“Una idea che conduce, una speranza tenace” Per ripartire

Pubblicato il 28 marzo 2018, da Pd e dintorni,Relazioni e interventi

Riporto qui il testo di un intervento fatto il 26 marzo 2018 ad una iniziativa organizzata dal Circolo il Ponte a Padova. Chiamati dal Segretario Fabio Intermite con Davide Tramarin e Elio Armano abbiamo cercato di dare un contributo di riflessione sullo stato del partito. Il Circolo Il Ponte è uno dei più dinamici della provincia. Fabio insieme ai suoi collaboratori ci mette passione e lavoro, perché i risultati da soli non vengono. È bello che questo avvenga in un luogo simbolico per la vita politica cittadina. Una vecchia sede del PCI creata con il contributo economico ed il lavoro fisico di tanti militanti. Intitolata “Il Ponte”, perché voleva essere una sede di iniziative culturali capaci di fare da ponte tra la cultura della sinistra e la cultura cattolica. E di quella eredità, fisica e intellettuale, ancora vive il Partito Democratico. Per questo è importante la memoria, non per esserne prigionieri, ma per capire quale importante eredità abbiamo il dovere di amministrare. Per renderla produttiva nel futuro

Dobbiamo guardare al futuro. Non siamo in presenza di un incidente di percorso, ma in un cambio d’epoca. Una discontinuità forse più profonda di quella generata dalla discesa in campo nel 1994 di Silvio Berlusconi, che rivoluziona l’assetto politico della prima Repubblica.

Per capire il perché certamente serve una seria analisi di ciò che è successo. Dal punto di vista dei flussi elettorali. Qui rinvio ad un ottimo e dettagliato lavoro di Alessandro Naccarato e Vanessa Camani sui risultati elettorali in provincia di Padova che sarebbe bene diffondere. Mi limito a richiamare il dato della città di Padova. Positivo se comparato a quello di altre realtà venete. Siamo uno dei pochissimi comuni in cui il PD resta il primo partito, più per la debolezza di M5S che per grandi performance nostre. E tuttavia se compariamo i dati ci possiamo rendere conto dello smottamento elettorale che c’è stato. Nelle elezioni politiche del 2006, con la mezza vittoria di Prodi, a Padova prendemmo il 33%, nel 2008 abbiamo raggiunto il 24,4%. In valore assoluto capiamo ancora meglio l’entità della perdita: passiamo da 47.519 elettori a 26.946, cioè 20.573 elettori ci hanno abbandonato. Di più nei quartieri periferici che in quelli centrali, ripetendo in piccolo la segmentazione del voto che si realizza in tutto il mondo occidentale: le periferie più alle destre, i centri più all’area progressista.

C’è poi la questione Renzi. Sarebbe interessante fare una analisi distaccata e non faziosa dello straordinario periodo del “renzismo”. Dalle speranze suscitate con la vittoria alle primarie, l’invenzione della rottamazione come messaggio forte al paese, il successo imponente alle europee (più in percentuale che in voti assoluti), l’accantonamento inurbano di Letta e l’esperienza di Governo, e poi una successione di sconfitte alle amministrative, al referendum e infine alle elezioni politiche.

Occorrerà appunto una riflessione distaccata e seria. Per il momento ribadisco la mia opinione. Renzi è stato un ottimo Presidente del Consiglio, e quando si depositerà la polvere della polemica politica in una prospettiva storica si vedrà meglio ciò di positivo per il paese che hanno fatto i Governi Letta, Renzi e Gentiloni. È stato tuttavia, sempre per me, un pessimo segretario di partito. Ha ricevuto una eredità che sia pur con molti ritardi e difetti era una eredità importante, una comunità ben radicata nei territori. Questa eredità è stata dilapidata con troppa leggerezza e presunzione.

Si è indebolito ciò che c’era senza costruire il nuovo. Si è introdotto un concetto di personalizzazione che dal centro si è propagato ai territori, il partito è diventato un luogo divisivo. Dal buonismo inclusivo di Veltroni (il “ma anche”) si è passato ad un “o con me o contro di me” tra gufi e rottamati. Se ci pensiamo una predisposizione all’antipolitica dentro cui ha mietuto M5S. E tanti silenziosamente se ne sono andati. Non nella scissione presuntuosa di Leu ma con la diaspora silenziosa di dirigenti, militanti ed elettori che sono andati a casa nell’indifferenza dei dirigenti ai vari livelli.

