Mettiamo energia nel PD: un PD 2.0

Pubblicato il 4 novembre 2015, da Pd e dintorni

Il PD vicentino sta facendo un percorso molto interessante verso il Congresso provinciale. Stanno lavorando 4 gruppi di lavoro su quest 4 temi: la forma partito, il partito e la società civile, il partito veneto e la sua identità, rapporto tra centro e periferia. Ogni gruppo di lavoro è coordinato da un team leader che guida i diversi incontri. Il processo si concluderà il 14 novembre con il vicesegretario nazionale Lorenzo Guerini. Un modo concreto per evitare che i congressi si riducano alla scelta di un nome, un esempio da imitare. Grazie al Segretario provinciale Pietro Menegozzo ed in particolare ai bravi team ledar Andrea Vezzaro, Maurizio Scalabrin, Luca Mocellin e Enrico Bruttomesso. Riporto qui il mio intervento a Schio, un po’ allargato ed integrato con le cose che avevo presentato a Praglia.

Intervento all’incontro del PD vicentino sul tema “La forma partito, la sua organizzazione, i circoli, il rapporto con gli amministratori”

Schio, 2 novembre 2015

 Partito è stata una parola importante nel passato. Organizzatore fondamentale della rinascita alla Democrazia del nostro paese. Una parola che si pronunciava con rispetto, la si scriveva con la P maiuscola. Agli inizi della mia attività politica nel partito allora largamente maggioritario nel Veneto, la Democrazia Cristiana, capitava che mi chiamasse il Dirigente organizzativo e mi dicesse. “Il Ministro Gui la prega di parlare a nome del partito ai giovani di…”. Mi intimidiva un poco parlare a nome del partito. Bisognava sapere cosa pensasse il partito sull’argomento e questo obbligava ad informarsi, a studiare i documenti, a ricordarsi che non si parlava a titolo personale ma in rappresentanza di una impresa collettiva. Ho ritrovato un resoconto della attività della Democrazia Cristiana padovana nella fine degli anni ’60, quando mi sono iscritto al partito. In un biennio si tennero 1208 iniziative sul territorio, di cui 380 dedicate a temi politici, 373 a temi amministrativi, 455 a questioni organizzative. Più di dieci iniziative a settimana. Non diversa era l’esperienza di altri partiti di popolo. Espressione di una idea di partito come luogo in cui si viveva un ideale, si organizzavano interessi diffusi, una esperienza che comunque attraversava la vita. Questi partiti non potrebbero più esistere, perché è profondamente cambiata la sa organizzazione della società.pdvi

Quattro vizi capitali

Nell’immaginare come costruire un partito per la contemporaneità (chiamiamolo Partito Democratico 2.0) dobbiamo guardarci da 4 vizi capitali che sono alquanto diffusi e che ci impediscono di guardare con efficacia al futuro.

Il pessimismo: un sentimento che, specie dopo sconfitte come quelle che abbiamo subito in Veneto, paralizza il pensiero e l’iniziativa. In politica il pessimismo non è permesso, perché il compito comunque è di organizzare le risorse che ci sono, farle esprimere, pensare che la parola, l’esempio, l’iniziativa sono strumenti che comunque possono lasciare il segno, aprirci a nuove prospettive. Chi non ha fiducia nelle proprie idee si dedichi ad altro.

La nostalgia: avere lo sguardo rivolto all’indietro, pensando di poter ricreare condizioni che non ci sono più. Grandi partiti nati in una società diversa. Per chi ha avuto la fortuna di vivere quella stagione, dentro grandi comunità politiche, con leadership forti ed ispirate, in cui passione e dedizione muovevano cuori e menti, è legittimo serbare un ricordo grato, che va oltre anche i giudizi critici che possono accompagnare l’esame storico di quelle vicende. Ma la nostalgia rischia di essere una lente oscurante che non fa vedere il futuro, una sorta di specchietto retrovisore. E’ una tentazione da respingere.

La dittatura del presente: pensare che prima di noi non ci sia stato nulla che valga la pena di portare con sé. Che con noi inizia una nuova storia, che quella passata può essere ignorata o trascurata. Ma la storia ha persistenze di cui bisogna tener conto, conoscere la storia significa essere aiutati a non ripetere gli stessi errori, conoscere le generosità e le ambizioni del passato aiuta a dare una giusta e misurata collocazione alle nostre.

