DALLA CRISI DELLA DEMOCRAZIA ALLE NUOVE VIE PER COSTRUIRE LO STATO SOCIALE

Pubblicato il 19 novembre 2015, da Cattolici e società,Relazioni e interventi

Prolusione al Corso del Gruppo di Impegno Socio Politico della parrocchia di Santa Croce di Bassano del Grappa

con Padre Francesco Occhetta di “Civiltà Cattolica” e Giandomenico Cortese, Bassano 17 novembre 2015

 

Il mio intervento sarà finalizzato a dare qualche argomento a sostegno dell’esattezza del titolo proposto. Non può esistere vera democrazia se essa non sa tradursi in un processo di miglioramento delle condizioni di libertà dei cittadini, di rispetto della dignità di ogni essere umano che si realizza attraverso l’approntamento di diritti sociali. E d’altra parte non può esserci un vero stato sociale se esso è frutto di concessioni da parte del potere e non di un ampliamento delle libertà e della possibilità di partecipazione del cittadino.

Possiamo intanto ricordare che la prima riflessione organica sul concetto di welfare state, o stato del benessere, o stato sociale, viene fatto in Inghilterra nel famoso rapporto di lord Beveridge. In cui si affermano concetti che avrebbero poi guidato l’elaborazione pratica delle politiche per lo stato sociale. Scriveva Lord Beveridge: “la sicurezza sociale copra ogni cittadino e non solo chi abbia lavoro regolare, si unifichino i fondi pubblici di sicurezza, per razionalizzarne l’uso e improntarlo ad equità, l’assistenza sanitaria spetti all’intera cittadinanza perché la salute è un diritto naturale, si attuino politiche attive del lavoro contro la disoccupazione, si calcoli il reddito minimo pro capite necessario e lo si assuma come livello di sussistenza nazionale, caricandone la fruizione generalizzata sul bilancio pubblico”. Come si vede concetti centrali anche per le decisioni di oggi. Ma ciò che è interessante è che Lord Beveridge riceve dal suo governo l’incarico di elaborare il suo rapporto nel 1942. L’Inghilterra è sotto lo schiaffo dei bombardamenti nazisti, minacciata di invasione. Eppure compare la lungimiranza della politica: per vincere la guerra non bastava la superiorità militare, raggiunta solo con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, serviva anche offrire al popolo una prospettiva, una speranza, le ragioni della libertà e dell’affermarsi di nuovi diritti.

Quando economia e politica sono in crisi

Possiamo anche apprendere un’altra cosa utile dalla storia. Cosa è successo quando una profonda crisi economica mina le ragioni della convivenza, aumenta l’insicurezza, vi è un radicale peggioramento delle condizioni di vita, crescono perciò le paure del futuro? La storia della prima metà del ‘900 ci offre due esempi, uno positivo ed uno radicalmente negativo. Negli Stati Uniti c’è la grande crisi del ’29. Una profonda depressione che crea milioni di disoccupati senza speranza di lavoro, milioni di contadini poveri restano senza mezzi di sussistenza, migliaia di imprese vanno al fallimento, i risparmi vengono falcidiati con il crack del sistema bancario. La risposta è una risposta di speranza. Il new deal di Roosevelt inventa strumenti nuovi, offre lavoro, protezioni sociali, investimenti per migliorare il paese. Nel suo discorso del primo insediamento si rivolge al popolo sfiduciato che però aveva investito su di lui: “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Si affida alla democrazia e vince la sfida. Nella Germania degli anni 20 la situazione è simile. Una guerra persa che ha portato al crollo del sistema economico, elevatissima disoccupazione, una micidiale inflazione, un sistema politico inefficiente, incapace di offrire soluzioni, dilaniato tra una concezione autoritaria e illusioni rivoluzionarie. Qui non vince la democrazia, con l’avvento al potere di Hitler vince la dittatura.

