadini, minando certezze, incrementando incertezze. A fronte di ciò (in Italia come in Veneto) la lentezza del mutamento istituzionale. O meglio: l’inconcludenza del mutamento istituzionale. Perché anche in questo terreno i cambiamenti sono stati profondi: nei soggetti politici, nelle forme di rappresentanza, nella struttura istituzionale. Ma non si è corretto il punto fondamentale per la vitalità democratica: l’efficienza delle istituzioni e la loro capacità di essere problem solving. Ed è rimasta irrisolta quella aspirazione riformista che nel nostro territorio ha assunto una connotazione particolare: da un nuovo protagonismo dei Sindaci alla leva del federalismo.

 

Identità da risorsa per lo sviluppo a difesa conservativa

Sul tema dell’identità veneta molto si è scritto. Resta un concetto ambivalente. Da un lato risorsa importante, riserva di capitale sociale che ha fornito lo forza propulsiva al primo grande salto della società veneta da contadina ad industriale. Dall’altro, in tempi più recenti, piuttosto evocazione di chiusure rispetto alle tensioni delle trasformazioni indotte dalla globalizzazione. Non più una risorsa ma piuttosto un ostacolo a vivere la modernità e a predisporre i presidi adatti per gestire il mutamento comprendendo i flussi della storia.

Per avvertire come sia cambiata la percezione del tema dell’identità veneta nel breve arco di tempo di un quindicennio è interessante la rilettura della raccolta di saggi di un folto gruppo di intellettuali veneti promossa nel 1998 dal Consiglio regionale del Veneto. Come osserva nella premessa Cesare De Michelis: “l’identità veneta è ambigua e sfuggente: essa oscilla inquieta tra ansie di autosufficienza e di separatezza e volontà di proiettarsi all’esterno mescolandosi agli altri nel mondo: oscilla caparbia tra l’orgoglio di una tradizione secolare che resiste all’usura del tempo e l’ambizione di riconoscere le proprie tracce nella comune civiltà dell’Europa”[1]. E’ facile osservare come si sia appannata negli ultimi anni l’ambizione dell’apertura e sia cresciuta una interpretazione dell’identità come risposta spaventata ai disorientamenti di una globalizzazione che è entrata in casa, alla crisi globale dell’economia occidentale che pesa fortemente nell’economia di una regione fortemente interconnessa con i mercati globali e che da molto tempo non aveva più dimestichezza con la fragilità occupazionale.

Paure che si spiegano anche con una condizione di povertà di cui resta traccia nella memoria collettiva. Ancora per i primi anni ’60 del secolo scorso, mentre in Italia si era già acceso il motore del “miracolo economico” ogni anno oltre 30.000 veneti prendevano la strada dell’emigrazione all’estero. In soli 7 anni tra il 1950 e il 1957 oltre 200.000 veneti , il 5% della popolazione residente, era andato a cercare la fortuna in Belgio, in Svizzera, in Germania o più lontano, nelle Americhe ed in Australia. Molti, molti di più avevano, insieme alle grandi correnti di emigrazione dal Sud, sostenuto il grande slancio produttivo del “triangolo industriale” fenomeno scomparso dalla geopolitica del nostro paese. Quando ho iniziato molto giovane, a metà degli anni ’60, una attività politica nel territorio padovano frequente era incontrare nelle parti più depresse della provincia ancora  i segni di una miseria diffusa: abitazioni prive dei servizi igienici, con il pavimento di terra battuta, in cui padri contadini tuttavia trovavano il modo di mandare i figli alle scuole superiori, magari alle scuole dei preti che sostenevano lo sforzo delle famiglie.

Poi per il Veneto è iniziata un’altra storia. Uno sviluppo impetuoso, un “miracolo” basato sostanzialmente sullo spontaneismo, su una capacità lavorativa non comune e su una solidità e coesione di modelli di convivenza, in cui la rete di vicinato offriva ciò che serviva ad una imprenditorialità nascente e diffusa: manodopera con cui condividere fatiche e rischi, una rete creditizia diffusa, una omogeneità culturale assicurata prevalentemente da una presenza della Chiesa Cattolica fatta di opere parrocchiali che tenevano insieme la società. La politica era la DC, a parte una robusta tradizione comunista e socialista nel veneziano e nel rodigino (legata a presenze operaie più antiche e al bracciantato). Una DC moderata anche se non conservatrice, con una rete di amministratori locali che viveva pelle a pelle con la realtà locale il senso di una trasformazione, fornendo quel po’ di infrastrutturazione che era necessaria, a rischio, se ne è assunta consapevolezza tardivamente, di manomettere il territorio..

 

Mutazione sostenuta da valori condivisi

Una grande mutazione, in pochi anni, meno dello spazio di una generazione, il Veneto è passato da una regione in cui la parola “miseria” non era un eufemismo ma la realtà vissuta da una parte consistente della popolazione a una delle regioni più sviluppate dell’intera Europa. Da una Regione in cui fuori dalla fatica dei campi non vi erano che scarse possibilità di occupazione operaia nei pochi poli industriali ( soprattutto Marghera e l’industria petrolchimica, l’industria tessile -Marzotto e Lanerossi – nel vicentino): ancora nel 1967 i comuni veneti classificati depressi erano 489 su 583. Perciò restava come abbiamo visto la strada dell’emigrazione, quella all’estero o quella più vicina in Lombardia e Piemonte. Da una regione così  ad una regione in cui gli emigrati di allora, divenuti nel frattempo imprenditori, o i loro figli, danno lavoro agli immigrati di oggi.

In questo primo ciclo di sviluppo ha avuto un grande ruolo il fatto identitario. Non tanto in una narrazione consapevole, ma piuttosto in una reale convergenza in un sistema di valori largamente condivisi, in criteri di giudizio convergenti. Sistema di valori generatore di stili di vita e di strutture comunitarie. Associazioni artigianali e commerciali capillari a presidio del territorio, organizzazioni sindacali, parrocchie, cooperative, associazioni popolari, dai donatori di sangue agli alpini, tutto contribuiva a rappresentare, narrare e accompagnare lo sviluppo. Un capitale sociale che ha costituito i mattoni su cui costruire la straordinaria trasformazione del Veneto negli anni 1960-1970[2]. Come ha scritto Francesco Jori: “un sistema valoriale semplice ma solido, legato a doppio filo a una condizione diffusa di povertà, dove pochi ma chiari principi gestite da famiglie compatte e coese tracciavano rotte condivise e facevano da bussola individuale e da collante sociale”[3]. Possiamo ricordare le parole di  Gaetano Marzotto: “Vin sincero, svaghi onesti, le famiglie, i tosi, i veci, fede in Dio, mutuo rispetto, lavorar con atension, in dignità”. Poi anche a Valdagno si fecero sentire le tensioni delle trasformazioni sociali, ma certo molti si riconoscevano in quelle parole: paternaliste, ma corrispondenti ad un senso comune.

