Renzi, tre anni fa

Pubblicato il 29 novembre 2017, da Pd e dintorni

Sistemando un po’ di file nel mio computer ho ritrovato una nota che esattamente tre anni fa, il 29/11/2014, pubblicavo qui. Ve lo ripropongo perchè mi sembra di un certo interesse…

Non sono un renziano della prima ora. Altri prima di me hanno capito le potenzialità politiche di Matteo Renzi. Non sono un renziano innamorato. Di quelli che usano molto il cuore e poco la testa (in genere gli innamorati sono i maggiori guastatori dei leader). Non sono neppure, per costume che ha orientato la mia vita e perché non ho ambizioni future nel campo della carriera politica, un renziano opportunista, categoria che si è molto allargata.

Mi definirei un renziano per necessità. Convinto che Renzi è la medicina necessaria per l’Italia. Che la insieme robusta e fragile speranza che ha suscitato negli italiani sia una pianta da coltivare con dedizione. E che di questo dobbiamo essergli grati. Per questo considero gravemente irresponsabile chi si dedica all’eterno sport di una certa sinistra di distruggere ciò che c’è, di segare il ramo su cui si è seduti. Al di là del merito delle politiche. Perché non si è accettata la durezza della rottamazione, perché non si accetta la rottura della continuità con il passato. Occorre saper fare i conti con le condizioni della storia (alla Camera c’è una bella mostra su Togliatti che lo dimostra): dietro l’indebolimento di Renzi c’è l’indebolimento della prospettiva politica del PD, non un PD più di “sinistra”.

E tuttavia anche Renzi deve fare i conti con la situazione. Perché il panorama è un po’ cambiato. Se all’inizio poteva pensare che una fortunata “campagna d’Italia” basata sulla velocità (tra Fanfani e Napoleone?) potesse essere sufficiente ad orientare il paese a cogliere il vento di una ripresa dell’economia internazionale, oggi bisogna guardare diversamente alla realtà.

Resta una situazione economica europea difficilissima, con una ripresa fragile, con l’accentuarsi di differenze sociali, con una drammatica mancanza di lavoro. Sono questioni strutturali che richiedono un Europa capace di tornare a pensare in grande, come ha efficacemente indicato Papa Francesco a Strasburgo. E’ una crisi di pensiero, di senso, di struttura. In cui come vediamo la durezza della crisi economica e la mancanza di fiducia a livello continentale indeboliscono i capisaldi della democrazia.

Di fronte a questo non basta un pensiero veloce, occorre anche un pensiero profondo. Questa è la sfida che Renzi deve avere bene presente. Non sono un estimatore di Ernesto Galli della Loggia (noto cerchiobottista) tuttavia ciò che ha scritto qualche giorno fa sul Corriere mi convince: “La sua eloquenza scoppiettante non si è mostrata finora capace di trovare i toni di drammatica verità e di serietà che sarebbero necessari ad indicare davvero un nuovo cammino del paese e quindi di trasmettergli quella scossa anche emotiva senza la quale esso non potrà mai rimettersi in piedi. L’ispirazione che anima Renzi è volata finora troppo bassa, ha avuto una voce troppo tenue per dare vita ad una visione del destino della nazione e della società italiana che preluda davvero alla loro rinascita entro una rinnovata forma democratica”.

Parole forse un poco ingenerose ma il problema per me c’è tutto. E siccome penso che Renzi abbia le capacità per fare questo salto di prospettiva è bene che lo faccia. Lui più di altri può parlare al paese in questo senso. Come ha fatto in questi anni il Presidente Giorgio Napolitano (e spero che per il successore si guardi in alto e non a misere convenienze per l’oggi).

Però questo richiede due cose. Essere capaci di fare appello alle migliori energie del paese. Come fece Roosevelt con il new deal negli Stati Uniti dopo la grande depressione del 1929. Coinvolgere nell’azione del governo personalità di maggiore spessore, per competenza, capacità creativa, autorevolezza morale.

E poi non godere della moltiplicazione dei nemici. Quando il tessuto è fragile bisogna valutare molto bene le conseguenze degli strappi. Io sono assolutamente convinto della bontà del job act e che sia una cosa profondamente di sinistra, in direzione dell’eguaglianza, della giustizia sociale, della crescita. Ma non condivido per niente questo compiaciuto attacco al sindacato, anche alla sua parte più conservatrice che per me è la CGIL. Certo il sindacato, come tutti i corpi intermedi è in ritardo, sindacato di pensionati più che di lavoratori attivi, ma una società senza una rappresentanza del mondo del lavoro, che sia capace di dare voce al lavoro, alle difficoltà della vita è una società comunque più povera, configura una democrazia più debole. E bisogna pensare anche alla difficoltà di fare sindacato in una società frammentata, dispersa, piegata dalle difficoltà economiche e dalla mancanza di lavoro.

Dai Matteo, accetta anche qualche correzione, ce la puoi fare. Veloce, profondo ed anche costruttore di unità.

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1 commento

  1. Walter
    30 novembre 2017

    Vista ora mi sembra contenga posizioni profetiche.


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