BOHLITICA, CHIAVI DI LETTURA PER UNA CITTADINANZA ATTIVA

Posto un testo un po’ lungo, è quello di una mia testimonianza data ad un corso di formazione per giovani organizzato da una gruppo di associazioni cattoliche della Diocesi di Padova. E’ una bella iniziativa che si articola in cinque sessioni attorno alle classiche domande del giornalista: chi, cosa, come, dove, quando. Ho parlato il 16 marzo del Cosa insieme al prof. Gianni Riccamboni

 

“Bohlitica” è una incisiva espressione per ritrarre un atteggiamento diffuso verso la politica. Una difficoltà a comprendere il sistema politico. Che del resto si esprime sostanzialmente in due modi. Con il rifiuto del dovere civico (art. 48 della Costituzione) di partecipare al voto, oltre quei cittadini che lo fanno per pigrizia o per protesta; è il frutto di un disorientamento sulle scelte da compiere; oppure con un voto sostanzialmente emotivo, non fondato su una solida convinzione, ma piuttosto su una opinione che si forma negli ultimi giorni della campagna elettorale se non dentro la cabina stessa.

Può capitare a me, che pure ho alle spalle una lunga esperienza politica iniziata sui banchi dell’Università, ogni tanto di dire un “boh” di fronte a ciò che offre il panorama politico. Ma è una tentazione da superare se si vuole essere protagonisti di una cittadinanza attiva. Nello spirito che ci ricorda Vito Mancuso nel suo ultimo libro “Il coraggio di essere liberi” “Avere un pensiero, una visione del mondo, una spiritualità: ognuno usi i termini che preferisce, l’essenziale è mirare ad una prospettiva che ci consenta di stare al mondo senza subirlo passivamente ma per quanto possibile comprendendolo, migliorandolo, vivendolo attivamente”.

 

Dal tutto della politica al niente della politica

Sono passati cinquant’anni da quel mitico ’68 che per la mia generazione è stato un punto di svolta. Movimenti studenteschi sviluppatesi in USA ed in Francia che hanno presto attecchito anche in Italia. Cortei studenteschi, assemblee nelle Facoltà occupate, la saldatura con “l’autunno caldo” ed il movimento operaio nelle fabbriche. Tutto diventava politica, anche tanti aspetti della vita privata, la liberazione della donna portava con sé una concezione diversa nei rapporti tra sessi, nella vita amorosa e sessuale. La politica veniva presentata come un potente strumento di miglioramento del mondo, attraverso la partecipazione ai partiti o ai movimenti. La dimensione collettiva aveva la supremazia su quella individuale.

Oggi il panorama che si presenta ad un giovane è totalmente diverso. Alla politica si associano espressioni negative e respingenti. La casta, a significare una separazione tra eletti ed elettori, l’idea che “tutti sono eguali” (e i media accreditano questo pregiudizio, raccontando molto gli episodi negativi e pochissimo quelli positivi che pure ci sono), il neologismo “inciucio” per descrivere compromessi al ribasso effettuati per resistere al potere, “non contiamo niente” e perciò non val la pena di impegnarsi. Atteggiamenti comprensibili, che tuttavia indebolendo il potere della rappresentanza democratica, che dovrebbe avere a cuore il “bene comune”, lascia spazio ad altri poteri che democratici non sono e che possono avere a cuore interessi particolari: il potere economico/finanziario, quello dei media, anche sotto forma della realtà pervasiva dei social che, come dimostrano molto analisi scientifiche, sono tutt’altro che affidati alla libera scelta del cittadino.

Da qui (e da altro) nasce il rifiuto della partecipazione politica. Soprattutto il rifiuto della partecipazione politica attraverso i canali che hanno caratterizzato la democrazia novecentesca, partiti e sindacati di massa. Si avverte l’impegno politico come una cosa non interessante, che non muove passioni, che non è in grado di cambiare le cose. Che riguarda i professionisti della politica. Magari ci si impegna in associazioni che hanno un compito più limitato e definito, che smuove un interesse particolare: può essere una iniziativa per l’ambiente, per la solidarietà sociale, ma più difficile è vedere un impegno generale che tenga insieme i vari interessi.