 

Dal miracolo economico alla debolezza politica

Un “miracolo” grande con una ricetta semplice. Tuttavia è importante sottolineare che la coscienza di questo miracolo e della specificità del modello veneto è un fatto recente, posteriore al farsi del “miracolo”. Per merito prevalente di Giorgio Lago direttore del quotidiano allora più diffuso in Veneto “Il Gazzettino”, che ne ha fatto negli anni ’80 una battaglia civile e giornalistica, si è acquisita una forte coscienza di ciò che la società veneta ha saputo realizzare nel campo della economia e dello sviluppo[4].

L’ambizione di Giorgio Lago era di sviluppare una iniziativa culturale diffusa per ricreare una maggiore consapevolezza delle realizzazioni e soprattutto delle potenzialità della società veneta: trasformare la forza economica in una leadership anche politico-istituzionale per una profonda trasformazione delle strutture istituzionali; nella visione di Giorgio Lago impossibile che questa trasformazione avvenisse da Roma, bisognava costruirla a partire dai territori, con una alleanza dei ceti produttivi, degli operatori di cultura con la rete istituzionale offerta dai Sindaci, con l’investitura autorevole data dalla elezione diretta e la rivendicazione di un federalismo coraggioso che avrebbe dovuto trovare nella Regione il luogo per innovative sperimentazioni. Torneremo su questo punto parlando dei profili istituzionali. Giorgio Lago pensava di costruire questa più consapevole coscienza collettiva per rafforzare la capacità di approfondire le sfide che si stavano profilando. Bisogna constatare che questa tardiva presa di coscienza è stata piuttosto utilizzata nell’arena politica con un profilo di un impotente rivendicazionismo, attraverso una lente deformante, che ha finito per ingrandire i fattori positivi che nel recente passato hanno consentito il realizzarsi del miracolo del nord – est (questa straordinaria miscela di gusto dell’imprenditorialità, di senso del risparmio e del lavoro, di legame con il proprio territorio) e rimpicciolire i fattori che potrebbero costituire le debolezze del futuro prossimo.

 

La seconda grande mutazione

Perché nel frattempo il Veneto affrontava una seconda grande trasformazione epocale. Un apparato produttivo relativamente recente, dopo aver raggiunto punte di eccellenza in settori cosiddetti tradizionali, deve progressivamente spostarsi in settori a maggior contenuto tecnologico e di creatività. Lo sviluppo per distretti produttivi con forti fenomeni imitativi e di integrazione deve ora misurarsi con processi di internazionalizzazione e delocalizzazione. L’uso intensivo di manodopera che ha caratterizzato la fase dello sviluppo si stempera in processi più complessi che vedono insieme internazionalizzazione e delocalizzazione delle funzioni produttive mantenendo tuttavia ancorato al territorio la testa dell’azienda, ed insieme una forte importazione di manodopera (oltre 160 etnie e 15% della manodopera occupata è il contributo dato dalle popolazioni extracomunitarie al funzionamento del nostro sistema economico). La vera novità di questa fase della storia recente del Veneto e che economia e società non viaggiano più insieme; per molti anni è stato così: ciò che andava bene all’impresa andava bene alla società e l’avventura imprenditoriale è stata insieme una crescita individuale e collettiva. Già nel 2008 il rapporto annuale della Fondazione Nord Est richiamava la necessità di realizzare “la dismissione di un habitus culturale improntato prevalentemente all’agire individuale in favore di un agire concertato. La capacità di realizzare una nuova orditura di relazioni e di coesione di interessi, dove prevalga l’abilità di includere, piuttosto che quella di escludere è la cruna dell’ago del Nord Est…Se l’economia del Nord Est costituiva una risposta “dal basso” alla trasformazione della concorrenza adesso quella modalità appare sostanzialmente sfasata rispetto alle sfide nuove, non si tratta di mettere in gioco la vitalità talora furibonda ma anche estemporanea di quest’area economica…Per realizzare quella combinazione di qualità, innovazione, ricerca sul prodotto, incorporazione del valore aggiunto…sembra necessario ricercare una nuova integrazione di economia e politica, fra l’apparato produttivo e le istituzioni”[5].

E’ una secessione tra quella parte di apparato economico che è riuscito a gestire la trasformazione dei distretti produttivi e la sua evoluzione, raggiungendo forme più sofisticate di presidio dei mercati esteri e quella parte che non riesce a fare il salto di qualità da subfornitore di livello medio basso. Un territorio amico, produttivo di relazioni economiche che garantivano sbocchi alla propria produzione diventa improvvisamente ostile. Mercati esteri raggiunti con canali tradizionali si chiudono per la presenza di nuovi competitor. In questa nuova pressione competitiva il capitalista molecolare si accorge che non basta lavorare di più, chiedere di più ai propri dipendenti. Tutto si scarica sulla propria impresa: può essere in primis il peso della tassazione, che si ritiene sempre più sproporzionata rispetto a quanto si riceve, il peso della burocrazia che aggiunge costi non più sostenibili, un territorio insufficientemente servito per cui fuori dal proprio laboratorio la merce non viaggia o viaggia lentamente con costi inaccettabili[6].

 

Una identità smarrita?

