Piccola antologia sull’importanza della parola

Pubblicato il 29 agosto 2018, da Senza categoria

 

Nel dibattito pubblico (ma c’è ancora un “dibattito”?) la parola sta perdendo di significato. La si usa con disinvoltura senza un principio di verità. Credo a quello che mi piace, con una logica da tifo calcistico. Così c’è chi pensa che Salvini abbia impedito l’arrivo dei profughi della nave Diciotti. Invece sono tutti in Italia, accolti secondo la legge italiana, tranne (forse) una decina accolti dall’Albania ed una decina in Irlanda (omaggio a Papa Francesco in visita).

È una questione che riguarda la vita democratica. Così vi offro una piccola antologia di riflessioni su questo aspetto grave e decisivo, a partire da un passo di un bel libro, di cui consiglio la lettura (Giuseppe Antonelli, Volgare eloquenza, come le parole hanno paralizzato la politica) in cui Antonelli descrive il degrado del linguaggio pubblico:

“Un linguaggio elementare, refrattario al ragionamento, che al logos preferisce i loghi. Un linguaggio infantile che rinunciando ad interpretare la complessità del mondo la semplifica in una serie di disegnini stilizzati”

Poi ricorro alle parole del vescovo di Trento Lauro Tisi, nell’omelia della messa di commemorazione di Papa Luciani. Commentando un passo drammatico del Vangelo, quello in cui Gesù si sente abbandonato da una parte dei discepoli, che si misurano con la durezza del cammino proposto, il Vescovo parla così:

“Ogni giorno, purtroppo, sentiamo risuonare nelle nostre strade, nel web e nelle nostre stanze ecclesiali la sprezzante risposta di Caino: “Sono forse io il custode di mio fratello?”.

Dura è la parola della libertà: “Volete andarvene anche voi?”. Le nostre parole vanno di fretta, non hanno tempo per ascoltare, non attendono risposta, sono parole saccenti, presuntuose; vogliono chiudere le questioni, non affrontare l’ebbrezza e la fatica del dialogo. Non conoscono la discrezione di chi prova a capire e comprendere, di chi si accosta in punta di piedi all’altro rispettandone il mistero.

Dura è la parola che accetta di essere contradetta, perfino respinta e tradita. Dura è la parola che rimane fedele a sé stessa, che non vuol diventare fake news, che non si guarda allo specchio, ma si adopera in ogni modo per dare campo all’altro”.

Vado indietro nel tempo e vi propongo un pensiero di Dag Hammarskiold, primo segretario generale dell’ONU. Siamo negli anni 50, in un mondo in cui la comunicazione era molto più semplificata, eppure Hammarskiold ha ben presente il problema:

“Rispettare la parola: usarla con estrema cura e incorruttibile amore per la verità, ecco una condizione perché maturino la società e la specie umana. Abusare della parola equivale a disprezzare l’essere umano.”

Ce lo ricorda anche Massimo Recalcati:

“Le parole sono vive, entrano nel corpo, bucano la pancia: possono essere pietre o bolle di sapone, foglie miracolose. Possono fare innamorare o ferire. Le parole non sono solo mezzi per comunicare, le parole non sono solo il veicolo dell’informazione ma sono corpo, carne, vita, desiderio. Noi non usiamo semplicemente le parole, ma siamo fatti di parole, viviamo e respiriamo nelle parole”.

Infine ricorro ad un celebre passo del Giorno della Civetta di Sciascia, in cui il padrino mafioso Mariano spiega la sua visione dell’umanità al capitano dei carabinieri Bellodi:

“Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre”.

Ecco c’è una grave malattia della democrazia se nel dibattito pubblico finiscono per prevalere i quaquaraquà, che starnazzano parole senza fondamento, invece di voler essere davvero informati, restando curiosi di opinioni diverse, rispettando idee differenti. Penso sempre tuttavia a quella parte di cittadini che si stanno ribellando a questo andazzo e a quelli che sono solo silenziosamente disorientati ed aspettano una alternativa al triste spettacolo odierno. È a loro che bisogna parlare con parole di verità.

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