Alpini, bersaglieri e politica italiana

Pubblicato il 17 febbraio 2017, da Pd e dintorni

Cerco di esorcizzare con un argomento leggero le drammatiche giornate che il PD sta vivendo che avranno come esito una probabile scissione che ne cambierebbe il progetto politico. Un po’ per celia un po’ per non morir, come canta Butterfly. Ne parleremo.

L’altro giorno a Roma Dario Parrini (renzianissimo deputato e segretario regionale del PD toscano, congiunzione di incarichi ritenuta riprovevole dai renzianissimi esponenti del PD veneto) mi ha chiesto: “Secondo te, che c’eri, ha fatto più il governo Prodi o quello di Renzi?”

Domanda intrigante. Però difficile comparare i quasi 1500 giorni di governo Prodi in due fasi e i 1000 di Renzi. Riforme importanti ne hanno fatte tutte e due, e tutte e due in condizioni molto difficili. Dovremmo essere più orgogliosi di queste storie quella, di Prodi e quella di Renzi.

Con elementi caratteriali così diversi ci sono tuttavia caratteristiche simili nella esperienza di governo. Tutti e due aprono una fase nuova nella storia politica italiana. Prodi con l’Ulivo e la prima volta dei postcomunisti al governo, Renzi con una nuova generazione alla prova del governo. Tutti e due con maggioranze complicate e numeri parlamentari scarsi, per Renzi almeno al Senato, tra dissensi interni e soccorsi verdiniani.

Tutti due cadono per un azzardo. Prodi nel suo primo governo pensando di avere una autosufficienza parlamentare, rifiutando soccorsi esterni (ricordate il surreale dibattito sul centrosinistra o centro-sinistra, appunto con il trattino?) nel voto di fiducia ed il governo cadde. Renzi per l’azzardo del referendum personalizzato. Avendo comunque ancora i voti in Parlamento, ma ritenendosi politicamente sconfitto sul punto, ma con la forza di un nuovo inizio.

Caratteri diversi, anche se sotto la bonomia emiliana di Prodi posso assicurarvi che si nasconde una notevole ostinazione, talvolta una capacità vendicativa, ed anche allora se non c’era un giglio magico c’era un circolo di custodi, diffidenti di chiunque potesse attentare all’ortodossia prodiana. Però volendo vedere delle differenze in comparazione con leader del passato potremmo dire così.bersagliere

Renzi assomiglia di più a Fanfani. Non solo perché toscano (ma tra Arezzo e Firenze le rivalità sono molte…) ma perché di Fanfani possiede l’attivismo, la velocità, la pervasività comunicativa, la forte fiducia in sé stesso, la centralizzazione nell’esercizio del potere. O con me o contro di me. La convinzione di essere il migliore.

Prodi piuttosto a Moro. La lentezza come virtù, la mediazione anche estenuante per arrivare al risultato, il rispetto per i movimenti profondi della società, accettandone tempi e modi. Con il rischio di arrivare in ritardo.

Oppure visto che siamo nel centenario della Grande Guerra una comparazione tra i corpi militari. Renzi senz’altro sarebbe stato un bersagliere: sempre di corsa, la velocità come regola, squilli di fanfara ed azioni di sfondamento. Prodi avrebbe avuto piuttosto il passo lento e determinato dell’alpino. La testardaggine della gente di montagna, seconda solo a quella dei muli che gli alpini guidavano. Del resto la rivalità tra i corpi è nota, come recita la canzone “Bersagliere ha cento penne

ma l’alpin ne ha una sola un po’ più lunga un po’ più mora”, doppi sensi inclusi. Con la variante della guerra partigiana “il partigiano ne ha nessuna, sta sui monti a guerreggiar”.

C’è poi una differenza. Dopo la sconfitta Prodi non ritorna immediatamente. D’Alema ne favorisce l’elezione alla Commissione Europea, Prodi ritorna dopo una lontananza dalla politica italiana. Rivince ma senza una vera maggioranza parlamentare. Dovendo in sostanza rinunciare a governare. Renzi cerca di tornare subito, prima possibile.