C’è questa differenza fondamentale tra le due grandi mutazioni che hanno interessato il Veneto a partire dagli anni ’60. La prima ha comportato un cambiamento in qualche modo endogeno, fatto da sé. Un cambiamento vissuto come occasione di riscatto e senza la paura di perdere i propri riferimenti comunitari e culturali. Infatti un cambiamento avvenuto senza avvertibili fratture sociali. La forza ed il supporto del cambiamento era dentro i confini della società conosciuta, dentro il proprio territorio. Insieme vi era una rappresentanza politica e sociale ad accompagnare il cambiamento, ad indicarne obbiettivi. Piuttosto la vera frattura che è avvenuta è stata la frattura con il territorio. Sviluppo rapidissimo in una società ancora povera. Insediamenti sparsi sul territorio con processi sostanzialmente spontanei senza una gerarchia di funzioni. Una vitalità che ha costruito molto, ma ha anche distrutto molto: paesaggio, ambiente, sistemi di relazioni.

Profondamente diversa la seconda mutazione. Con soggetti politici più propensi a rappresentare le paure che ha guidare i cambiamenti organizzando le risposte. Con una società che non ha accompagnato: lo spaesamento della nuova competizione internazionale, la perdita dei legami sociali e della qualità del territorio, lo sfasamento tra la lentezza delle risposte istituzionali e la velocità del cambiamento nelle imprese e nelle famiglie, l’irrompere di nuovi cittadini veneti, con lingua, cultura, religione, stili di vita diversi..

Su questi aspetti ha scritto pagine illuminanti Aldo Bonomi[7], parlando di stressati del capitalismo molecolare, con riferimento alla miriade di micro produttori cresciuti dentro le reti di distretto, insieme protettive e stimolanti di competizioni domestiche e perciò dominabili e riconoscibili in territori non ostili. La grande ondata della globalizzazione è passata sopra la testa di questo apparato produttivo, protagonista negli anni precedenti della formazione di ricchezza individuale e collettiva ed ora alle prese con un mutamento di fronte al quale solo una parte ha gli strumenti per affrontarlo.

 

Una nuova identità a servizio della modernità

Può essere allora la riscoperta di valori identitari lo strumento per accompagnare le nuove sfide? Possiamo ricorrere a ciò che diceva Giorgio Lago qualche anno fa ad un convegno delle pastorali del lavoro delle Diocesi venete: “: “A Nord est siamo fortunati, molto fortunati, perché ci troviamo nel posto giusto e nel momento giusto, se il tema del giorno è la sintesi tra locale globale”[8] Anche in questa nuova fase dobbiamo essere capaci di partire da questa visione ottimistica. Alla fine il Veneto si trova all’incrocio dell’Europa del futuro, tra il Nord sviluppato ed il Mediterraneo che si apre agli infiniti sud del mondo, di nuovo cerniera con il mondo multiforme e sterminato dell’Oriente. Se ci liberiamo delle paure possiamo riscoprire la cultura generosa di un popolo che è stato un popolo di migranti ed insieme quel grande territorio multinazionale che era la Serenissima. Ancora Lago osservava che dentro questa fortuna c’era però un pericolo, che i tanti cambiamenti portassero il Veneto ad essere “fuori di sé”, a smarrire un senso identitario. Siamo a questo passaggio. Ricorro ancora alle parole di Daniele Marini della Fondazione Nord Est: “Siamo come in una sorta di travaglio: dal chiuso grembo rassicurante dei processi di industrializzazione della società del Novecento, stiamo procedendo attraverso un pertugio stretto e difficoltoso in un nuovo mondo. Aperto e senza confini. Incerto e con meno sicurezze. Senza modelli di riferimento e paradossale. Ma con grandi opportunità che si stanno dischiudendo, via via che si prende confidenza con il nuovo ambiente. E, soprattutto, con i nuovi codici, le nuove categorie interpretative. Sì, perché il mondo globale e digitale in cui ci stiamo velocemente immergendo richiede sicuramente una preparazione tecnologica diversa, soluzioni organizzative nuove e innovative rispetto alle epoche precedenti, sia dal punto vista economico che sociale. Ma, soprattutto, necessita un cambiamento culturale, un modo diverso di analizzare e considerare la realtà e le prospettive. C’è un tema di adeguamento tecnologico da affrontare, ma in questo campo le soluzioni non mancano e saranno sempre più disponibili. Soprattutto, c’è una questione di vision, di capacità di elaborare un orizzonte culturale entro i quali tessere innovazioni e nuova progettazione del fare impresa, così come costruire nuovi equilibri fra la società e l’economia”[9].

Tutte le ricerche mettono in luce come il rallentamento della capacità espansiva del Veneto sia prevalentemente legato ad una debolezza sistemica: ci sono molte esperienze di eccellenza, nel settore privato e non solo, ma permane una difficoltà degli attori economici, sociali ed istituzionali a rafforzare legami di integrazione, cooperazione, visione condivisa. Per far questo occorre ritrovare sul piano della modernità i legami di una identità culturale. Lo possiamo ritrovare, certo una identità diversa e plurale. Qualche tempo fa ho incontrato in un bar della bassa padovana un bambino cinese che serviva ai tavoli (lavoro minorile…) spiegando in dialetto veneto agli avventori come stava andando la partita di calcio che passava sullo schermo televisivo. C’è una identità da ricostruire, su buone fondamenta, con la mente aperta. Perché alla fine se si riscopre la voglia di futuro e se la risposta può essere quella della società glocale certo il Veneto ha tutti i presupposti per essere un luogo di felice sperimentazione.

 

Istituzioni: un mutamento improduttivo?

Il fatto che ci sia un aspetto sistemico per aprirsi al futuro ci porta alla riflessione sulla dimensione istituzionale. Quanto si poteva fare e non si è fatto per ammodernare questo versante del patrimonio di saper fare del Veneto, quanto si deve fare per accompagnare questa nuova fase.

Qui la testimonianza personale acquisisce forse un certo spessore. Ho attraversato un quarto di secolo di vita istituzionale. Facendo il Sindaco ancora nel periodo pre riforma con l’elezione diretta, entrando in Parlamento eletto nella parte uninominale del mattarellum, concludendo nel Parlamento dei “nominati” con il porcellum: dal massimo della rappresentanza (il Sindaco), alla negazione della rappresentanza. Un lungo viaggio nelle istituzioni, partendo dal radicamento territoriale e vivendo dal versante delle istituzioni centrali una nuova domanda di soggettività del territorio veneto, con una richiesta di riforme istituzionali, attorno alla parola d’ordine del federalismo.