Ci può essere l’idea che in un mondo globalizzato non val più la pena di perdere tempo per la politica quando sono altri i poteri che agiscono a livello globale, oltre gli stati nazionali: il mercato, la finanza, i flussi globali delle merci che condizionano la vita dei cittadini. O, al contrario, proprio avendo coscienza di questi poteri sovranazionali si è piuttosto attratti da movimenti radicali, che si infiammano magari attraverso i social, con l’ambizione di cambiare il mondo. “Ci vuole ben altro” che la paziente opera di cucitura della politica nei partiti e nelle istituzioni. E tuttavia spesso all’infiammarsi di passioni succede rapidamente l’esaurimento della spinta del movimento.

 

Alla ricerca della buona politica

Se ci guardiamo attorno dovremmo riconoscere che c’è bisogno della politica, intesa come coltivazione del bene comune, come costruzione di beni comunitari, entro cui l’individuo diventa persona ricca di relazioni. Spesso ciò che si chiama “antipolitica” nasconde la delusione per la mancanza della buona politica, e la sua nostalgia, ed è proprio il mondo globalizzato con la pervasività dei flussi finanziari/speculativi, l’indebolimento dei diritti fondamentali nel lavoro e nelle tutele sociali, il potere della scienza che giunge a manipolare l’essenza stessa della vita a richiamare la necessità della politica come strumento a disposizione di ogni cittadino. Ed il rancore ed il pessimismo che caratterizzano questo tempo diventano una prigione che ci impedisce di costruire il futuro.

Per svolgere lo sguardo verso la buona politica ho pensato di prendere un po’ di parole in prestito. A persone che hanno saputo ispirare azioni positive. Osservava Galileo Galilei che l’alfabeto – e la parola che trasmette – è una specie di grande macchina del tempo: “Parlare con quelli che sono nelle Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni? E con qual facilità? Con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta”.

Così tutti possono diventare nostri contemporanei. Ispirarci ed insegnarci. È il modo di riconoscere degli amici, persone che hanno attraversato la vita prima di noi, che hanno alimentato gli stessi pensieri, le stesse emozioni.

 

La lezione della democrazia della polis greca e l’insegnamento di Don Lorenzo Milani

Così ad esempio il Pericle di Tucidide ci parla dal limite lontano del V secolo a.C. e ci fa una straordinaria lezione di democrazia, con il vivo ritratto dei valori fondanti della democrazia ateniese: “concepiamo la città come un bene comune da offrire …Siamo attratti dal bello, ma con semplicità e dalla cultura, ma senza svenevolezze. Delle ricchezze ci serviamo più per propiziare l’azione che vantarcene nei discorsi, e mentre ammettere di essere povero non è motivo di vergogna per nessuno, lo è invece e ben di più non fare nulla per venirne fuori…siamo i soli a considerare non già un uomo disimpegnato, ma un uomo inutile chi non partecipi affatto alla politica, e siamo ancora noi a prendere direttamente le decisioni, o almeno a riflettere bene sulle questioni politiche, e a non considerare un danno per l’azione i pubblici dibattimenti, quanto piuttosto non istruire prima, con un pubblico dibattito, le questioni che devono essere affrontate con l’azione”. Certo, sarà stata una rappresentazione un po’ idealizzata, anzi un discorso propagandistico, e gli avversari di Pericle pensavano esattamente così. Però è importante che Pericle attraverso Tucidide abbia voluto trasmetterci questa immagine della democrazia ateniese, perché riteneva che questi fossero i valori positivi di cui essere orgogliosi.

Possiamo utilizzare il pensiero di un testimone più vicino a noi, don Lorenzo Milani. È stato un testimone importante per la mia generazione. Con “Lettera ad una professoressa” insegnava a vedere le radici delle diseguaglianze sociali, la più grave delle quali è la diseguaglianza nella cultura; con “L’obbedienza non è più una virtù” indicava il valore dell’obiezione di coscienza al servizio militare, che aveva portato in carcere giovani che volevano testimoniare il valore del pacifismo. Proprio in “Lettera ad una professoressa” ci lascia un pensiero che ci serve per il tema che dobbiamo affrontare: “Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Con poche parole una definizione esatta della politica.