E tuttavia a questa mia opinione se ne potrebbe contrapporre un’altra. Che senza l’iniziativa di Renzi avremmo fatto la fine del PSF in Francia, con i socialisti passati dal 29,4 delle legislative 2012 non al 18,7 del PD ma al 7,4. Ecco, occorrerebbe proprio un lavoro in cu si storicizzi la parabola renziana, invece purtroppo spesso ci si limita a qualche analisi superficiale nell’immediato post voto e poi non ci si pensa più.

Dobbiamo guardare all’impresa che ci attende per il futuro. Impresa impegnativa. In fondo la domanda che dobbiamo porci è la stessa che si poneva Vladimir Lenin all’inizio del secolo scorso in un fortunato saggio “Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento”, in cui Lenin sviluppa in modo sistematico la sua teoria dell’organizzazione e la strategia del partito. Il che fare richiede una comprensione profonda della natura dell’impresa che dobbiamo compiere.

È una sconfitta storica. Ridurla alla sconfitta del modello renziano, che pure c’è, è un errore. In realtà dobbiamo sapere che è la sconfitta di un disegno politico di ampio respiro, nato con la messa in campo dell’Ulivo, poi completato con la nascita del Partito Democratico. L’ambizione che mettendo in campo le migliori culture politiche del ‘900 nel campo riformatore, dalla tradizione della sinistra, al cattolicesimo popolare, all’ambientalismo del fare si sarebbero organizzate risposte adeguate per i problemi della modernità. Dobbiamo riconoscere: a quella intuizione non ha corrisposto un lavoro politico all’altezza della sfida.

Alla generosità iniziale ha poi corrisposto una lenta corrosione, dall’accantonamento di Veltroni (protagonista D’Alema), alla riduzione del disegno alla ditta bersaniana, fino alla impetuosa rottamazione renziana, popolare ma improduttiva di radici.

La sinistra non è riuscita ancora ad elaborare una proposta politica convincente per affrontare il nuovo contesto della globalizzazione, con la crescita di diseguaglianze, precarietà, indebolirsi delle conquiste dello stato sociale. La sinistra aveva inventato il welfare state, che aveva accompagnato la crescita economica della seconda metà del novecento: più crescita, più redditi, più lavoro, più sicurezze sociali. Finora non abbiamo costruito una risposta con le stesse ambizioni. Vale per tutto il mondo occidentale. Negli USA Trump batte la democratica Clinton, in Francia il PSF scompare, e si vedrà quanto durerà e cosa farà il fenomeno Macron, in Germania l’SPD è fortemente indebolito, in Spagna il PSE è costretto a sostenere dall’esterno il governo dei popolari, prosciugato da Podemos e Ciudadanos.

Vale l’analisi di Carlo Calenda (che ha dato fiducia al PD, riusciremo a perdere per strada anche questa disponibilità?): “Dire che la crisi era risolta è stato un errore. La paura del futuro è giustificata e deve avere diritto di cittadinanza. Invece la politica tradizionale in Occidente da 25 anni non trae più le sue idee dalla realtà sociale: ha iniziato a prenderle da una teoria economica che disegnava un futuro migliore per tutti grazie alle tecnologie e alla globalizzazione. Come non ci fossero anche dei perdenti. Ma ci sono, e questa cecità ha finito per incrinare il principio di rappresentanza. Pensare il futuro va bene, ma la politica deve anche rappresentare i disagi del presente e governare le transizioni”.

Secondo punto. Bisogna capire come è cambiato il paese. Non possiamo averne una rappresentazione molto lontana dalla realtà. Sotto la pressione di cambiamenti epocali, di impoverimenti, di perdita di sicurezza il paese si è incattivito. La solidarietà si esprime naturalmente in molti modi e per fortuna, ma sul piano delle scelte politiche solidarietà è diventata una parola abusata e non condivisa. Come ha scritto Mario Calabresi: “Alla base c’è un impasto di rabbia e di protesta che tiene insieme l’auto blu del giudice costituzionale, la scarcerazione dello spacciatore o del ladro arrestato la sera prima, i vitalizi dei parlamentari, previlegi veri o presunti. Un impasto che si è sedimentato nella coscienza della maggioranza dei cittadini. Ora il vento soffia fortissimo e ha premiato i partiti antisistema”. A parte che considerare antisistema un partico come la Lega che governa Regioni importanti, che è stata a lungo al governo è singolare, ma così è nella percezione di molti elettori.