Vedo di ricostruire la lezione del mutamento improduttivo. Perché sarebbe un giudizio superficiale negare che vi sia stato in questo quarto di secolo un profondo mutamento delle strutture istituzionali e della articolazione delle forze politiche (non semplice cambio di denominazione, ma vera riarticolazione della rappresentanza). Il punto è che questo mutamento non ha prodotto né una maggiore efficienza dei sistemi istituzionali, né un rafforzamento della rappresentanza. E ha prodotto l’attuale disincanto, una sfiducia che fatica ad esprimere cambiamento positivo.

 

Sindaco imprenditore del bene comune

Fare il Sindaco nel vecchio sistema proporzionale, con l’elezione da parte del Consiglio Comunale. Il mestiere era lo stesso, quello dell’ imprenditore del bene comune per la propria comunità, ma gli strumenti profondamente diversi. Non necessariamente tutti negativi. Strumenti appunto, che diventano inutili non in sé, ma per la latitanza della buona politica.

E’ vera solo in parte l’immagine di instabilità delle amministrazioni che si accompagna alla stagione della elezione dei consigli comunali con metodo proporzionale e senza doppio turno e elezione del Sindaco da parte del consiglio comunale. Stagione cessata nel 1993. Il vecchio sistema non ha impedito l’emergere di Sindaci del territorio molto autorevoli, nei piccoli e nei grandi comuni. Certo il sistema per ben funzionare richiedeva una certa robustezza nella rappresentanza partitica, una capacità di leadership che doveva misurarsi giorno per giorno. In mancanza era facile il degrado attraverso una estenuante mediazione nelle aule consiliari, una scarsa capacità decisionale, una dialettica molto forte anche all’interno delle Giunte tra Sindaco ed assessori che poteva rallentare l’azione amministrativa. E certo era molto defaticante il processo amministrativo e la competenza consiliare era estesa su quasi tutti gli altri, a discapito della competenza della Giunta. Così in un Comune medio come Padova il Consiglio doveva approvare migliaia di atti in un anno talvolta senza possibilità di approfondimento. Oggi parliamo piuttosto di una qualche decina (meno di 50) di delibere annue esaminate dal Consiglio Comunale. A ciò va aggiunto un potere di controllo esterno molto penetrante da parte dei Comitati di Controllo, prima presso la prefettura, poi di nomina regionale, controllo oggi totalmente assente.

Vi era però un elemento importante per la vitalità democratica che non è stato forse sufficientemente valutato e su cui sarebbe importante oggi compiere un esame critico nella comparazione dei due diversi sistemi.

L’essicamento delle funzioni del Consiglio Comunale ha portato a un forte indebolimento di una generatività democratica che la palestra del Consiglio Comunale era capace di produrre: formazione di nuova classe politica amministrativa, educazione alla convivenza democratica ed attitudine al confronto argomentato, preparazione ad altri compiti amministrativi. Ciò che si è guadagnato in rapidità decisionale (cosa peraltro che andrebbe verificata con dati concreti) si è perso in rappresentatività democratica e quindi anche di rappresentazione all’opinione pubblica della visione della città, di proposizione di grandi dibattiti culturali, di approfondimento pubblico nella sede istituzionale delle grandi questioni della convivenza urbana. Attorno al Consiglio Comunale ed ai singoli consiglieri comunali (che per entrare in Consiglio dovevano essere capaci di acquisire un consenso cospicuo) poi si costruiva una rete territoriale che dava sostanza al rapporto tra eletto ed elettore.

 

Partiti vitali canali di rappresentanza

Bisogna infatti tener conto anche del rapporto allora esistente tra il livello istituzionale comunale e il sistema dei partiti. Ho fatto il sindaco (1987 – 2003) già in un periodo di degrado della politica della prima Repubblica che sarebbe sfociato in tangentopoli. Tuttavia era ancora ben salda la struttura territoriale dei partiti, con un vero ruolo di partecipazione ed animazione dei cittadini. Faccio l’esempio della Democrazia Cristiana, partito in cui militavo quando ho fatto il Sindaco. Il partito era strutturato in oltre 30 sezioni nel territorio cittadino, con oltre 10.000 iscritti. Certo, anche l’iscrizione di interi nuclei familiari, ma comunque persone in carne e ossa che venivano a votare quando era il momento dei congressi. Noi più giovani criticavamo magari il fatto che ci fosse poca gente al momento del dibattito congressuale nelle sezioni e moltissimi al momento del voto. Ma era pur sempre una partecipazione che poi si viveva all’interno dei nuclei familiari. Una risorsa preziosa per il Sindaco (anche un controllo vero) perché si instaurava un dialogo con aree consistenti della comunità cittadina, sia per la natura interclassista, come si diceva allora, che consentiva di venire in contatto, tramite la sezione di partito, con strati sociali diversi, sia perché la capillarità della presenza, il numero dei partecipanti, il riconoscimento locale del Segretario di sezione fornivano un polso credibile dell’opinione pubblica: non vi era bisogno di sondaggi di opinione.

Vi era anche una certa vivacità nei processi decisionali. Vi era lo strumento del preconsigli, in cui consiglieri comunali insieme ai livelli comunali del partito erano chiamati preventivamente ad esprimere la loro opinione. In modo forse marginale nel Comune di Padova, dove la complessità e l’articolazione delle maggioranze politiche che reggevano l’amministrazione (quasi sempre dopo il 1964 di centrosinistra) obbligavano a presentare soluzioni già concordate, in modo molo penetrante nei comuni di minori dimensione, dove la presenza molto diffusa di monocolori DC attribuiva al precnrsigli un ruolo decisivo, spesso anche nella caduta delle Amministrazioni.

Non dissimile era la struttura degli altri partiti, sia pure anche nel ruolo diverso dell’opposizione. Basta leggere i verbali del Consiglio Comunale per constatare con quanta puntigliosità si esprimevano posizioni politiche di merito, lasciando agli atti dibattiti di notevole spessore, che poi venivano trasferiti del territorio. Questo valeva sia per il maggior partito di opposizione, il PCI, sia per il partner principale della DC in quasi tutte le amministrazioni dal 1964 in poi, il Partito Socialista, ma anche per i partiti minori come il PRI, il PSDI, il PLI, con circoli più ristretti ma comunque vivaci.