Proseguendo questo viaggio con parole prese in prestito mi concentro, tra i tanti punti di vista possibili, su tre caratterizzazioni che servono alla buona politica:

il buon uso della parola

la virtù del compromesso

la capacità di visione

 

Il valore della parola

La parola è lo strumento principe della politica. Del resto la sede fondamentale della democrazia rappresentativa è il Parlamento, il luogo appunto dove la parola dovrebbe argomentare, motivare, persuadere. Ed è il cattivo uso della parola, il suo abuso, da strumento di persuasione a strumento di offesa e di insulto, che contribuisce alla crisi della buona politica. Ricorro ad un pensiero di Dag Hammarskiold (1905-1961). Era un politico svedese che fu nominato nei primi anni ’50 Segretario generale dell’ONU, ruolo in cui si impegnò con grande determinazione e per questo fu premiato con il Nobel per la Pace. Premio dato alla memoria, perché cadde in un incidente aereo (la cui dinamica non è mai stata chiarita) mentre si recava per una missione di pace nell’ex Congo Belga. Era un uomo caratterizzato da una profonda spiritualità, che aveva l’abitudine di appuntare su un suo diario frammenti di pensieri che indirizzavano la sua attività. In questo diario ho trovato questo appunto: “Rispettare la parola: usarla con estrema cura e incorruttibile amore per la verità, ecco una condizione perché maturino la società e la specie umana. Abusare della parola equivale a disprezzare l’essere umano.” Quanto se ne avvantaggerebbe il dibattito pubblico e la credibilità delle istituzioni se tutti gli attori politici si attenessero a questa regola.

Ancora la riflessione di un altro politico, Aldo Moro (1916 – 1978). Non un ingenuo, anzi un uomo che ha amministrato molto potere, da Presidente del Consiglio e da Segretario della Democrazia Cristiana, il partito nel suo tempo perno del sistema democratico italiano. Assassinato dalle Brigate Rosse insieme alla sua scorta quarant’anni fa. Eppure questo uomo di potere ha sempre dato grande importanza alla capacità persuasiva della parola, al suo uso corretto. Scrive nel 1969: “Alla politica serve non il potere ma l’idea. Il potere diventerà sempre più irritante e scostante e varrà più una idea comunicata per un tramite discreto ed umanamente rispettoso. Varrà di più una parola detta discretamente, rispettosa e rispettabile”. Emerge una profonda capacità di visione su quello che avrebbe portato ad una crisi della politica: la separazione tra idea, parola, potere, l’abuso della parola stessa. È bella questa espressione di una parola discreta, il contrario di ciò che ascoltiamo nella maggior parte dei format televisivi, di una parola rispettosa, perché vuole offrire all’interlocutore punti di approdo e di incontro, rispettabile per la ricchezza dell’argomentazione che non si riduce a slogan superficiale. La nobiltà della politica si nutrirebbe di questi atteggiamenti.

Infine ricorro ad un libro di un linguista, che fa un parallelo interessante tra decadenza della politica e decadenza del linguaggio. Giuseppe Antonelli in “Volgare eloquenza, come le parole hanno paralizzato la politica” scrive: “Lo spazio delle parole si è ampliato a dismisura ma nella stessa misura si è ridotto il tempo per il ragionamento e la discussione. Le uniche parole sono rimaste parole d’ordine (o di disordine) ripetute all’infinito, riprese a voce sempre più alta per coprire la voce di chi in quelle parole non si riconosce”. C’è una indagine che compie l’OCSE sulla capacità di comprensione di un testo da parte dei cittadini. In media nei 28 paesi OCSE il 15% si colloca al livello più basso di tre livelli di comprensione. Capisce molto poco leggendo ad esempio l’articolo di un quotidiano. In Italia siamo purtroppo al 28%, la comprensione è ancora più bassa. Ed è un grande problema per la democrazia. Perché se non c’è comprensione non c’è comunicazione, non c’è ragionamento. Ed allora ci si affida a slogan superficiali. Ma come diceva un politico negli anni ’60, Giancarlo Pajetta, dirigente del partito Comunista italiano, che di propaganda se ne intendeva: “ciò che rende diverso un politico da un cretino è che il cretino crede alla propria propaganda”.