Non fare nulla, questo è il vizio più grave, che può essere anche una sintesi dei precedenti. Essere annichiliti dalla dimensione di una sconfitta o dalle difficoltà inedite (o ritenute tali) da affrontare. Mi sembra francamente che sia quello che sta succedendo al PD veneto. Una grande sconfitta cui non segue alcuna significativa iniziativa. Le dimissioni della segreteria dovevano essere e potevano essere lo strumento per avviare un processo di progettazione del futuro che portasse ad un congresso diverso da quelli passati. Per il momento mi sembra che sia si siano semplicemente ridotte al fatto che se prima si faceva poco adesso non si fa più nulla.

Fare i conti con la società

Dobbiamo partire da questo punto. Società nuova richiede strumenti nuovi. Lo sa bene chi si occupa dei profili dei consumatori, che lavora nel marketing. Oggi è il consumatore che crea il prodotto, piuttosto che il contrario. Qualcosa dobbiamo imparare anche noi. Stiamo troppo a guardarci l’ombelico. Man mano che si sale nella scala verso il vertice si rischia di addentraci in dibattiti molto referenziali o strumentali agli assetti di potere all’interno del partito.

Non è questa la sede di una analisi sulle nuove forme sociali, ma posso richiamare alcuni aspetti che influiscono particolarmente nel rapporto con la proposta politica.

Bauman parla da tempo di una “società liquida” sempre mutevole e con riferimenti cangianti. Si parla di una “società disintermediata” in cui il cittadino tende ad avere un rapporto diretto senza mediazioni. Che si tratti della politica, con l’affermarsi di modelli di tipo leaderistico o semplicemente delle scelte di consumo: vado su Amazon, confronto un ampio ventaglio di proposte, scelgo direttamente senza il consiglio (almeno apparentemente) del commesso, magari utilizzo la valutazione degli altri compratori, poi esprimo il mio gradimento, che diventa un modo di orientare il mercato. Si parla di una società senza rappresentanza: ben nota la crisi della rappresentanza partitica ma non diversamente in crisi quella offerta dal sindacato, o dalle associazioni di categoria economiche; prevale un impegno a tempo su singoli interessi piuttosto che un rapporto di fiducia nella rappresentanza, che dura nel tempo. La società si articola in un pluralismo indifferenziato senza un senso di appartenenza come poteva esserci nel passato: l’idea di appartenere ad una determinata classe, con interessi in comune. Un relativismo di principi orientativi: ognuno faccia come vuole. Di conseguenza un forte spaesamento, la perdita di riferimenti solidi attorno a cui organizzare le proprie scelte. Una società in cui sono molto più deboli le “agenzie di senso” che in passato aiutavano l’orientamento. Pensiamo in campi diversi al ruolo della Chiesa Cattolica, o a quello della fabbrica, come luogo di educazione al lavoro, di coscienza di sé, o alla stessa famiglia, che assume forme molto diverse dal passato, più flessibili e transeunti. Nel Veneto il 50% dei matrimoni sono matrimoni civili, i bambini per il 31% nascono fuori da matrimoni tradizionali, ecc.

Tutto questo dentro una nuvola comunicativa che ci raggiunge incessantemente, in cui navigano notizie vere e notizie assolutamente false ma con lo stesso valore di verità, senza strumenti di verifica di affidabilità.

In questo viaggio nel cambiamento sociale possiamo usare tre letture simboliche che sono state usate da più di qualche sociologo nel descrivere la società veneta del passato.

Negli anni ’50 si parlava della società delle tre C: il campanile come segno identitario di credenze e riferimenti sociali, la comunità locale come luogo che esauriva gran parte delle relazioni che arricchivano la vita, il capannone come segno di un riscatto di un Veneto povero ed emarginato che si avviava al miracolo economico.

Negli anni ’60 si parlava della società delle tre M: il mestiere come strumento principale di costruzione del proprio futuro, saper lavorare bene, con competenza, con le mani e con il cervello, la macchina (o la moto) come segno di affermazione e di indipendenza, il matrimonio, come orizzonte del proprio futuro: farsi una famiglia, avere dei figli, la casa in proprietà.