Un sistema tuttavia che non regge più con l’indebolirsi della capacità rappresentativa e di costruzione culturale dei partiti, l’indebolirsi del dibattito interno, il rinseccarsi degli iscritti e dei militanti, il prevalere di atteggiamenti lobbistici, verso una partitocrazia senza partecipazione.

Difatti termino la mia esperienza di Sindaco cercando di introdurre nell’Amministrazione (1992) una svolta radicale, per introdurre una discontinuità ed un allargamento della base democratica delle istituzioni, interrompendo la tradizionale alleanza di centrosinistra, molto condizionata da un crescente protagonismo del PSI, che sfruttava fino in fondo il potere di interdizione dato dalla sua necessità numerica. Nasce una giunta DC PDS PRI, con un faticoso processo di convinzione delle dirigenze dei tre partiti: una rivoluzione, anche rischiosa, ma lungimirante, visto che anticipava di qualche anno la prospettiva politica che avrebbe portato alla nascita dell’Ulivo.

 

Una positiva reazione riformatrice

Sono comunque anni in cui ancora c’è una reazione riformista. Soprattutto con due grandi eventi. Uno che nasce dal basso, con il referendum sulla preferenza unica, l’altro viene introdotto per via parlamentare con l’elezione diretta dei Sindaci.

Il referendum sulla preferenza unica manifesta una amplissima richiesta di cambiamento istituzionale, ben al di là della limitatezza della riforma data dai vincoli dello strumento referendario. Ed è singolare che allora l’opinione pubblica abbia visto nelle preferenze non un potere a favore del cittadino ma uno strumento manipolato dai partiti, mentre vent’anni dopo è la mancanza delle preferenze che viene criticata. In ogni caso il Veneto si distingue per una elevata partecipazione al voto ed una percentuale elevatissima a favore della preferenza unica.

L’elezione diretta del Sindaco introduce una fortissima innovazione nella vita delle Amministrazioni locali, i dati dimostrano che l’elezione diretta ha contribuito in modo decisivo all’innalzamento della fiducia dei cittadini nei confronti dei Comuni.

Naturalmente ora si potrebbe fare anche un bilancio di questa esperienza, in cui non sono mancati effetti negativi: quello già ricordato della svalutazione del ruolo dei consigli comunali, senza correggere del tutto il problema dell’instabilità, perché molti comuni hanno concluso in modo anticipato il ciclo amministrativo, e non sono mancati atteggiamenti che sono passati da un maggior potere decisionale ad autoritarismo di tipo podestarile.

Tuttavia l’introduzione dell’elezione diretta è stata una svolta epocale, che poi nel Veneto ha trovato una valenza del tutto peculiare. Intanto per la consolidata cultura autonomistica propria del territorio, in cui la lezione sturziana della democrazia delle autonomie aveva pienamente trovato realizzazione in generazioni di amministratori locali che avevano ben chiaro in testa cosa volesse essere Sindaci delle proprie comunità. Di questa radicata cultura autonomista si trova una forte espressione nel dibattito che accompagnò l’approvazione del primo statuto della Regione Veneto.

Poi perché in Veneto sulle figure dei sindaci si è sviluppata una nuova soggettività politica. E ancora una volta nel promuovere questa nuovo protagonismo è stata decisiva l’iniziativa di Giorgio Lago. Da Direttore del Gazzettino organizzò una vera campagna di opinione e promosse e sostenne una iniziativa politica capace di aggregare Sindaci di diverso orientamento politico, rompendo gli schemi della politica nazionale. Scrive Lago nel settembre del 1995: “Bisogna rivoluzionare la politica con obiettivi del tutto nuovi. Per far questo non si può che partire dall’autonomia radicale, dura, decisa, ma federale ed unitaria. Solo i Sindaci – solo che lo vogliano in tanti – hanno il pallino in mano insieme alle regioni forti, le aree d’avanguardia come il Nordest”[10]. Poco dopo scrive una “Lettera aperta a un Sindaco del Nordest” che è una vera chiamata alle armi per una battaglia politico/culturale dei Sindaci. Non è questa la sede per una riflessione su quella esperienza, perché non riuscì a concretizzarsi in una iniziativa politica, con il fallimento del “Movimento del Nordest” di Cacciari e Carraro. Così ne scrive Giorgio Lago poi nel 2000: “I sindaci infastidivano trasversalmente perché rappresentavano una novità o, meglio, una rivoluzione del linguaggio. Fabbricavano ceto politico con il voto diretto, a dispetto delle tessere. Dimenticavano finalmente il centro, a vantaggio del territorio. Nel nome dell’amministrazione staccavano la spina al “politicume” di fanfaniana memoria. Fra teatrino e programmi rovesciavano la gerarchia  nel nome dei secondi: i sindaci sanno benissimo che nella vita di un paese o di una città la raccolta bene o male organizzata dei rifiuti può valere da solo il consenso o la bocciatura. Il loro movimento batteva il ferro della responsabilità e della concretezza, contro le muffe di “destra” e di “sinistra”. Non solo. Facevano proposte, entravano nel merito: contro il federalismo degli esibizionisti, lavoravano sul federalismo dal basso come anticamera e grimaldello contro i riformisti della Costituzione blindata”[11].

 

La “questione settentrionale”

Sono gli anni in cui si ha una forte evidenziazione della questione settentrionale. Una nuova soggettività portata dall’esplodere del fenomeno leghista e il tentativo di organizzare una risposta.

Così si struttura il secondo pilastro del tentativo di una innovazione istituzionale che trova nel veneto un terreno fertilissimo: accanto alla lezione diretta dei sindaci e la loro nuova leadership territoriale la prospettiva federalista.