 

La virtù del compromesso

Il compromesso è una virtù? Per la verità spesso ci viene presentato come una pratica degradante, con cui si rinuncia ai propri principi pur di conservare il potere. Talvolta può essere così, ma in linea generale il compromesso è la virtù necessaria della buona politica. La capacità di incontrarsi con il diverso, di mettere insieme quella parte di verità di cui ognuno è portatore. Del resto lo dice bene l’etimologia della parola, che deriva dal latino cum promittere: promettere insieme, assumere insieme un impegno, con una parola leale. La storia è ricca di esempi in cui nobili compromessi hanno consentito di raggiungere risultati duraturi. Vale per tutti la nostra Costituzione, di cui celebriamo il settantesimo anno dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea Costituente. Un grande e nobile compromesso tra esperienze umane e culture politiche diverse, in cui ognuno ha saputo rinunciare ad una parte di sé per raggiungere un bene più grande. Ricorro alle parole di una dei più autorevoli costituenti, Giuseppe Dossetti (1913 – 1996), singolare figura di pensatore e politico cattolico, che ad un certo punto abbandonò la politica di cui era stato protagonista di rilievo per dedicarsi alla vocazione religiosa. Scriveva Dossetti qualche anno dopo l’approvazione della carta costituzionale: “; “Anche il più sprovveduto e ideologizzato dei costituenti non poteva non sentire sulle sue spalle l’evento della guerra globale appena finita. Non poteva anche se lo avesse voluto, anche se lo avesse cercato di proposito in ogni modo, dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti radicali nella mappa del mondo…Nel 1946 certi eventi di proporzioni immani erano ancora troppo presenti alla coscienza esperienziale per non vincere, almeno in sensibile misura, sulle concezioni di parte…e per non spingere in qualche modo tutti a cercare in fondo al di là di ogni interesse e strategia particolare un consenso comune, moderato ed equo.” Ecco il senso del nobile compromesso.

Ancora possiamo pensare a Nelson Mandela (1918 – 2013). Uomo di compromessi? Uno che sta in carcere trent’anni per non cedere su questioni di principio, su come ottenere il superamento della separazione razziale in Sudafrica. Ha raccontato che nei lunghi anni di prigione si faceva ispirare per resistere dalle parole della poesia Invictus: “Non importa quanto stretto sia il passaggio, Quanto piena di castighi la vita, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima”. Voleva essere padrone del proprio destino, invitare i giovani ad una visione esigente: “Nelle vostre scelte non fatevi ispirare dalle paure, ma dai vostri sogni”. Ma seppe essere protagonista di un grande compromesso con il capo della minoranza bianca De Klerk, con cui riuscì ad assicurare una transizione pacifica per il nuovo Sud Africa. Così, scontentando i suoi sostenitori più faziosi quando morì De Klerk andò a salutare pubblicamente la vedova, rendendo omaggio all’uomo politico che per tanti anni lo aveva tenuto in prigione. La pacificazione come grande compromesso.

 

Guardare lontano

Infine c’è la capacità della visione. Di non essere schiacciati dal presente, dal breve termine che ci priva del futuro. Alcide De Gasperi (1881 – 1954) fu l’uomo che prese in mano l’Italia uscita distrutta economicamente e moralmente dalla tragedia del fascismo e della guerra con i nazisti. Era stato in carcere sotto il fascismo, privato della possibilità di avere un lavoro dignitoso, aveva lavorato in clandestinità per il ritorno alla democrazia, fino a diventare segretario della Democrazia Cristiana e Presidente del Consiglio nell’Italia repubblicana. Ricordava ai critici che gli rimproveravano un eccesso di rigore e poca propensione alla compiacenza propagandistica: “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione” e sulle facili promesse dei politici: “Cercate di promettere un po’ meno di quello che pensate di realizzare se vinceste le elezioni”.