E oggi? Possiamo parlare di ritorno a una società delle tre C: una crisi economica e sociale, in cui il mito di una crescita indefinita impallidisce insieme a quello che la crescita avrebbe attenuato le diseguaglianze sociali, le emarginazioni. Una crisi demografica di cui si parla poco, ma che conterà molto nella formazione della società futura: in Veneto 1,3 figli per coppia. Rispetto ai 2,7 del 1964. Tra il 2001-2011 la classe di età 25-29 anni segna un -23%, la classe 30-34 un -17%. Quella degli ultraottantenni un + 48%. Perfino i centenari incominciano a diventare significativi dal punto di vista statistico! Una crisi di senso: quale senso dare alla propria vita, che si manifesta anche con l’aumento vertiginoso delle dipendenze, dell’uso di psicofarmaci, dell’affermarsi della depressione come malattia della contemporaneità.

Ricordiamoci però che la parola crisi a cui associamo un significato negativo contiene dentro di sé, secondo l’etimologia greca, anche una tensione positiva: Krisis significa anche comprensione, giudizio, e dalla crisi nascono nuove opportunità, se lavoriamo per coglierle.

Il che fare

Dopo questa rilevante sconfitta, con la specificità del contesto veneto, si pone naturalmente l’eterna domanda di chi vuole assumere una iniziativa politica: “Che fare?”, la stessa domanda che all’inizio del ‘900 si poneva Lenin nel suo fortunato saggio “Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento”. Domanda appropriata anche nel sottotitolo.

Che iniziativa possiamo assumere, come possiamo trovare una forma partito in un ambiente che è talvolta ostile o disinteressato a priori? Riutilizzo qui il materiale che ho usato anche per il convegno di Praglia sulla rigenerazione del PD.

Si è molto discusso sulla forma partito, evocando diverse definizioni: partito pesante, partito leggero (come se ci potesse essere un partito “pesante” in una società leggera e mobile), partito casa, in cui c’è una porta d’entrata e chi detiene le chiavi del portone, oppure partito tenda, inteso come uno spazio aperto, in cui entra chi è interessato, con minore senso di appartenenza. Partito nazione, che vuole parlare a opinioni pubbliche più mobili a 360 gradi o partito della sinistra, che sceglie un campo (ma poi bisogna vedere come si coniuga sinistra nella contemporaneità), ecc. Ci sono poi le suggestioni dei partiti aperti al civismo, le potenzialità dei partiti appoggiati ai social, qui in Veneto la tentazione ricorrente dei partiti territoriali.

Mi sembra tuttavia che più che una ricerca solida e curiosa si siano utilizzate queste diverse formule per un dibattito tutto ideologico e poco produttivo.

Invece bisogna saper produrre, a partire da due polarità che dobbiamo avere presenti.

La prima è volersi misurare con la modernità, prendendo atto della società come è fatta. Quando ho iniziato ad interessarmi di politica la politica era parte importante della vita. Era un pezzo dell’esperienza umana. Anzi nella stagione del ’68 tutto diventava politica. E lo strumento principe di chi ad un certo punto sentiva il bisogno di occuparsi della cosa pubblica era il partito. Non c’erano altre forme di partecipazione. Anche le organizzazioni sociali, a partire dal Sindacato, erano propedeutiche all’impegno nel partito, lì si andava a finire. Non a caso si parlava per la Democrazia Cristiana di collateralismo, organizzazioni sociali, cattoliche, di rappresentanza di interessi che poi facevano confluire voti e militanti nel partito, per il Partito Comunista della CGIL come cinghia di trasmissione al partito di interessi, militanza, voti. I partiti di massa finivano per svolgere anche una educazione all’avvio alla politica.

Oggi ovviamente non è più così. Sono maturate molte altre forme di partecipazione civile, su temi specifici, in cui si impegnano tante energie che in altri tempi avrebbero trovato naturale l’esperienza nei partiti che, purtroppo, hanno un indice di gradimento  che si sta avvicinando pericolosamente allo zero. Motivo non ultimo comunque della precarietà della vita istituzionale. Pretendere di applicare a questa società le vecchie forme partito, perché si è sempre fatto così, è veramente  poco lungimirante. Ed allora se riflettiamo su questi mutamenti dovremmo capire che partito leggero non significa assenza del partito, ma un partito più adatto ad una società plurale e che partito tenda non significa un luogo indifferenziato ma il tentativo di rispondere ad una domanda sociale non è più e non sarà più fatto di militanza di massa e militanza a vita.