Ricordo della mia esperienza parlamentare il lavoro spesso non compreso dai gruppi dirigenti nazionali sulla necessità di non fermarsi alla superficie “folkloristica” del fenomeno. Riconoscendo che una parte dei temi avevano una forza espressiva di un comune sentire che non poteva essere ignorato. Per comprendere questo clima riporto alcuni passi di una lettera che scrissi nel 1996 insieme al senatore di Verona dell’Ulivo Luigi Viviani al Presidente del Consiglio Romano Prodi, che si era lamentato sul Gazzettino di una eccessiva concentrazione dei parlamentari veneti sulle questioni territoriali: “Il punto fondamentale è comunque un altro: nessuno di noi pensa di ridurre la politica nazionale alla dimensione ed ai problemi del Veneto, ma abbiamo una precisa domanda da fare al Governo: ”ritiene il Governo che la questione del Nord Est (per l’apporto che quest’area dà alla formazione della ricchezza nazionale, per le risorse di imprenditorialità diffusa e di laboriosità che essa esprime, per la qualità di relazioni industriali che ha saputo costruire, per l’evidente carenza di infrastrutturazione di base adeguata al suo ruolo  nella competizione economica internazionale, per il “malessere” diffuso nel rapporto con le istituzioni pubbliche) richieda uno specifico progetto che individui strumenti e risorse per affrontare i nodi irrisolti,  e che nello stesso tempo impegni più direttamente i soggetti responsabili di quest’area a dare un contributo alla soluzione dei gravi problemi del paese? E che l’assunzione di questo progetto sia responsabilità specifica del Governo, coinvolgendo nella sua formazione le rappresentanze parlamentari, le istituzioni locali, le espressioni rappresentative della società civile?

Se la risposta è positiva accettiamo anche la polemica, se il Presidente si sente maggiormente tranquillo sostenendo che finora questo progetto non è partito per colpa della classe politica veneta; l’importante è che possa essere messo in moto da domani, e questo è nelle sue responsabilità: il Presidente sappia che nel Veneto troverà pochi questuanti ma molte persone interessate a risolvere con impegno e con orgoglio i problemi della propria terra e a dare un contributo non formale alla soluzione di quelli della comunità”[12].

Del resto l’aveva già spiegato Ilvo Diamanti in “Il male del Nord”. La Lega, scriveva Diamanti, è un fenomeno che va preso sul serio: “Chi intende affrontarla seriamente deve prenderla sul serio. E assumerla come uno specchio della domanda di innovazione del sistema politico e istituzionale imposta dal localismo e dalla questione settentrionale e, al tempo stesso come un segno del vuoto di proposta e di identità politica”[13] .

Paolo Rumiz in “La secessione leggera”  spiegava come fosse la destra e la Lega in particolare a governare i simboli del territorio, il linguaggio delle radici e delle autonomie, l’ansia dei ceti produttivi di fronte alla globalizzazione. Il libro si apre con una provocazione forte “Questo libro sul Nord è un viaggio nell’etnia: nel ventre, cioè di quella cosa innominabile che la sinistra rifiuta”[14].

 

“Federalismo” come passepartout della politica

Ci fu un importante punto di discussione quando il Ministro Calderoli presentò il disegno di legge sul federalismo[15], dichiarandosi disponibile ad accogliere proposte modificative dell’opposizione. Prendemmo una iniziativa politica come parlamentari del nord, veneti soprattutto, dei partiti riformisti (Ds, Margherita e poi PD) per far prevalere una posizione di sfida aperta, e quindi di confronto di merito, sul tema del federalismo. Accettando il confronto parlamentare e non la preclusione a priori, come molti parlamentari del Sud chiedevano, sul disegno di legge Calderoli, per quanto storto ed incompleto fosse.

Il nostro affanno fu di spiegare a chi da Roma faceva fatica a percepire il fenomeno, che non era questione di elettorato influenzato dal leghismo diffuso o dall’orientamento di centro destra. Era una opinione radicata in tutti i ceti sociali e gli orientamenti politici, una convinzione fortemente presente  anche nell’elettorato di centrosinistra.

Naturalmente il termine federalismo assumeva un significato molteplice. Si usava questa espressione per descrivere tanti malesseri e domande diverse alla politica. Così scrivevo nel luglio del 2008 in un documento presentato ad un seminario dei gruppi parlamentari del Partito Democratico:

“Questa richiesta così forte del territorio che è parte essenziale della cosiddetta questione settentrionale, che si esprime attraverso il termine federalismo, in realtà mette insieme una serie di questioni che è bene distinguere e vedere una per una.

1.         La questione fiscale innanzitutto. La sensazione diffusa, tra i lavoratori dipendenti come tra i moltissimi che dalle diverse forme dell’intrapresa individuale (piccoli imprenditori, artigiani, commercianti, professionisti, ecc.) ricavano il proprio reddito che vi è uno squilibrio troppo forte tra ciò che si dà e ciò che si riceve. Si dà troppo e si deve dare in modo troppo complicato.

2.         La pressione burocratica: troppe pratiche, troppi costi amministrativi per piccolissime strutture economiche, troppi adempimenti di cui non è avvertibile l’interesse pubblico che dovrebbe sottostare alla richiesta al privato di un costo burocratico.

3.         Una perequazione inefficiente: una solidarietà che viene richiesta e che viene usata senza rispetto per chi la dà. Il gettito che serve alla perequazione per le regioni più povere non produce risultati, ma sembra alimentare fenomeni clientelari e di cattiva amministrazione. Report è una delle trasmissioni più seguite e alimenta giudizi severi e diffusi verso una certa immagine delle amministrazioni del Mezzogiorno.

4.         Un sistema di trasferimento agli enti locali troppo distorto. Regole stringenti eguali per tutti, spesso senza nessuna distinzione tra comportamenti virtuosi e comportamenti lassisti, ma trasferimenti dallo Stato diseguali senza alcun criterio che non sia quello della spesa storica. Comunità locali che si trascinano da decenni un differenziale negativo di trattamento perché i loro padri avevano una idea un po’ asburgica della amministrazione pubblica.

5.         Infine per alcuni territori del Veneto, la provincia di Belluno in particolare, ma vale anche per la Lombardia, per il Piemonte, il confine con regioni a Statuto speciale. Se in decine di comuni più del 90% degli elettori vanno a votare e con percentuali elevatissime si vota sì al trasferimento al Trentino, piuttosto che al Friuli o alla Valle d’Aosta, non lo si fa per egoismo. E’ una scelta un po’ disperata che ha a che fare con il fatto che si vedono nel comune confinante maggiori opportunità per i propri figli: migliori sevizi scolastici, culturali, sportivi, con il fatto che si subisce la concorrenza sleale dei propri concorrenti: un albergo di qua in Veneto deve arrangiarsi, di là in Trentino, magari al di là della strada, contributi a fondo perduto per gli ammodernamenti, per la gestione, per gli impianti di risalita, ecc.