Il compromesso capitale/lavoro

Ma aveva ragione Roosevelt, aveva ragione Lord Beveridge, e dopo l’apocalisse della seconda guerra mondiale si afferma nella seconda metà del secolo scorso un processo generalizzato di crescita, che cammina su due gambe con un compromesso tra le ragioni della produzione e quelle dell’equità.

Quella del consolidarsi dei regimi democratici: partecipazione politica organizzata in grandi partiti di popolo, che rappresentano interessi, aspettative, valori, speranza per milioni di cittadini; sviluppo di una piena libertà del sindacato, suffragio universale (le donne votano in Italia per la prima volta nel 1946). Poi c’è la seconda gamba: un intenso sviluppo economico, basato su una economia di mercato, accompagnata però da un incremento costante dei salari, il diffondersi di un benessere crescente che consente l’affermarsi di consumi di massa, una crescita della ricchezza che appiana l’eccesso di diseguaglianza e consente di finanziare l’incremento delle sicurezze: pensioni, sanità, scuola, casa.GISP

Crisi di un’epoca, più che epoca di crisi

Quella fase felice si è esaurita. Più che attraversare una epoca di crisi dobbiamo fare i conti con la crisi di un’epoca. Molti nodi vengono al pettine contemporaneamente.

Semplicemente una nuova geopolitica,vi è in realtà una enorme redistribuzione degli equilibri mondiali.

Nel complesso il PIL dei paesi dell’area OCSE che rappresenta oggi il 54% del prodotto mondiale scenderà al 2050 al 30%. La maggior parte della domanda di lavoro sarà fuori dei paesi occidentali: al 2050 la popolazione in età lavorativa dai 15 ai 65 anni crescerà di 1,7 miliardi, per oltre 1 miliardo concentrato nei paesi emergenti.

Naturalmente questa redistribuzione è avvenuta conservando grandi squilibri redistribuivi all’interno delle singole economie emergenti, e tuttavia i risultati sono imponenti. In Cina si calcola che 600 milioni di cinesi siano usciti dalla povertà. Esiste ormai una classe di neo ricchi di almeno 50 milioni di persone ed una classe borghese di 150.000 di persone. Più di 40 milioni di studenti frequentano le università cinesi.

Anche l’Africa non è più solo il luogo della miseria assoluta. Restano situazioni subumane nella fascia sub sahariana, tra carestie, guerre tribali, malattie, sulla faglia di espansione di estremismo islamico che ha stroncato in parte la rivoluzione dei gelsomini, ma al Sud il Sudafrica sta realizzando performance importanti. Ormai si parla non più di Bric ma di Brics, aggiungendo appunto il Sudafrica al Brasile, Russia, India, Cina. Marocco e Tunisia stanno avendo sviluppi importanti, ecc.

Una economia del superfluo: il grande ciclo economico che abbiamo attraversato è certamente stato trainato da una economia che potremmo definire del superfluo. Consumismo veniva chiamato nell’Italia degli anni ’60 per descrivere il brusco passaggio da una economia contadina al miracolo economico, con l’accesso anche delle fasce più popolari a consumi prima riservati alle fasce più ricche: dall’auto agli elettrodomestici. Consumi derivanti da un innalzamento dei salari e ad un incremento della produttività. “Consumo, dunque sono” si intitola un fortunato saggio di Bauman che descrive il passaggio dalla “società dei produttori” alla “società dei consumatori”, il cui valore supremo è il diritto-obbligo alla “ricerca della felicità”, una felicità istantanea e perpetua che non deriva tanto dalla soddisfazione dei desideri quanto dalla loro quantità e intensità. Eppure, dice Bauman, rispetto ai nostri antenati noi non siamo più felici: più alienati semmai, isolati, spesso vessati, prosciugati da vite frenetiche e vuote, costretti a prendere parte a una competizione grottesca per la visibilità e lo status, in una società che vive per il consumo e trasforma tutto in merce.