D’altra parte però occorre tenere presente un’altra polarità che nel dibattito attuale mi sembra molto trascurata. La militanza politica è un fatto volontario, per quasi tutti. E il partito deve essere un luogo in cui ci si trova bene. In cui ci possono essere idee diverse ma si viene comunque rispettati. Per chi non ha avuto militanze politiche precedenti o anche per chi le ha avuto in partiti in cui l’organizzazione non era molto gerarchica e professionalizzata può essere semplice accettare forme nuove di militanza. Per chi era abituato ad un partito più strutturato è più difficile. Ora chi ha ambizioni di carriera e vede la militanza come promozione personale è facile che resti comunque. Chi lo vive come un fatto puramente volontario se non si sente a casa propria se ne va. Perdere militanza inutilmente è sempre sbagliato. Occorre saper cambiare portando con sé tutta la ricchezza che si ha. Convincendo più che respingendo, con la vecchie e dannosissima idea: meglio pochi ma della mia stessa idea.

Si possono trovare molte formule, ma la sostanza è una sola: il partito nuovo è più difficile da farsi di quello adatto ad una società tradizionale. Richiede più impegno e non meno impegno. Perché si tratta di costruire un luogo che appaia interessante. Non una convivenza pigra, noiosa e risaputa, ma un luogo a cui rivolgersi per essere aiutati a comprendere, per avere indicazioni da portare in altri luoghi. In cui si sia capace di far convivere passione e ragionamento. Occorre che il partito sia un luogo utile, da dove si può portare via qualcosa anche se non vi si milita in modo permanente. A cui si può dare qualcosa essendo ascoltati. Condivido quanto ha scritto recentemente Walter Veltroni sull’Unità: “Io credo nel valore dei partiti, anche nella società post-ideologica. Anzi ancora di più. Quando si allenta il vincolo ideologico che comunque costituisce un recinto dal quale è difficile uscire ed entrare, si devono rendere più forti quelli valoriali, culturali, politici…I partiti non sono piramidi che in ogni caso hanno bisogno delle fondamenta per stare in piedi. Sono fiumi, che hanno un senso perché non stanno mai fermi, perché si alimentano di acque sempre nuove, perché cambiano il mare nel quale confluiscono”.

In ogni caso la vera novità è questa: i partiti hanno perso il monopolio della rappresentanza politica. Si può essere e contare nel dibattito sulla cosa pubblica senza passare per la porta dei partiti. E’ diventato un mercato aperto. Occorre che i partiti sappiano offrire un prodotto che serve, che piace, che appare utile nella vita di una persona. Perché esistono altri canali di partecipazione politica, di protagonismi nella rappresentanza degli interessi, di testimonianze civili.

Stare sul mercato con una offerta attrattiva

I compiti di un partito sono oggi meno invasivi del passato, ma non meno importanti. E io penso che al Partito Democratico (in fondo l’unico partito italiano che abbia una parentela organizzativa con i partiti del passato) dobbiamo guardare non come una sopravvivenza ma come una anticipazione del futuro. Una nuova declinazione ed attuazione dell’art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Cosa possiamo dunque offrire al mercato aperto e concorrenziale della partecipazione politica?

Io vedo quattro prodotti fondamentali.

Il primo è saper offrire una storia che aiuti le persone a dare un senso a quello che accade. E’ qualcosa di più di un progetto o di un programma. E’ una storia che si nutre anche di emozioni, che sono una componente essenziale dell’appartenenza politica, che bisogna imparare a maneggiare senza scadere nel populismo. Una storia che non avrà più la rigidità di una ideologia ma che offre sicurezza e comprensione. E’ il lavoro tipico del partito, la visione generale delle cose, mentre altre forme partecipative so concentrano su aspetti di settore: possa saper tutto di ciò che occorre fare per la difesa di specie in estinzione, o per il sostegno a certe disabilità, ma poi manca la visione generale.

Il secondo è offrire accesso a competenze. E’ il grande ruolo della formazione politica che purtroppo i partiti hanno pressoché abbandonato ed invece è strumento necessario per una cittadinanza piena: lenti di lettura e di valutazione, addestramento ad essere cittadini competenti e capaci di orientarsi nel mare dell’offerta politica istituzionale.

