La rottamazione viene per tutti, ma c’è sempre un futuro

Pubblicato il 8 marzo 2018, da Pd e dintorni

Quando si subiscono sconfitte così radicali occorre capire che servono riflessioni profonde e generose. Pensiero, piuttosto che ulteriori slogan o scorciatoie. Senza nascondersi la verità, senza aver paura di parole di verità.

Guardando i numeri che avremo nel prossimo Senato (53 senatori del PD) mi è venuto in mente quando nel 2001 fui eletto vicecapogruppo della Margherita (capogruppo Willer Bordon): allora la Margherita da sola faceva quasi gli stessi numeri, 43 senatori. Ma a fianco della Margherita c’era il gruppo dei Democratici di Sinistra con 65 senatori. Soprattutto c’erano ancora saldi presidi territoriali ed una prospettiva politica affascinante: la nascita del Partito Democratico.

Realismo, non necessariamente scoraggiamento. In fondo nel Senato uscente la Lega aveva 11 senatori, ora ne avrà 57: il voto è mobile, se si sa costruire una prospettiva politica: questa è la sfida da affrontare senza false piste.

Uscendo dal renzismo come riferimento assoluto. I motivi della sconfitta non possono essere addebitati solo agli errori di Renzi. C’è un ciclo storico che coinvolge tutto il mondo occidentale, con una sinistra in affanno a offrire prospettive convincenti per sanare le ferite sociali portate dalla globalizzazione. Renzi comunque un posto nella storia italiana se l’è conquistato e, depositata la polvere delle polemiche, si riconoscerà che ha guidato uno dei migliori governi degli anni recenti.

E tuttavia: Renzi ha seguito con determinazione la strada del Partito a dominio personale. Certo, sempre sostenuto da un riscontro nel consenso con le primarie. Gli elettori ci hanno detto però che questo ciclo è finito. Lo hanno detto con il voto sul referendum, lo hanno ridetto oggi. Ciò che qualifica un grande leader è la capacità di guidare le vittorie ma anche quella di saper uscire con dignità dalla scena quando è il momento. Renzi lo può fare (e meglio sarebbe stato averlo fatto del tutto dopo il referendum) anche perché è sufficientemente giovane per riaprire dopo una pausa un nuovo ciclo, se ne sarà capace.

Per questo mi hanno molto turbato le motivazioni delle dimissioni a metà. A me sembra che Renzi con quelle dichiarazioni dimostri di non aver capito ciò che è successo. Dimissioni sì, però quando vorrà lui (quando si farà il Governo, ma quando si farà e si farà?) continuando a dare lui le carte. Insistendo in una idea padronale del partito che ci ha portato dove siamo. Non ha capito che proprio la promessa mancata (sua e della Boschi) di lasciare la politica se sconfitto al referendum aveva da un lato caricato l’arma del voto a dispetto, dall’altro fatta cadere la sua personale credibilità nell’opinione pubblica. E adesso si ripete? Non gli dice nulla il fatto che Gentiloni, in un collegio uninominale difficile prende oltre il 40% staccando di dieci punti il secondo?

Non c’è stata una sola parola di autocritica. Con tentativi di depistaggio: non mi hanno fatto votare subito, come volevo io. Votare senza legge elettorale? E perché avrebbe dovuto essere diverso il risultato? Non mi hanno lasciato fare una campagna elettorale come volevo io? Come e chi? Se tutto è stato fatto scegliendo lui personalmente linea, programma, liste, esclusioni dalle liste. Senza rispetto della qualità del lavoro fatto, lasciando fuori persone per bene, da Cuperlo a Realacci, per fare solo due nomi dei tanti, che pure potevano presidiare frontiere sensibili per il partito? E se dopo il grande successo delle Europee del 2014, certamente per merito suo, si sono perse tutte, ma proprio tutte le elezioni successive è possibile avere dal segretario del partito una riflessione seria? Senza agitare fantasmi?

E il rilancio dell’ormai vecchio gioco dell’additare all’opinione pubblica presunti nemici interni, presunti passatisti: sono l’unico che può garantire che non si faranno inciuci, sono l’unico che si oppone al partito dei “caminetti”. Ora io sono tra quelli che hanno condiviso il patto del Nazareno. È la rottura di quel patto infatti che ha fatto cadere la stagione delle possibili riforme costituzionali. Ma se si vuol fare polemica allora bisognerebbe dire che Renzi è stato il Re dell’inciucio, se si vuole buttarla nell’antipolitica. Sono d’accordo che con il M5S non si possano fare accordi di governo. Su quale base programmatica poi? A parte Emiliano (spazzato via in Puglia dal M5S) nessuno pensa ad una soluzione del genere. Di Maio e Salvini si proclamano vincitori e vogliono l’incarico per fare il Governo (senza averne i voti), bene si mettano d’accordo tra di loro e dimostrino quello che sanno fare.

Cos’erano i “caminetti” nei vecchi partiti? Una pratica riprovevole? Era una modalità con cui i dirigenti più autorevoli e rappresentativi, che contavano nell’opinione pubblica, si impegnavano a trovare soluzioni condivise e politicamente forti. Per non offrire agli elettori lo spettacolo di divisioni permanenti, pensando che comporre le divisioni era, se possibile, un compito importante di chi era dirigente.

Quando Moro dovette affrontare con una DC riottosa la grande sfida del Governo aperto all’appoggio dei comunisti non contò solo sulla propria autorevolezza. Si spese in colloqui innumerevoli con ogni singolo parlamentare, non volendo perdere nessuno per strada. Tutti dovevano arrivare a condividere. Non volle lasciare dissenziente nemmeno Scalfaro, a quel tempo fiero anticomunista. E così fece Berlinguer nel suo campo. Così si ottengono le grandi svolte storiche. Certo ci voleva pazienza, umiltà, rispetto, determinazione. E non sempre il risultato era positivo. Poteva anche manifestarsi una incapacità di decidere, un compromesso al ribasso. Ma mi sento di dire che se nella conduzione del partito in questi anni avessimo avuto un po’ meno di presunzione, un po’ meno di giglio magico e un po’ più caminetti positivi avremmo evitato di perdere tanti dirigenti, tanti militanti e tanti elettori.

I veri amici di Renzi (se ne ha) dovrebbero in queste ore consigliarlo di ritirarsi, senza attese e senza subordinate. Nessuno è indispensabile, l’ho imparato in lunghi anni di militanza politica non priva di asprezze e di dolori, accanto a gioie e soddisfazioni. E del resto è la dura legge della politica. E’ capitato a D’Alema, a Veltroni, a Bersani. Dimissionari dopo sconfitte per la verità molto meno gravi di questa. E possiamo fare il classico esempio di Churchill sconfitto alle elezioni dopo aver portato il suo popolo alla vittoria contro il nazismo…C’è sempre tempo per essere richiamato, quando serve e se ne verificano le condizioni.

C’è un lavoro enorme da impostare, l’apertura di un nuovo ciclo. Chi più di Renzi, che ha inventato il termine rottamazione, può ora comprenderlo?

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2 commenti

  1. Paolo
    8 marzo 2018

    Come non essere d’accordo:se tenesse al pd dovrebbe dimettersi e basta


  2. Walter
    8 marzo 2018

    Condivido l’analisi ed il giudizio tranquillo.


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