Una seconda caratteristica è una economia basata sul debito. Si scommette sul futuro, attualizzando ogni valore, comprando a debito. Si scommette su tutto, anche sul valore futuro dei beni alimentari, generando fluttuazione dei prezzi che portano drammatiche conseguenze per i piccoli coltivatori e crisi alimentari non governate. Cresce il debito degli stati, accresciuto da politiche fiscali competitive tra gli stati e da scelte delocalizzative verso paesi a bassa pressione fiscale.

Infine una economia senza regole. O una economia dell’indebolimento delle regole. Poteri statuali più deboli, poteri sovra statuali troppo deboli non sono stati in grado di offrire una adeguata cornice normativa alla globalizzazione. I principi di etica pubblica sono stati travolti da una corrente di avidità, di pretesa di ritorni immediati. Economia globalizzata e finanziarizzata, politica ferma agli stati nazionali.

Storture che hanno portato ad un eccesso di diseguaglianza. Tutte le statistiche sulla distribuzione del reddito registrano un impoverimento delle classi medie. La quota di reddito detenuta dal’1% più ricco della popolazione statunitense è salito al 23,5% del totale, rispetto al 10% degli anni ’70. Ed è interessante rilevare che siamo alla stessa concentrazione che aveva il reddito negli anni precedenti il crollo del 1929: l’eccessiva concentrazione della ricchezza e l’impoverimento dei ceti medi rende insostenibile il sistema economico. Negli Stati Uniti il compenso medio dei top manager è divenuto pari a 150 volte il salario operaio, mentre 20 anni fa era 25 volte il salario operaio. In 30 anni le quote di salario sul PIL nella media dei paesi OCSE sono calate di 9 punti. Anche in Italia gli studi della Banca d’Italia registrano un crescere delle diseguaglianze: chi è ricco diventa più ricco, chi è povero non riesce più a trovare ascensori sociali che diano opportunità di migliorare le proprie condizioni.

Il 20% più ricco delle famiglie italiane detiene il 60% della ricchezza, il 40% più povero solo 5%

Sono caratteristiche dello sviluppo recente che hanno fatto emergere tre insostenibilità:

una insostenibilità sociale: diseguaglianza eccessive e mancanza di lavoro, anche nella ricca Europa, tra il 2008 e il 2013 l’UE ha registrato la perdita di 38 milioni di posti di lavoro. Una insostenibilità ambientale, uno sviluppo che consuma risorse o non riproducibili o le consuma con un ritmo più veloce di quello della loro ricostituzione; un altro modo per consumare futuro. Una insostenibilità finanziaria. Una economia di carta che sostituisce quella reale. Tanto per fare un esempio tra il 1995 ed il 2000, gli anni ruggenti della new economy l’indice Down Jones, l’indice azionario della Borsa di New York registra un incremento di valore di 4 volte, ma l’economia reale calcolata dal PIL cresce solo del 30%.

Democrazia senza popolo?

E la democrazia? Anch’essa con sintomi di crisi. Si usano tanti termini: post democrazia, democrazia liquida, oltre la democrazia, contro democrazia. La domanda fondamentale che si pone è questa: può esistere democrazia senza popolo? Perché questo è quello che sta succedendo. Forse sazietà delle forme democratiche per chi ne ha usufruito per lungo tempo. Si può essere commossi nel vedere le lunghe file ai seggi in Tunisia piuttosto che in Myanmar: un bene conquistato da utilizzare. In Europa, sovente, un bene considerato inutile da una parte crescente di cittadini. Perciò scarsa partecipazione al voto, disinteresse e sfiducia per partiti e sindacati, bassa reputazione delle istituzioni. Semmai tendenze ad una democrazia plebiscitaria. Affidarsi superficialmente a leader, cosicché entrano in campo persone leaderistiche piuttosto che programmi ragionati, ci si affida ad emozioni piuttosto che ad una valutazione degli interessi. Ci si deve muovere dentro una grande nuvola comunicativa. Internet e social offrono una possibilità più elevata del passato di farsi delle opinioni. Ma c’è una enorme quantità e scarsa qualità. Il falso ed il vero convivono senza una gerarchia distintiva.