Il terzo è l’offerta di partecipazione alla selezione dei rappresentanti, nelle forme tradizionali di selezione delle candidature da parte degli iscritti, fino all’innovazione offerta dal Partito Democratico con lo svolgimento delle primarie.

Infine l’offerta di una comunità riconoscibile in cui vi sono valori in comune capaci di alimentare non solo il voto al momento necessario ma anche amicizie, solidali esperienze, ecc. E’ la parte migliore delle esperienze dei vecchi partiti che può essere trasmessa al Partito 2.0: sono le feste popolari, la Festa del Socio, la gita insieme, ecc.

Tre fragilità da correggere

E per il nostro Veneto? Individuo anche alla luce dell’esperienza delle elezioni regionali questi tre punti generali di debolezza che dobbiamo cercare di correggere.

Il primo è il rapporto tra il PD veneto e la società veneta. Un rapporto troppo fragile, più fragile del rapporto che avevano i partiti fondatori del PD. E’ naturalmente passato del tempo dal 2007 e i paragoni non hanno più molto senso ma la divisione del lavoro tra Margherita e DS in particolare portava ad un rapporto più intenso con la società: un riferimento forte alla sinistra tradizionale con le sue articolazioni sociali da parte dei DS, una presa robusta in ceti e ambienti estranei alla storia della sinistra ma interessati a disegni riformatori da parte della Margherita. Dovremmo dire che la fusione invece di rafforzare il rapporto con la società veneta l’ha indebolito. Non perché fosse sbagliato il disegno ma perché non è stato fatto il lavoro conseguente.

La seconda riguarda il tema dell’identità. Tema esistente anche a livello nazionale, per il momento coperto dalla forte leadership renziana. Nel Veneto però con una particolare accentuazione, derivante dalla sua specifica storia politica, da atteggiamenti elettorali che hanno una persistenza profonda, nonostante i mutamenti del sistema politico. Basta rileggere gli studi di Diamanti, Riccamboni, Almagisti. Una parte importante (e decisiva) dell’elettorato veneto non capisce che razza di cosa sia il nostro partito e tende a riferirlo ad un partito di sinistra tout court, diretto erede dei comunisti e perciò per alcuni da non prendere neppure in considerazione. Una esclusione a priori. Per altri, ed in modo accentuato dopo il cambiamento di verso renziano, un partito che ha rinnegato valori e identità, spostandosi al centro. Una estraneità che viene superata, a parte l’episodio della penetrazione alle europee, solo con la mediazione di figure con reputazione locale che spesso conquistano comuni difficili solo sulla base di una propria capacità di leadership, sottolineando gli aspetti del civismo piuttosto che quelli dell’appartenenza identitaria al PD.

Il terzo è la mancanza di una efficace politica delle alleanze. Anche per mancanza di interlocutori affidabili con cui riuscire ad allargare l’area del potenziale consenso. Così si fanno alleanze che appaiono agli elettori contraddittorie e poi non credibili alla prova del governo. A Padova ad esempio uno dei motivi della sconfitta è stato che è difficile essere attrattivi se durante le primarie i futuri alleati hanno lavorato solo per dare una immagine tutta negativa del governo di centrosinistra. Come potevano pensare gli elettori che, essendo così critico e diversificato il giudizio sul passato, si potesse poi governare credibilmente? A Venezia con una conduzione della campagna elettorale del candidato sindaco che lasciva prevedere una conduzione della città che lasciava estranei pezzi importanti di elettorato necessario per vincere.

Quattro progetti da sviluppare

Il primo ed il più importante è una lavoro in profondità per ridefinire l’identità del partito veneto. La nostra interpretazione della società veneta. Le politiche che indichiamo per costruire il futuro. Appunto: il racconto coerente di una storia, capace di suscitare passione, appartenenza, emozione. Un racconto, non un documento programmatico per gli addetti ai lavori, da mettere nel cassetto. Non si può essere attrattivi se ci presentiamo come un partito arlecchino. In cui coesistono linguaggi diversi ed opposti. In cui ad affermazioni di carattere generale non seguono proposte operative meditate ed approfondite. In cui ci si aggrappa più al passato che al futuro. Un programma politico non è un elenco di politiche possibili ma una narrazione del proprio territorio, delle sue potenzialità, delle alleanze sociali, un criterio interpretativo. A maggior ragione in una epoca come questa di profondi cambiamenti che portano con sé paure, incertezze, domande di rassicurazione. La Lega lo fa in un modo, sostanzialmente la chiusura,  noi dobbiamo essere capace di farlo investendo sull’apertura, che poi è stata la caratteristica nei secoli del Veneto vincente. Noi dobbiamo offrire una narrazione più convincente, in sé logica, convincere che un’altra storia è possibile per il nostro Veneto