Qui sarà la storia a giudicare. Perché Prodi poi resterà nella memoria come il federatore dei riformisti, la persona che ha unito. E di quanta stima ed affetto goda lo si è visto anche l’altro giorno con la sua lectio magistralis all’Università di Padova. Di Renzi si vedrà, in questo passaggio così difficile della sua vita politica. Se resterà come il divisore di una esperienza politica o il costruttore di una nuova stagione del riformismo italiano, questo lo potremo sapere più avanti. E così sia

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3 commenti

  1. bruno magherini
    18 febbraio 2017

    Caro Senatore,leggendoLa mi vengono in mente (per celia s’intende) “Le vite parallele di Plutarco”! Prodi vs. Renzi: ovvero due che non ne hanno indovinata una! Prodi preconizza gli Stati Uniti d’Europa e l’Europa germanocentrica (ovviamente) si sgretola, va due volte al governo con un’armata Brancaleone e dopo poco va a casa, fonde forzatamente due tradizioni politiche e culturali diverse nell’ircocervo partito c.d. democratico cementato dall’antiberlusconismo e (finito Berlusconi per ragioni anagrafiche) il partito si squaglia. Ma di cosa parliamo? La prego di andare a rileggersi la mia lettera del post elezioni regionali per verificare se quelle previsioni si siano puntualmente verificate.
    Quanto al vostro “mussolinetto di campagna” (sempre pensando a Plutarco) le ricordo che Fanfani dopo la bastonata del referendum sul divorzio si ritirò a vita privata dedicandosi con risultati apprezzabili alla pittura.
    E il vostro iperattivo Fonzie (che non ha mai lavorato in vita sua, parola di Lamberto Dini) che fa?Cerca disperatamente di approdare presto in Parlamento per agguantare il sospirato vitalizio con cui sopravviverà per i prossimi trenta anni.
    Cameron perde il referendum sulla Brexit e ne trae le logiche conseguenze: esce del tutto dalla scena politica. Il Fonzie rignanese no: resta al suo posto per
    improbabili rivincite. Quando non ci sono più idee restano i pifferai più o meno magici.
    Einstein diceva di non capire come si potesse barattare la indipendenza intellettuale con l’appartenenza ad un partito. Concordo con quel genio.
    Ad majora, caro Senatore


  2. Paolo
    18 febbraio 2017

    Caro Bruno,
    non condivido i tuoi giudizi. Mi sembrano esagerati. Però riconosco che sulle caratteristiche di Renzi hai scritto per tempo giudizi critici sulla sua personalità che sono risultati fondati, almeno per me.
    Su Fanfani però ricordi male. Dopo la sconfitta nel referendum sul divorzio (che Fanfani come altri leader DC non condivideva ma fu costretto ad accettare e a combattere la conseguente battaglia, pena un distacco della DC dalla Chiesa) Fanfani resto segretario della DC per un altro anno. Se ne andò solo dopo una sconfitta alle regionali. E comunque nel 1976 fu eletto Presidente del Senato, carica che ricoprì fino al 1982. Cari saluti, speriamo di rivederci prima o poi in quel di Firenze…


  3. bruno magherini
    19 febbraio 2017

    Caro Senatore, replico sulla vicenda di Fanfani. A quei tempi le sconfitte richiedevano di essere metabolizzate. Fanfani dopo il disastro referendario finì in una sorta di “cimitero” degli elefanti”. Il resto fu “promoveatur ut amoveatur”. Nella DC declinò del tutto il suo peso politico fino alla sostanziale emarginazione. Conosco i retroscena della vicenda referendaria (per aver conosciuto alcuni dei protagonisti) e in particolare lo scontro all’interno della Segreteria di Stato tra i fautori della linea intransigente (in particolare mons. Benelli) e i fautori della linea morbida (in particolare mons. Bartoletti). Si sa che una parte della DC era refrattaria a quella battaglia per più di un motivo ma, per quanto mi risulta, Fanfani fu tra i più convinti e battaglieri. In ogni caso dovette metterci la faccia piacesse o no.
    Il parallelo storico serve soltanto a rimarcare che i referendum hanno esiti drastici: o si vince o si perde. Chi vince vince tutto, chi perde perde tutto.
    Non c’è spazio per sofismi. Il che non mi pare sia stato capito. Tutto qui.


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