La necessità di un pensiero capace di collegare

E’ evidente che non basta fermarsi all’analisi. Bisognerebbe essere capaci di mettere in campo modelli alternativi. Non sono mancati nuovi indirizzi a livello di singoli stati o a livello dei regolatori sovranazionali. Pensiamo all’azione della Banca Europea di Mario Draghi. Però troppo poco. D’altra parte politica indebolita da poteri sovranazionali (economia, finanza, media) che si sono affermati e perciò senza la necessaria forza. Per affrontare il necessario cambiamento potremmo farci ispirare da quanto hanno detto due personalità del passato. La prima è Paolo VI che nell’enciclica Populorum Progressio ad un certo punto dice: “Il mondo soffre per una mancanza di pensiero”. L’altra è ancora Franklin Delano Roosevelt che nel discorso di accettazione della candidatura dice: “Per raggiungere il porto si deve navigare. Navigare, non gettare l’ancora: Navigare, non andare alla deriva”. Per non andare alla deriva, portati dalle correnti spontanee occorre avere una idea chiara della rotta, cioè quel pensiero che indicava Paolo VI. La politica sembra avere abbandonato questo compito fondamentale. Le ideologie sono declinate sotto l’immobilismo generato da un eccesso di schematismo, ma ora il pendolo si è spostato dalla parte opposta: un pragmatismo senza radici.IMG_3357

Bisogna invece che la politica riscopra la necessità di un pensiero organizzato che guidi l’azione. E’ un dovere a cui la politica sembra sottrarsi. Siamo qui in un ambiente parrocchiale e mi sembra giusto ricordare che la Dottrina sociale della Chiesa a sempre cercato di misurarsi con questo tema, cercando di elaborare un pensiero capace di riunificare le diverse sorgenti della convivenza: i processi economici, quelli politici e sociali, la domanda di senso della vita a cui dare risposta. Spesso si è dato un ritratto superficiale di questa elaborazione. Eppure se noi mettiamo in fila i documenti più rilevanti spesso ci accorgiamo che il pensiero della dottrina sociale ha accettato di misurarsi con la modernità ed è stato capace di anticipare i tempi. Così Leone XIII nel 1891 affronta la questione sociale con l’enciclica “Rerum Novarum”. Forse con una imperfetta elaborazione delle risposte ma con giudizi nettissimi e radicali: “…avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli ed indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male una usura divoratrice …a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile”. Colpisce la nettezza del giudizio (se pensiamo all’epoca in cui fu scritto) e anche la sua straordinaria attualità: non è forse ancora oggi che vediamo il crescere degli squilibri sociali, con la formazione di una casta di super ricchi, che l’avidità e la cupidigia della speculazione globale ha distrutto enormi ricchezze, che la precarietà del rapporto di lavoro e l’esiguità del suo contenuto economico tolgono futuro ad intere generazioni di giovani?

Giovanni XXIII nel 1963 con la “Pacem in Terris” risponde al rischio della guerra nucleare. Paolo VI nel 1967 con la “Populorum Progressio” affronta con almeno venti anni di anticipo il tema della globalizzazione affermando che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Giovanni Paolo II nel 1981 con la “Laborem Exercens” pone il tema della deviazione capitalistica che deprezza dignità e contenuto economico del lavoro. Benedetto XVI nel 2009 con la “Caritas in Veritate” indica risposte da dare ai temi posti dalla globalizzazione:non risposte ex post ma una diversa organizzazione dell’impresa, del lavoro, dei rapporti sociali. Infine Francesco con la “Laudato si” offre una lettura per una ecologia integrale, ben oltre certe superficialità ambientaliste, prigioniere di una lettura settoriale dei fenomeni.

Fare i conti per un nuovo stato sociale

Alla luce di queste indicazioni come rintracciare nuove vie per lo stato sociale, come chiede il titolo di questa serata?

Navigare, diceva Roosevelt, perciò fare i conti con la nuova realtà, un mare diverso da quello conosciuto.