Sono fatti che sono entrati nella testa della gente con la forza dei fatti, semplicemente non c’è più la disponibilità a non vederli, e questa è la questione politica che si pone anche a noi se vogliamo essere centrali nella rappresentanza del territorio.

Vi è ormai troppa distanza tra ciò che si riceve e ciò che si dà. Lo Stato centrale preleva dai contribuenti veneti circa 11.000 euro pro capite (1.000 euro in più rispetto alla media nazionale) e ne restituisce sul territorio circa 7.500 euro pro capite, 1.200 euro in meno rispetto alla media nazionale. Il residuo fiscale complessivo delle Amministrazioni pubbliche (centrali e locali) è stato nel 2003 di 2.513 euro pro capite rispetto ad una media nazionale di – 266 euro. La mia regione è la terza in Italia per elevatezza del residuo fiscale.

Certo è l’effetto della necessaria ( e utile per la crescita del paese) solidarietà nazionale. In sostanza tre regioni Lombardia, Emilia Romagna e Veneto ripianano i disavanzi maturati in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. Le altre regioni più o meno stanno in pari. Il punto è che poi i contribuenti leggono dove vanno a finire i tributi estratti dal territorio con finalità perequative. Il costo di funzionamento della Regione in Veneto è di 99 euro pro capite, in Puglia di 160, in Campania di 181, in Calabria di 265, in Molise di 374. Il personale dipendente ogni 100 mila abitanti è di 43 in Lombardia, di 69 in Veneto, di 98 in Puglia, di 156 in Campania, di 255 in Calabria. Fatta 100 la media italiana di retribuzione dei dirigenti delle regioni a statuto ordinario l’Emilia quota 90, il Veneto 94, la Puglia 128, la Calabria 148. Il punto che va in crisi non è il venir meno di un sentimento di solidarietà verso le aree più deboli (o comunque è un atteggiamento che riguarda parti minoritarie della popolazione) è la disponibilità a vedere risorse proprie destinate alla cattiva amministrazione e non alla prestazione di servizi ai cittadini.

Infine la disuguaglianza dei trasferimenti dello Stato al sistema degli Enti Locali. E’ cresciuto parecchio l’indice di autonomia fiscale (che farà un bel passo indietro con l’abolizione dell’ICI), ma resta il fatto che il trasferimento da parte dello Stato è legato a criteri di spesa storica che non hanno alcun rapporto con i servizi erogati, con la struttura della popolazione, ecc. Il trasferimento medio pro capite ai comuni del Veneto è di 240 euro, rispetto ai 189 della Lombardia, ai 307 dell’Emilia Romagna, ai 490 della Calabria, ai 541 della Campania, ai 570 della Sicilia. Anche in questo caso abbiamo risultati non dissimili circa la destinazione della spesa da quelli visti per i trasferimenti alle regioni. Centinaia di comuni veneti di diverso orientamento politico hanno assunto una iniziativa per  rideterminare radicalmente la distribuzione del gettito IRPEF tra Stato e comuni in sostituzione di trasferimenti. E’ un tema che non può essere rinviato.

E’ un sistema che non è più sostenibile. Non è sostenibile socialmente e politicamente al Nord. Non è produttivo per il Sud: risorse che in sostanza non hanno prodotto in larga parte un innalzamento del livello e della diffusione di servizi alla persona e alle imprese, ma una elefantiasi burocratica e costi di prestazione dei servizi più elevati senza giustificazioni.”[16]

 

Federalismo e spesa pubblica

Oggi questa tensione è alle nostre spalle. C’è stato un periodo in cui si mangiava esclusivamente pane e federalismo. Di qualsiasi cosa si parlasse lì si andava a parare. Il federalismo, parola in sé dai molti ed imprecisi significati, era la ricetta per ogni cosa. Ora il tema è scomparso dal radar della politica e dell’informazione. Grazie anche al fatto che in questi anni si è fatta molta retorica del federalismo ma molta pratica di centralismo, anche nel periodo in cui la Lega ha avuto responsabilità importanti di Governo.

Eppure il “federalismo” resta un passaggio necessario per risolvere il grande problema della spesa pubblica. Che a differenza di quanto si dice e si scrive anche ai massimi livelli dell’informazione giornalistica non è affatto superiore alla media dei paesi europei e dei paesi che organizzano un serio sistema di welfare. Specie se la depuriamo dalla spesa per il servizio del debito: che nei paesi nostri competitori è dalla metà a due terzi di quello che spendiamo noi. Il problema della spesa pubblica in Italia è che ha due storture: che è mal distribuita e che è scarsamente efficiente. A parità di prelievo con altri paesi restituiamo troppo poco in termini di quantità e qualità di servizi e copriamo in modo squilibrato i bisogni delle famiglie: ad esempio molto per le pensioni, poco per le politiche familiari e per i giovani.

I due binari che hanno guidato il dibattito istituzionale e politico nel nostro territorio nell’ultimo quindicennio sono diventati due binari morti: i Sindaci piegati dalle restrizioni finanziarie, da regole di spesa discutibili, con vincoli non legati all’efficienza, il federalismo dalla sua inconcludenza. E’ rimasto imperfetto e non concluso il disegno a livello nazionale, anche se l’eredità poco visibile ma decisiva è la costruzione di basi di dati e metodologie per il calcolo dei costi e dei fabbisogni standard che saranno decisivi quando si riprenderà l’iniziativa politica su questo tema.

Possiamo dire che la lunga discussione sul federalismo ha certamente acceso speranze riformiste ma si è tradotta anche in una sorta di alibi. In attesa che Roma decidesse si è rinunciato a praticare una manutenzione dal basso del sistema delle autonomie. In particolare il Veneto si è distinto per il divario esistente tra le affermazioni di un radicalismo federalista per una Regione a trazione leghista e l’inconsistenza delle azioni concrete, rinunciando ad utilizzare gli spazi pure esistenti nell’ordinamento. Ne è testimonianza la pochezza del dibattito che ha accompagnato la redazione del nuovo Statuto (di ben altro spessore il dibattito politico che aveva portato all’approvazione dello Statuto fondativo), la rinuncia ad utilizzare la strada del federalismo a geometria variabile aperta dalle modifiche costituzionali del titolo V, la poca attenzione riservata ad una politica attiva di riorganizzazione del sistema delle autonomie (fusione di comuni, cooperazione territoriale, unioni di comuni, ecc.[17]).