Bisogna capire e curare le ferite. Senza supponenza. C’è razzismo e xenofobia? Sì, se a Macerata un pazzo (?)spara per la strada a uomini di colore e la Lega diventa il primo partito c’è una malattia sociale che va curata. Non basta deprecarla. Mi vengono in mente le parole di una delle letture della messa domenicale della domenica delle Palme. Dice Isaia: “Il Signore mi ha dato una lingua di discepolo perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato”. Per gli sfiduciati abbiamo lasciato il campo al populismo. Talvolta l’abbiamo inseguito o lo abbiamo trattato superficialmente.

Ad una società ferita abbiamo offerto la legge sulle unioni civili. Una legge giusta ed equilibrata. Ma che riguarda una minoranza. L’abbiamo presentato come una grande conquista sociale. Tanta gente si è sentita trascurata da un PD che per mesi e mesi ha presentato all’opinione pubblica questo problema come il problema dei problemi. Che non ha saputo accompagnare una più generale politica per la famiglia. Interventi che pure ci sono stati ma che non hanno avuto nella comunicazione dei nostri leader eguale battage mediatico. Le riforme che riguardano le minoranze si fanno perché sono giuste. Ma bisogna presentarle al paese nel giusto modo. Non bisogna scambiare una parte per il tutto, le ideologie di minoranze acculturate e ben dotate economicamente con il paese nella sua totalità. Ed infatti ad otto mesi dall’entrata in vigore della legge le unioni celebrate sono 2.800. Le coppie omosessuali sono molte di più, ma ovviamente come vale per quelle eterosessuali non a tutte interessa un vincolo matrimoniale. Conoscere il paese in profondità è la prima virtù di un movimento politico.

L’Italia che si è espressa così largamente attorno alle proposte politiche della Lega e del M5S ha in comune il cemento di un rancore diffuso, di paure profonde, di un senso di abbandono da parte di chi ha governato. Poco importa se poi la Lega e FI stanno governando con le regioni un bel pezzo d’Italia. Per questo ho scritto fin dal 5 marzo che ritengo probabile un governo Lega/5 stelle, si vedrà se con FI o meno. Perché corrisponde ad una aspettativa e paura e rancore sono sentimenti profondi.

Da dove ripartire? Con un lavoro in profondità. Occorre mettere in campo idee nuove: che vuol dire un programma per l’Italia, in gradi di dare suggestioni positive, un recupero di riferimenti sociali, a quale Italia vogliamo dare rappresentazione, un modello organizzativo, che non può essere niente del vecchio e niente del nuovo. Leggiamo la severissima analisi di Claudio Tito su Repubblica: “Il Pd sta correndo sul filo dell’estinzione senza accorgersene. Sul centrosinistra incombe una vacuità politica che sterilizza ogni prospettiva e riduce tutto a mera tattica… Ha bisogno di trovare rapidamente una nuova prospettiva e un rinnovamento. Certo, la sua classe dirigente dovrebbe dimostrarsi in grado di riflettere su cosa significhi essere di sinistra nel 2018. Perché quei valori senza un nuovo codice interpretativo risultano perdenti e incompresi.” Analisi severa che non ha trovato replica dai dirigenti del PD…

Fare opposizione, certo. Che non è però uno stare a guardare. Possiamo attenerci a queste parole di Pierluigi Castagnetti (altro rottamato): “”L’opposizione è una delle funzioni tipiche della democrazia, una funzione piena di dignità. Si può fare in modo diverso da come l’ha fatto il M5S nella precedente legislatura, votando pregiudizialmente contro tutto e tutti, si può essere forza di opposizione seria e responsabile che vota a favore dei provvedimenti condivisi, senza rinunciare al proprio ruolo di opposizione si fa politica anche dall’opposizione. Se si ha dignità. E si hanno idee. Se non si ha né l’una né le altre, allora si deve semplicemente cambiare “mestiere”.