Perciò fare i conti con alcuni mutamenti strutturali.

Intanto la demografia. Prendiamo i dati del Veneto: tra il 2001 ed il 2011 il peso della classe si età tra i 25 e i 29 anni si è ridotto del 23%. Quello della classe tra i 30 ed i 34 del 17%. Quello degli ultraottantenni è aumentata del 48%. Persino gli ultracentenari, che fino a poco fa erano oggetto di qualche trafiletto sui quotidiani locali incomincia ad aver e una significanza statistica. In Italia sono 16.000, nel Veneto 1.605. E’ un paradosso, ma è la classe demografica più dinamica. Così abbiamo per ogni bambino 3,8 anziani. 40 anni fa avevamo un bambino ed un anziano.

La globalizzazione che richiede un adeguamento delle strutture del welfare, a cominciare dal dramma dei profughi che durerà nel tempo, ma anche di flussi migratori che portano popolazione più giovane e con più elevati indici riproduttivi, riequilibrando la malandata piramide demografica della vecchia Europa. E a proposito di globalizzazione ci dirà qualcosa il fatto che gli assassini di Parigi si sono formati in Siria, hanno avuto la base organizzativa in Belgio e hanno commesso gli attentati in Francia. Anche qui: crimine globale ed inadeguatezza degli Stati rimasti nazionali.

Nuove povertà che si affacciano, con un impoverimento di quelli che una volta erano chiamati i ceti medi, ma insieme l’emergere anche di povertà non materiali: la perdita di senso della vita, dei riferimenti valoriali, con un enorme aumento delle dipendenze: psicofarmaci, droghe, alcool, ludopatia, ecc.

Infine il tema delle risorse. L’accentuata concorrenza fiscale tra gli Stati tende a deprimerne la capacità impositiva, una parte della ricchezza deve andare a ripianare debiti contratti negli anni precedenti. Bisogna affrontare una analisi rigorosa: quali sono le priorità e come rendiamo più efficienti ed efficaci gli interventi riuscendo a dare le stesse sicurezze ma spendendo meno?

Il Welfare generativo

Se appare ancora mancante una ridefinizione globale del welfare frutto dell’elaborazione di un pensiero complessivo sono in corso tuttavia elaborazioni teoriche e sperimentazioni pratiche che possono aprire strade nuove. Ad esempio la padovana Fondazione Zancan, fondata da quel grande prete che fu Giovanni Nervo, fondatore della Caritas italiana, sta lavorando da tempo sul concetto di welfare generativo. Semplificando si tratta di passare dal modello tradizionale caratterizzato da due R (raccogliere attraverso la leva fiscale i fondi e redistribuirli con erogazioni monetarie) ad un modello a cui si aggiungono altre tre R: rigenerare, rendere e responsabilizzare. Sul sito della Fondazione si trovano approfondimenti ed esempi di questa nuova strada. L’esempio classico può essere quello delle erogazioni a sostegno dei senza lavoro. Erogazioni che possono essere rese, dando in cambio lavoro sociale, responsabilizzate e rigenerate anche attraverso l’impegno alla partecipazioni di corsi ed esperienze che riqualifichino capacità lavorative, coprendo domanda di lavoro diverso.

Coltivare la speranza, contro il pessimismo

Il percorso formativo 2015-2016 lo avete dedicato al tema della “ricerca di una nuova speranza”. Formulazione significativa e concludo perciò ricordando le parole di un politico ispirato e capace di ispirare della prima Repubblica, Benigno Zaccagnini (1913 – 1989), Ministro in più occasioni, Segretario Nazionale della Democrazia Cristiana, cui toccò in sorte di gestire le drammatiche vicende dell’assassinio da parte delle Brigate Rosse di Aldo Moro, di cui era intimo amico: “la politica ha un suo compito, far sì che sia ragionevole continuare a coltivare la speranza”. In un paese caratterizzato in modo troppo diffuso da un impotente pessimismo sono parole che val la pena di ricordare.

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