Dieci anni del PD

Pubblicato il 18 settembre 2017, da Pd e dintorni,Relazioni e interventi

La festa padovana del PD si è conclusa con una tavola rotonda organizzata dai giovani democratici. Per presentare un libro di Natale e Fasano sui dieci anni del PD “L’ultimo partito, 10 anni del Partito Democratico” Un libro interessante, che ci prende per mano per raccontare questi 10 anni, con i segretari che si sono succeduti, i dati più significativi e si chiude con l’interrogativo: “Un partito mancato?”. I giovani democratici hanno voluto accompagnare la presentazione del libro con una tavola rotonda con i segretari regionali e provinciali del decennio. Riporto qui alcune brevi considerazioni che ho svolto.

P.S. La Festa, al di là di un paio di serate funestate dal maltempo e delle polemiche sulla mancanza di volontari alle griglie (ma la festa è stata fatta comunque con molti volontari) ha costituito un luogo significativo di incontro e riflessione. Quando ci sono queste cose è sempre un aspetto positivo. Si può poi sempre riflettere se non sia il caso di cambiare il modello di queste Feste. È cambiata la base militante, sono cambiate le modalità dell’incontro ed una valutazione può essere fatta. Ma intanto grazie a chi la ha organizzata e sostenuta.

 

Tra il set di domande poste dai giovani democratici ho scelto queste:

  • cosa ricordi del momento in cui hai ricevuto la prima tessera del partito? Cosa hai pensato al momento del passaggio al PD?

Per riandare alla prima tessera di partito che ho avuto bisogna andare molto in là nel tempo, è una tessera della Democrazia Cristiana del 1967. L’ho ritrovata tra le mie carte, ed è significativo di come si intendesse la militanza di partito il fatto che la tessera venisse conservata come la testimonianza dell’appartenenza ad una comunità che in qualche modo segnava la propria vita. Sono cinquant’anni, avevo infatti allora 20 anni. Una adesione maturata nelle aule universitarie, dove si confrontavano prevalentemente una destra tra goliardia e para fascismo e la sinistra, principalmente rappresentata dal PCI, con la sua federazione giovanile. Con altri compagni di studio di formazione cattolica e sociale cercammo un’altra strada e la trovammo con il Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana. Sono sempre gli incontri che aiutano a trovare la strada. Fatti molto lontani, il momento del passaggio al PD è più recente e per me è stata la naturale conclusione di un cammino politico. Nella Dc ho sempre militato nella parte della sinistra democristiana, con una più forte sensibilità sociale e voglia di cambiare. Ricordo le prime sperimentazioni di un colloquio con la federazione giovanile comunista (allora il segretario era Flavio Zanonato) sui temi della politica estera che allora appassionavano noi giovani: la guerra in Vietnam, la repressione in Iran, l’America latina, ecc. C’è poi sempre stata una reciproca curiosità ed attenzione che pur nella contrapposizione politica ha portato a tenere aperti canali di dialogo, fino alla formazione nel 1992 della prima giunta a collaborazione diretta DC PDS. L’Ulivo e poi il PD sono stati perciò punti d’approdo desiderati e naturali, figli anche di un lungo lavoro politico fatto nei territori. Finalmente era il mio sentimento prevalente.

  • Il momento più difficile/entusiasmante del tuo mandato?

Ho avuto la fortuna di essere il primo segretario del PD veneto, nella fase costitutiva in cui prevaleva la voglia di stare insieme, l’entusiasmo per una nuova storia che cominciava, una fantasia creativa nello sperimentare forme nuove di azione politica. Sono state giornate entusiasmanti, così come ho un bel ricordo della Scuola Veneta di Politica, in cui siamo riusciti a richiamare docenti di altissimo livello scientifico e politico (a livello nazionale ma anche espressione di intelligenze e competenze del territorio, in gran parte ancora disponibili se il PD si dimostrasse interessato a loro) e mettere sotto formazione oltre 500 militanti. Peccato che poi questa iniziativa sia stata fatta cadere, perché la formazione è la base per consolidare la comunità partito e formare gruppi dirigenti all’altezza delle sfide della contemporaneità. Non sono mancati naturalmente anche i momenti difficili come è proprio dell’avventura politica. Forse il peggiore è stata la vicenda della formazione delle liste per le elezioni politiche del 2008. Partito nuovo, uscenti di diversi gruppi parlamentari, mancanza di un metodo condiviso, si fecero liste anche nel Veneto che dovettero sacrificare competenze riconosciute, squilibri tra province (Rovigo rimase senza una rappresentanza parlamentare). Dovetti accettare come capolista alla Camera Massimo Calearo. Invano cercai di spiegare a Veltroni che il nome non c’entrava nulla con la storia del PD e che anche culturalmente non faceva parte di una imprenditoria “illuminata”. Ma c’era stata una intesa con Montezemolo e corrispondeva all’idea che si voleva dare del PD come partito nuovo capace di intercettare fasce elettorali trasversali. Dovetti perciò difendere poi in pubblico la candidatura (che comunque fu utile per la riconquista del comune di Vicenza): quando hai un ruolo di rappresentanza devi accettare le decisioni collettive anche se non le condividi e difenderle…

  • Quanto è importante per il partito la sua vocazione maggioritaria? O la responsabilità del governo? O d’altra parte la fedeltà e purezza dei propri principi?