Lo dobbiamo fare e soprattutto lo possiamo fare. Perché ci sono rilevanti energie creative nei nostri mondi. Tantissima gente che vota per noi che nelle Università, nei luoghi associativi, nel mondo del lavoro, delle professioni, della ricerca sta pensando al Veneto del domani. Non solo nomi ben conosciuti, ma giovani ricercatori, professionisti, tecnici che avrebbero molto da insegnarci.

Bisogna crederci, investire in queste capacità, non limitarsi a chiamarli a qualche convegno per poi dimenticarsene. Farli protagonisti di una nuova narrazione del Veneto che la politica sappia poi assumere e trasformare in azione. Farlo con un grande lavoro di raccolta e di semina sul territorio e con il territorio.

Il secondo è il grande tema della formazione politica. Partiti più leggeri, meno esclusivi, meno attrattivi. E’ la realtà. Però restano cose importanti che i partiti, come comunità di idee ed esperienze possono fare meglio di altri. La formazione è una di queste. Offrire ai cittadini ed ai propri dirigenti e militanti chiavi interpretative della realtà che vivono. Se è meno forte il fatto identitario, il cemento ideologico vale ancora di più la capacità di trasmettere saperi, far apprendere tecniche per essere attori della propria comunità. Anche in questo caso non iniziative episodiche ma un vero è propri progetto che cammina nel tempo, la convinzione dei dirigenti di vertice che il futuro si costruisce formando militanti e dirigenti, riconoscendo il merito, segnalando che dimostra di avere attitudine più spiccata. L’esperienza della Scuola Veneta di Politica dimostra che abbiamo una ricca capacità attrattiva se proponiamo percorsi culturalmente affascinanti, formatori capaci di suscitare curiosità e di aprire a nuove visioni. Sono investimenti che ritornano moltiplicati, in maggiore coesione nella visione comune, in individualità che arricchiscono le capacità di crescita del partito, di innovazione nelle istituzioni. In quattro edizioni la Scuola Veneta di Politica ha offerto percorsi formativi a circa 500 persone. Un parte hanno per questa via trovato lo stimolo a passare ad una militanza attiva, a divenire amministratore locale. Se l’esperienza della Scuola fosse proseguita con continuità avremmo avuto in questi anni qualche migliaio di persone formate ed educate. E’ una esperienza da riprendere con decisione.

Abbiamo poi delle risorse latenti, che altri partiti non hanno o hanno in misura minore che devono essere sviluppate e valorizzate, estraendone tutte le potenzialità

La rete dei nostri circoli. Si sta molto deteriorando. Rispetto al periodo in cui ho fatto il Segretario Regionale al momento della fondazione del partito è una rete che si è rinsecchita, come numero, come attività, come iscritti. Perché non c’è cura. Però è una risorsa preziosa. Solo che non si può a loro stessi, senza una pianificazione dell’attività, senza fornitura di strumenti e risorsi, senza formazione: come si sta in una comunità, come si comunica, quali sono i mondi vitali in cui entrare. Occorre sviluppare un Progetto Circoli: campagne tematiche con materiali adeguati, formazione dei dirigenti, progetti culturali di animazione del territorio, utilizzo scientifico dei social, ecc., valorizzando le migliori pratiche. Altrimenti questa risorsa rapidamente scomparirà e sarebbe una grave perdita.

La rete dei nostri amministratori locali. E’ una rete ancora ricca e competitiva. Amministratori che sono capaci di vincere in territori politicamente ostili, mettendo in campo la personale reputazione, la capacità di entrare in sintonia con l’elettorato, la capacità di aggregare. I sindaci ed in genere gli amministratori sono occupati a tempo pressoché pieno a servizio del proprio territorio ed è difficile incrociare l’attività amministrativa con i tempi e i modi della vita del partito. Ma anche qui occorre sviluppare un progetto specifico per la valorizzazione di questa risorsa perché gli amministratori restano i nostri sensori più vitali nel territorio. E anche se spesso per vincere i nostri Sindaci devono sminuire la loro appartenenza politica molto ci possono dare per capire la società veneta.