Il Veneto aveva una diffusa cultura autonomista, risorse istituzionali, capitale sociale, ricche autonomie funzionali che avrebbero consentito di sperimentare nuovi percorsi istituzionali, anche a legislazione vigente. E’ mancata una regia sapiente, un investimento di ingegneria istituzionale. Il dibattito ideologico, la rivendicazione verso Roma ha sostituito il saper fare bene le cose con orgoglio che era uno dei lasciti della identità veneta.

 

Il Veneto oltre il Veneto

Potremmo dire che si è chiuso un ciclo, quello del rivendicazionismo. Se non altro perché la crisi generale, dell’economia e delle istituzioni, non presenta più un potere forte da contestare. E perché il rischio è che alla coscienza tardiva del miracolo compiuto si sovrapponga la percezione che il Sud non sono gli altri (Roma ladrona) ma il Sud siamo diventati noi rispetto ad un Nord (la Germania) che ritorna a correre anche senza il Nord Est, scavalcandolo con un rapporto diretto verso il nuovo Oriente.

Serve pensare un Veneto oltre il Veneto, scrive Francesco Jori[18]. Pensando che alcuni elementi costitutivi dell’identità veneta (come può essere coniugata in una società globalizzata) sono ancora risorse per la crescita futura: una cultura del lavoro che resiste ancora (una società laburista l’ha definita Daniele Marini, constatando che la popolazione veneta attribuisce un valore al lavoro superiore di venti punti alla media italiana), una solidità di rapporti familiari che costituisce ancora un forte legante sociale, il permanere comunque di una ricchezza del tessuto civico veneto.

Ma occorre una profonda rielaborazione. Con una demografia profondamente cambiata, con i due estremi di una popolazione di veneti sempre più anziani e una popolazione di nuovi veneti, giunti da lontano, con la fatica di costruire l’integrazione di una società multietnica, multireligiosa, multiculturale. Un’economia che potrà restare centrata sul manifatturiero, ma dovrà essere alla ricerca di nuove filiere, essere capace di inserirsi in nuove catene del lavoro. Con la necessità di saper elevare l’efficienza dei sistemi formativi. Con la sfida di una riconciliazione con il territorio, stremato da un intenso consumo di suolo, ricucendo e rigenerando la rete dei centri urbani, riorganizzando la metropoli inconsapevole del Veneto centrale[19].

Qualche tempo fa Mario Rigoni Stern ha raccontato di un suo incontro con Giuseppe Ungaretti in cui il grande poeta gli disse: “Caro Mario, vedi, la civiltà va con due velocità: c’è il progresso tecnologico, che ora va velocissimo, e c’è il progresso morale, che ora non tiene il passo. E la distanza si fa sempre più lunga”[20]

Una riflessione ormai lontana nel tempo, ma di grande attualità. Anche per il Veneto che deve affrontare questa duplice sfida. Una rigenerazione del suo sistema produttivo, con uno (o due) miracoli alle spalle ed uno nuovo da fare, una riconciliazione con le proprie radici, non in una sterile chiusura identitaria ma come risorsa per affrontare le novità del futuro che ci aspetta. Anche con un rinnovato patto tra popolo e istituzioni. Difficile ma necessario.



[1] A.A. V.V., Identità veneta, Marsilio, Venezia 1999, pag.11

[2] Sull’importanza del capitale sociale per i processi di sviluppo si veda M. Almagisti, La qualità della democrazia in Italia, capitale sociale e politica, Carrocci, Roma 2008

[3] In S. Scannagatta, Venetoshire, greencity e Veneto di terraferma, Padova 2013

[4] Sul ruolo di Giorgio Lago nella narrazione della società veneta si veda  A.A. V.V. Il facchino del Nord Est, Marsilio, Venezia 2006 e a cura di P. Possamai, L’inguaribile riformista, Marsilio, Venezia 2007

[5] D. Marini e S. Oliva Nord Est 2008 Rapporto sulla società e l’economia, Marsilio, Venezia 2008

[6] P. Giaretta, Lega, rappresentanza, territorio, il caso del Veneto, Nuova Fase, 4.2009

[7] A. Bonomi, Il rancore, alle radici del malessere del Nord, Feltrinelli, Milano 2008, Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi, Einaudi, Torino 2013

[8] Giorgio Lago, Analisi Socio-economica, in Convegno della Pastorale Sociale e del Lavoro del Triveneto, 2002 disponibile in rete all’url http://www.diocesipadova.it/s2ewdiocesipadova/allegati/1352/Glocalizzazione.pdf

[9] Daniele Marini, Fondazione Nord Est Rapporto sulla società e l’economia, Marsilio, Venezia 2013, pag. 13

[10] A.A. V.V Il facchino del Nordest, Marsilio, Venezia 2006, pag. 40

[11] A cura di Paolo Possamai, L’inguaribile riformista, Marsilio Venezia2007, pag. 119

[12] Paolo Giaretta, Luigi Viviani, lettera al Presidente del Consiglio Romano Prodi, ottobre 1996, archivio privato

[13]   I. Diamanti, Il male del Nord. Lega, localismo, secessione, Donzelli, Roma 1996, pag. 127

[14] P. Rumiz, La secessione leggera. Dove nasce la rabbia del profondo Nord, Feltrinelli, Milano 1997

[15] Poi divenuto legge 5 maggio 2009 n. 42 “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”

[16] Paolo Giaretta, Contributo al Seminario dei gruppi parlamentari PD sul federalismo, 2008, testo completo in https://www.paologiaretta.it/2014/02/per-un-federalismo-utile-allitalia/

[17] Sulle esperienze di associazionismo intercomunale nel Veneto si veda P. Messina, a cura di, L’associazionismo intercomunale, politiche ed interventi nelle regioni italiane: il caso del Veneto, Cleup, Padova 2009

[18] F. Jori, Venti anni lunghi due secoli, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Padova 2012, pag. 187

[19] G. Copiello, Manifesto per la metropoli del Nordest, Marsilio, Venezia 2007

[20] A.A.V.V., Il Veneto che amiamo, Edizioni dell’Asino, Roma 2009, pag.72

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