Idee e dignità. Sulle idee suggerisco a puro titolo di esempio due libri che aprono la mente. “L’utopia possibile” di Enrico Giovannini. È stato Ministro con Letta, soprattutto ha molto lavorato come presidente dell’Istat e prima all’OCSE sull’idea di sviluppo sostenibile, su nuove misurazioni del PIL che includano il concetto di benessere sociale. “Cambio di paradigma, uscire dalla crisi pensando il futuro” di Mauro Magatti, ed il titolo spiega bene il contenuto. Le idee ci sono occorrono imprenditori politici che le vogliano tradurre in azione politica. Questa è l’altra sfida, perché insieme alle idee nuove serve anche un leader politico capace di riunificare il vasto campo della sinistra.

Il punto è: vogliamo davvero reagire? Il nuovo cammino richiede molto tempo per ottenere risultati. Ma occorre intanto partire. Se si resta immobili nulla si otterrà. Lo choc della sconfitta non può giustificare l’immobilismo, al contrario. Ad esempio è molto positivo che il PD provinciale abbia dato inizio alla scuola di politica Ventotene: per raccogliere occorre seminare. Perché i precedenti non sono molto incoraggianti. Abbiamo perso nel 2014 a Padova e non si può dire che vi sia stata una reazione. Abbiamo perso nel 2015 alle regionali, con una débâcle paragonabile all’attuale. Reazione? Nulla, per un anno siamo stati senza segretario regionale. In attesa che decidessero a Roma, alla faccia dell’autonomia regionale.

Ci sarà una reazione ora? Me lo auguro davvero, però è un po’ sconfortante andare sul sito del PD regionale e non leggere una riga di commento sui risultati elettorali, un primo indirizzo su come reagire. Ad un certo punto è una mancanza di rispetto per gli elettori, i militanti, i dirigenti locali che si sono dati da fare ed avrebbero diritto ad avere delle indicazioni, delle chiavi di lettura. Anche perché basterebbe chiedere, in tanti sarebbero in grado di dare un contributo. Come indicazioni conclusive per non scoraggiarsi ricorro a due mostri sacri della storia politica della prima repubblica. Palmiro Togliatti, il Migliore, il carismatico segretario del PCI. Nel 1949 risponde ad un dirigente locale che gli chiede indicazioni su come condurre lo studio per migliorare l’azione politica. Davvero un altro mondo. Togliatti risponde che non basta lo studio astratto, ma bisogna indagare in profondità la realtà in cui si vuole operare. Ma questo studio conclude Togliatti “richiede attenzione, applicazione, pazienza, sforzo, disciplina e ore e ore di lavoro”. Ecco, dobbiamo tutti farci un esame di coscienza per vedere se almeno tentiamo di applicarci nel senso richiesto da Togliatti.

E poi Alcide De Gasperi, l’alter ego di Togliatti nello scontro politico nell’Italia degli anni ’50, il Segretario politico della DC ed il capo del governo. Rispondendo nel 1950 ad un giornalista che gli chiedeva di collaborare alla stesura di una biografia rifiutava la proposta, ritenendo di dover ancora lavorare per il paese, ma diceva che quando avrebbe accettato la proposta avrebbe voluto dare di sé l’immagine di una persona che aveva coltivato “la speranza tenace dei tempi malvagi e provare come un cattolico ortodosso e credente, attraverso l’illuminazione della esperienza altrui e della propria, divenne politicamente umanista e ricettivo di ogni cosa buona e di ogni fede nella libertà e nella tolleranza civile…mi dicono abile manovriero. Non è sempre un complimento. Preferirei che vedessero in me un uomo di fede. L’abilità al servizio della idea che mi conduce”.

Una idea che conduce, la speranza tenace, applicazione, pazienza e disciplina: vogliamo provarci?

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1 commento

  1. Elio Ciaccia
    28 marzo 2018

    Un contributo significativo per la riflessione come punto di partenza per guardare al futuro senza sfuggire al presente.
    Condivido molto.


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