La visione è essenziale, per convincere il popolo, prenderlo per mano, specialmente nei momenti di difficoltà. Dalla visione dipendono gli esiti. Il mondo occidentale attraversa alla fine degli anni ’20 del secolo scorso una grande depressione economica. Falliscono le imprese, manca il lavoro, si moltiplicano drammi sociali. John Steinbeck in “Furore” racconta il dramma della depressione negli Stati Uniti. Lì viene eletto presidente Franklin Delano Roosevelt (1882 – 1945). Fa appello alle migliori speranze del suo popolo, imposta un New Deal, un nuovo patto, per far uscire il paese dalla crisi. Nel discorso di chiusura della campagna elettorale per la presidenza così conclude: “Io impegno tutti voi, io impegno me stesso a un nuovo patto per il popolo americano. Proclamiamoci tutti qui riuniti profeti di un nuovo ordine di competenza e coraggio. Questa è più di una campagna politica, è una chiamata alle armi. Datemi il vostro aiuto, non solo per acquisire voti, ma per vincere questa crociata per restituire l’America al suo popolo”. Visione appunto, e su quella visione (cui segue naturalmente l’azione) viene eletto presidente altre tre volte. Invitando al coraggio. Nel discorso di insediamento dice: “In questo momento bisogna dire la verità, tutta la verità, con sincerità e coraggio…credo fermamente che l’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa”.

Negli stessi anni, con la stessa crisi Hitler dà una risposta diversa. Non coltivatore di speranza ma dell’odio, imprenditore della paura. È il totalitarismo che sfocia nell’orrore dell’Olocausto e di un’altra guerra mondiale.

Visione necessaria per affrontare le sfide della contemporaneità. Le grandi culture politiche del ‘900 faticano a guidare le trasformazioni di questo tempo in un mondo globalizzato, in cui gli stati nazionali hanno perso potere. Vi è allora la tentazione di farsi imprenditori delle paure piuttosto che suscitatori di speranza. Ma come aveva ben pensato Roosevelt le paure sono nemiche delle soluzioni. Il sociologo Mauro Magatti ha parlato in un suo ultimo lavoro della necessità di un cambio di paradigma. Ricorda in “Cambio di paradigma, uscire dalla crisi pensando al futuro” che occorre saper costruire una nuova relazione tra crescita economica e sviluppo sociale. L’una senza l’altro non si regge. La crescita economica ha bisogno di un contesto sociale positivo, che non si rinchiuda in pessimismi e rancori. E si presenta il grande tema della sostenibilità dello sviluppo. Non solo una sostenibilità ambientale, perché oggi consumiamo le risorse del pianeta più velocemente di quanto possano ricostituirsi. Vi è una sostenibilità sociale: una economia basata sulla precarietà, sulla svalutazione del valore del lavoro genera una umanità spaventata e non in grado di guardare al futuro. Serve anche una sostenibilità umana. La velocità dello sviluppo tecnologico, l’enorme pressione comunicativa su una umanità stabilmente interconnessa, fin dai primissimi anni di vita, la mancanza di riferimenti ideologici e valoriali stabili (criteri per leggere il mondo, per orientare la propria vita), la banalizzazione della dimensione spirituale, la trasformazione del cittadino in consumatore chiamato ad esprimere sempre nuovi desideri, ecc. genere malattie sociali difficilmente curabili. Vi sono tanti sintomi da non trascurare, dall’enorme crescita nel consumo di psicofarmaci, al diffondersi del cyberbullismo, ai femminicidi ed alla violenza contro le donne. Sono tutti sintomi di una società malata. La politica a questo deve servire: curare le ferite sociali, saper anticipare il futuro per guidarlo. Con l’elaborazione di un pensiero. Nel 1967 Paolo VI pubblicava l’enciclica “Populorum progressio”. Una lungimirante analisi di un ormai incipiente avvio di quella che poi avremmo chiamato globalizzazione, evidenziandone i rischi e le opportunità. Ad un certo punto il Papa osserva: “Il mondo soffre per mancanza di pensiero”. Notazione straordinaria, che individuava già allora lo scarto tra processi economici che si andavano globalizzando, con conseguenze molto incisive sulla vita degli uomini e l’incapacità di organizzare un pensiero adeguato e di conseguenza anche nuove istituzioni per la democrazia in un mondo globale. E’ una sfida attualissima per la politica.