 Rigenerare il PD

Recentemente il nostro senatore Giorgio Santini ha parlato dell’obiettivo che dobbiamo darci di rigenerare il PD. Penso che sia un termine giusto. Non si tratta di rifondarlo, perché le fondamenta valoriali sono quelle giuste. Né basterebbe aggiornarlo un po’. Si tratta di dargli nuova forza vitale, alla luce dell’esperienza di questi anni. Spinta generativa che certamente c’è nella leadership politica di Matteo Renzi e questo è l’elemento principale che lo ha portato ad essere guardato con interesse anche fuori dai confini tradizionali dell’area progressista. Non si può dire lo stesso per il partito.

Rigenerare perché restano validissime le intuizioni che hanno accompagnato la decisione coraggiosa di smobilitare i vecchi partiti e accettare la sfida del nuovo partito.

Un nuovo partito per una Italia nuova. Ricordandoci che siamo nati per cambiare in meglio la società, per offrire un potere di cambiamento a chi non ha altri poteri. Nei documenti fondativi del PD troviamo ancora tante idee e sollecitazioni non ancora pienamente espresse ma tuttora valide.

Ce la possiamo fare? Io dico di si. Bisogna volere ed agire di conseguenza. Bisogna aver voglia di leggere la realtà anche con occhiali nuovi. Henry Ford, il fondatore dell’industria automobilistica, una volta disse: “Se avessi dovuto fare quello che mi chiedeva la gente avrei dovuto fare un calesse più comodo e veloce e non una automobile. Se avessi dovuto aspettare le strade per fare le auto non sarei mai partito”. Dobbiamo anche noi avere il giusto di essere pionieri in una fase in cui c’è il non più dei vecchi partiti ed il non ancora di nuove forme di rappresentanza democratica.

Il nuovo Vescovo di Padova ha ricordato nel suo discorso di ingresso che “Lì dove si gioca il quotidiano della vita della gente, dove i problemi sono vivi e concreti i cristiani sono chiamati a dare coraggio, anima e prospettive”. Trasponendo questo invito del Vescovo sul piano civile possiamo dire. Affrontiamo questa necessaria rigenerazione del PD con coraggio, cervello, cuore. Sì, possiamo farcela.

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3 commenti

  1. Paolo Batt
    4 novembre 2015

    Condividendo gran parte della nota mi limito a commentare due punti.
    PESSIMISMO E IMMOBILISMO
    La sconfitta alle regionali, per la sua nettezza e dimensione, ci dovrebbe dare una opportunità in più: non potendo andare peggio, possiamo osare e sperimentare con grande libertà.
    RIGENERAZIONE
    Almeno in periferia, forse al termine “rigenerare” il PD, sarebbe più adatto quello di “generare” il PD, che è sostanzialmente rimasto alle buone intenzioni iniziali.
    Come ?
    Primo, con una discussione politica “all’ultimo sangue” , nel senso che alla fine deve produrre una comunità-partito che condivida la maggior parte delle idee. Discussione che, se e quando avviene, attualmente si incanala invece entro schemi correntizi che non vogliono contaminarsi tra loro, ma, al contrario, usano strumentalmente le idee per mantenere vive le fazioni.
    Secondo, aprendosi alla società, anche andandola a cercare dove questa si esprime, essendo consapevoli che per attirare qualcuno a dialogare bisogna partire dalle sue posizioni e non dalle nostre “verità”.
    Terzo, selezionando una classe dirigente in modo trasparente, rigoroso e meritocratico e pescandola da un bacino il più ampio e variegato possibile.
    Si potrebbe dire, ma forse è una cattiveria eccessiva, che sarebbe sufficiente fare il contrario di quanto è stato fatto negli ultimi tempi.


  2. Paolo
    5 novembre 2015

    ottime indicazioni


  3. paolo
    5 novembre 2015

    la cosa che mi intristisce di piu’ e’ che i giovani si allontanano dalla politica vista come sistema di corruzione e compromesso quando va bene.Alla presentazione di un libro sul periodo politico dall’80 al 2000 visto da destra, l’autore riferisce che in una riunione di 300 giovani presenti,alla sua richiesta di quanti fossero iscritti ad un partito NESSUNO alzo’ la mano, ed erano giovani interessati alla politica.


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