Capire il Paese, per ripartire

Pubblicato il 31 luglio 2018, da Politica Italiana

I sondaggi dicono che permane una corrente di simpatia della maggioranza dell’opinione pubblica per il nuovo governo. Fenomeno non nuovo (è successo anche per altri governi, da Berlusconi, a Monti, a Renzi), ma nuovo per l’entità.

Nonostante il Governo si sia già dimostrato diviso sui pochi punti posti in agenda finora: dal giudizio sulle infrastrutture ritenute strategiche per il futuro del paese, o su ciò che serve al mondo produttivo per sostenere lo sviluppo che si è riavviato. Nonostante il rinvio delle promesse che avrebbero dovuto trovare realizzazione nei primi giorni di attività, dal reddito di cittadinanza, all’eliminazione della Fornero, alla introduzione della flat tax.

Non è neppure questo un fatto nuovo. È che una opinione pubblica delusa e incerta ormai da moltissimi anni (tanti nuovi inizi si sono succeduti senza cambiamenti radicali) preferisce immaginare che le cose possano cambiare affidandosi all’uomo dei miracoli. Senza riflettere davvero su ciò che non va nel paese, su quali valori assicurare un futuro, su ciò che scomodamente va cambiato. L’attesa dell’uomo del miracolo che ci dia il futuro senza cambiare noi. È stato così con Berlusconi, l’uomo con il sole in tasca, e ci è voluto molto perché quell’innamoramento cessasse.

In fondo è stato così anche con Renzi. Anche lui ha cavalcato molto l’idea che il cambiamento fosse una cosa facile, che riguardava altri, per i cittadini solo un felice miglioramento. Il messaggio della rottamazione era semplice e gradevole: c’è un grumo di vecchi politicanti che impedisce per loro interessi di fare le cose semplici e facili che servono. Con la rottamazione metteremo a posto le cose.

In questa luna di miele conta anche l’incapacità del PD a riaversi dalla sconfitta. A proporre una credibile agenda alternativa all’azione del governo, che faccia i conti con i tempi lunghi necessari per costruire una alternativa convincente, che non può ridursi alle pur necessarie critiche di giornata alle inadempienze e malefatte del governo in carica.

Perché questo avviene? Perché non è stata ancora avviata una riflessione seria sui motivi della sconfitta. Che sono diversi. Alcuni hanno a che fare con errori commessi, con semplificazioni, con illusioni. Ma il principale motivo è uno di cui non si parla e con cui facciamo fatica a voler fare i conti. Il fatto che il paese è profondamente cambiato, dal punto di vista psicologico e valoriale. Abbiamo in mente un paese diverso da quello reale, che si rivela nel consenso ampio ai due populismi. È un berlusconismo di ritorno, incattivito e più rancoroso. In cui la parola razzismo è sdoganata. Una sfiducia che riemerge nei confronti dei processi democratici. Anche l’ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti mette in luce questo desiderio dell’uomo forte. Uno che pensi per tutti.

Questo paese facciamo fatica a capirlo. Non lo vogliamo vedere. Ciò che chiamiamo populismo è ciò che una parte importante del popolo italiano vuole sentirsi dire. E ci vorrà del tempo perché si capisca che i bisogni possono essere giusti, ma la ricetta è sbagliata ed acuirà la gravità dei problemi. Preferiamo perfino vedere i nostri errori (che ci sono stati, e gravi) piuttosto che affrontare questa scomoda realtà, che va ben oltre lo svolgimento di un congresso e l’individuazione di un leader.

Si tratta di una questione ben più profonda: riacquistare una capacità di lettura della società (non solo di quella parte di società che ci è più vicina per sentimenti e valori), si tratta di ricostruire un legame con un tessuto connettivo del paese che abbiamo perso per strada.

Ho riletto recentemente alcune pagine dei diari di Pietro Nenni, quelle dedicate alla grave sconfitta del Partito Socialista nelle elezioni del 18 aprile 1948. La DC guidata da Alcide de Gasperi trionfò con il 48,51%, il Fronte democratico popolare, che vedeva insieme comunisti e socialisti, si fermò al 30,98%. E i socialisti furono duramente penalizzati dal gioco delle preferenze guidate dalla egemonia comunista, portando alla Camera solo 53 deputati, rispetto ai126 comunisti e ai 305 democristiani.

Il 20 aprile del 1948 Nenni, segretario del PSI, annotava nel suo diario: “Come mai ci è sfuggito il senso di paura al quale dobbiamo la sconfitta? Siamo dunque così staccati dal paese da non saperne più controllare i sentimenti e le opinioni?

Sono passati da allora 70 anni giusti, eppure in un contesto del tutto cambiato le riflessioni di Nenni restano di una assoluta attualità. Che possono servire anche a noi del PD per ritrovare il filo del che fare.

Bisogna ripartire da lì. Da una comprensione migliore del paese come è fatto, delle paure che si sono consolidate e isterilite, a cui tuttavia occorre saper offrire risposte diverse ma convincenti. È un piegarsi sul paese reso più difficile dal rinsecchimento delle nostre strutture periferiche. Che pure ci sono, anche se magari nascoste. Da riattivare e valorizzare. Utilizzando meglio gli amministratori locali che riescono a vincere in contesti difficili perché non hanno perso il rapporto con il proprio popolo.

Scriveva uno sconfortato Marchese Massimo D’Azeglio dopo l’epopea del Risorgimento: “hanno voluto fare l’Italia nuova e loro rimanere quelli di prima”. Ecco il problema è questo: troppi cittadini si illudono che le cose possano cambiare grazie al capo politico del momento, ognuno di noi restando quello di prima. Non è possibile.

 

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