 

Il dovere di un impegno

Ricorro in conclusione ancora alle parole di Paolo VI, perché è un Papa che ha dedicato molta attenzione ai doveri di un cattolico verso la politica, che per lui era “la forma più esigente della carità”. L’ho citato anche nel mio “Con i se e con i ma, fare politica ai tempi dell’antipolitica” perché sono pagine importanti, in cui un Papa che appariva riservato e poco comunicativo, dimostra la forza poetica del suo pensiero: “questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio e in gloria: la vita, la vita dell’uomo!… Ti saluto ti celebro all’ultimo istante, sì, con immensa ammirazione”

Anche con questo sentimento nasce la buona politica, per cui vale la pena di impegnarsi. Una politica che cambia forma ed ispirazione, ma le cose fondamentali restano ferme nella vita dell’uomo attraverso i secoli. Possiamo ancora ricorrere alla saggezza di quel grande racconto dell’umanità che è la Bibbia.  E’ una pagina di Geremia. Uomo mite e timido, chiamato ad una missione profetica durissima, cioè quella di essere l’annunciatore e il testimone della rovina di Gerusalemme, con la distruzione del Tempio nel 586 avanti Cristo ad opera di Nabucodonosor. Invano richiamando il suo popolo ad uscire da una visione nazionalistica e conservatrice che aveva tolta vitalità all’esperienza religiosa. Scrive Geremia: “Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi circa i sentieri del passato, dove sia la strada buona e prendetela” Sì, questa è la buona politica: cercare sempre la buona strada, con l’insegnamento del passato, ma con l’assunzione del rischio dell’innovatore che apre nuovi cammini.

La volontà di essere “padroni del proprio destino”, come ricordava Nelson Mandela, “stare al mondo senza subirlo passivamente” come ci indica Vito Mancuso. Lo aveva capito un giovane studente liceale, Giacomo Ulivi, fucilato a 18 anni dai nazisti per aver voluto opporsi alla ferocia della repressione nazifascista. Scrive in una delle sue ultime lettere rivolte ai compagni di liceo: “Il nostro interesse e quello della cosa pubblica finiscono per coincidere. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare che con calma ricominciamo a guardare in noi e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete voluto sapere”.

Non abbiamo il diritto di essere scoraggiati, di non volerne sapere, abbiamo il dovere di occuparsi della politica, cioè della cura del bene comune, di esprimere desideri e di lavorare per realizzarli.

 

Suggerimenti di lettura

 

In una possibile sterminata bibliografia sulla politica scelgo alcuni libri che con diverse angolazioni possono offrire suggestioni utili

 

Mauro Magatti “Cambio di paradigma, uscire dalla crisi pensando al futuro” Feltrinelli

Dalla crisi nascono nuove opportunità. Ma occorre guardare alla realtà con occhiali diversi

 

Luciano Violante “Democrazie senza memoria” Einaudi

La democrazia ha bisogno di una nuova cultura politica, non ci è regalata per sempre

 

Maurizio Viroli “Scegliere il principe, i consigli di Machiavelli al cittadino elettore” Laterza

Una voce del passato per capire il presente

 

Giuseppe Antonelli “Volgare eloquenza, come le parole hanno paralizzato la politica” Laterza

La parola è uno degli strumenti della politica, il linguaggio ne segnala la crisi

 

Mons. Vincenzo Paglia “Il crollo del Noi” Laterza

La voce di un Vescovo che richiama ai contenuti essenziali della visione e dell’azione politica

 

Paolo Giaretta “Con i se e con i ma, fare politica ai tempi dell’antipolitica” Nuova dimensione

7 parole chiave per costruire la buona politica

 

Benedetto XVI “Caritas in veritate” e Francesco “Laudato si’per una lettura delle sfide della contemporaneità alla luce della dottrina sociale della Chiesa

 

www.paologiaretta.it per commenti sulla contemporaneità politica

 

  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn
  • RSS
  • Pinterest
  • Add to favorites
  • Print
  • Email

Scrivi un commento