Della vocazione maggioritaria è stata fatta spesso una caricatura. Non era l’idea di una autosufficienza ma piuttosto l’ambizione di essere un partito che si proponeva come partito che voleva assumersi la responsabilità governo, capace di essere partito attrattivo oltre le categorie tradizionali. Lo si diceva in un contesto che sembrava avviarsi ad un bipolarismo. Questo contesto non c’è più ma resta la scelta di fondo di volersi misurare con le responsabilità di governo. È sbagliato contrapporre la purezza degli ideali ai necessari compromessi per governare. La politica non è testimonianza pura, è lo strumento per cambiare il corso della storia. Possiamo ricorrere alle parole di maestri certo non sospettabili di tendenza ad un pragmatismo senza valori ideali. Ce lo hanno insegnato proprio due leader della sinistra come Enrico Berlinguer quando invitava a cercare strade nuove ma che fossero storicamente possibili: “si tratta di percorrere vie non ancora esplorate, e cioè di inventare qualcosa di nuovo che stia, però, sotto la pelle della storia, che sia, cioè, maturo, necessario, e quindi possibile” O come Pietro Ingrao: “Indignarsi non basta. L’indignazione è un sentimento. Proporsi di conseguire con efficacia un risultato significa suscitare ed orientare forze, conoscere le forme attraverso le quali l’incontro e lo scontro procedono: questa è la politica”. Rifiutarsi di fare i conti con la storia, di praticare le strade possibili a costo di rinunciare ad una parte delle proprie idee a volte può nascondere una certa dose di egoismo intellettuale. Essere in pace con la propria coscienza e disinteressarsi del destino concreto degli uomini. Non dobbiamo aver paura di sporcarci le mani. Era quello che ricordava ai suoi ragazzi Don Lorenzo Milani, invitandoli a sporcarsi le mani per agire nel concreto. “A che servirà averle pulite, se le avremo tenute in tasca?”

  • Cosa consiglieresti a noi giovani?

La volontà di dare buoni consigli va sempre tenuta un po’ a freno. Perché oggi è tutto diverso il contesto in cui operate. Quando avevo la vostra età erano forti e vitali grandi organizzazioni partitiche che attraversavano davvero la vita delle persone ed anche i movimenti giovanili di quei partiti avevano una presa reale nel mondo giovanile, nell’incanalarne passioni e aspettative. C’erano ancora solidi riferimenti ideologici e valoriali, che si potevano contestare, ma erano pur sempre riferimenti da cui partire. Diversi erano i mezzi a disposizione. Niente social naturalmente, ma neppure cellulari. Neppure le fotocopiatrici. Per fare pezzi di propaganda c’erano solo i ciclostili, complicate macchine per le quali occorreva battere delle matrici con le vecchie macchine da scrivere meccaniche ed insudiciarsi le mani con inchiostro tipografico…

Diversi i mezzi ed il contesto, però alcuni atteggiamenti possono essere sempre validi. Sapere di non sapere e perciò non accontentarsi del main stream della rete, di qualche cinguettio o battutismo politico. Avere il gusto di leggere, studiare, approfondire. Per capire i movimenti profondi della storia, ciò che non si vede sulla superfice delle cose. Cercare sempre di andare oltre i luoghi comuni, vedendo le cose da un altro lato. Essere sempre curiosi di ciò che non si conosce, e nella curiosità per le opinioni degli altri conservare uno spirito libero e tollerante. Che non significa indifferenza ma la convinzione che nel dialogo si cammina in avanti, ci si arricchisce di punti di vista inediti. Magari da contestare, ma nel contestarli ci si rafforza nelle proprie idee. Bisogna anche apprendere come si vive dentro una comunità politica. Come gestire le vittorie senza superbia e come accettare le sconfitte senza scoraggiarsi. Come avere le giuste ambizioni, legandole però non solo ad un destino individuale. Agire con passione costruttiva, per includere ed allargare, non per escludere. Come ricordava Sallustio (uno che se ne intendeva, avendo vissuto le grandi guerre civili del periodo di Cesare) “Con la concordia le piccole cose crescono, con la discordia anche le più grandi vanno in rovina”. Consiglio che ci può servire anche per il PD…

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