Le donne e la grande guerra

Pubblicato il 4 novembre 2018, da Relazioni e interventi

Convegno Internazionale Lions Alpine Cooperation – Lions Club San Pelagio

Dalle ceneri della Grande Guerra alla pace senza confini

Padova 4 novembre 2018

 LE DONNE E LA GRANDE GUERRA

Comunicazione di Paolo Giaretta

Sono passati cento anni. Ma il ricordo è ancora vivo in tutte le nazioni che furono belligeranti che da quella Guerra furono profondamente segnate. Anche nel più piccolo dei nostri paesi al di là e al di qua delle Alpi c’è un monumento ai caduti a ricordare quanto doloroso fu il sacrificio dei popoli europei.

Fu chiamata da subito, per istinto popolare la Grande Guerra. Era una guerra “Grande” non solo per estensione dei fronti e per numero degli stati coinvolti: mai prima c’erano stati tanti soldati in trincea, tante armi in dotazioni agli eserciti, tante industrie impegnate a sostenere lo sforzo bellico e tanta popolazione civile a subirne le conseguenze.

Alla fine la tragica contabilità della guerra nelle nazioni coinvolte fu di 10 milioni di morti tra i militari 7 milioni tra i civili, 8 milioni di invalidi.

Sofferenze indicibili dei soldati al fronte, chiamati a contendersi pochi palmi di terra in un teatro di guerra aspro e difficile, in condizioni proibitive specialmente in inverno. In scontri che divennero vere e proprie carneficine. Per fare solo un esempio nella battaglia di Gorizia in soli due giorni il 9 e 10 agosto del 1916 l’esercito austriaco perse 40.000 uomini e quello italiano 50.000.

Sofferenze per la popolazione civile, quella coinvolta direttamente nel territorio attraversato dai fronti di guerra costretti ad allontanarsi abbandonando tutti i propri averi e quella restata a casa: vecchi, bambini e soprattutto le donne, chiamate a sostituire in molte mansioni gli uomini al fronte.

Se c’è un aspetto che accomuna tutte le popolazioni coinvolte nella Grande Guerra questo è il profondo e rapido mutamento della condizione femminile. Se ancora alla vigilia dello scoppio della guerra la rappresentazione prevalente della donna è quella di “angelo del focolare” dedita alla cura della famiglia la guerra – con la mobilitazione generale della popolazione maschile – obbliga la donna ad assumere ruoli prevalentemente riservati ai maschi: nei lavori agricoli, nelle fabbriche mobilitate per garantire la produzione necessaria all’alimentazione della macchina bellica, nei servizi dedicati al funzionamento delle città.

 

Tutte le donne furono accomunate da questo profondo cambiamento. Tutte, come madri, moglie, sorelle, subirono le sofferenze, le ansie, i lutti per i loro cari al fronte. In Italia ci fu il caso della signoria Clelia Calvi che ebbe 4 figli morti al fronte e il marito morto di crepacuore per il dolore dopo la morte dell’ultimo figlio. Ricevette 25 medaglie al valore.

Tutte, se pure in modo diverso a seconda delle classi sociali a cui appartenevano, videro cambiare il loro ruolo sociale e la loro posizione nella società.

Intanto pensiamo alle donne che al fronte svolsero ruoli pericolosi ma insostituibili. Innanzitutto le suore e le crocerossine che negli ospedali da campo avanzati o al ridosso del fronte provvedevano alla cura dei feriti esponendosi esse stesse al pericolo dei bombardamenti, con turni faticosissimi, in condizioni igieniche precarie, con il rischio di contrarre malattie infettive, con uno stress psicologico pesantissimo. Al fronte c’erano colera, tifo, meningiti, tetano, cangrena gassosa. Scrive una crocerossina a casa: “ci si domanda: sono creature umane, mostri, pezzi di carne bruciata? Maschere indefinibili e mostruose coprivano per lo più giovani volti di vent’anni”. Prestavano le cure fisiche, secondo la vecchia ricetta di un medico di guerra francese: “Le ferite al medico, i feriti alle infermiere”. Spesso altrettanto importanti erano le cure spirituali e psicologiche, facendo le veci delle madri e delle sorelle lontane.

Lo dicono i versi di una canzone di guerra italiana

Cara suora, cara suora son ferito

a domani non c’arrivo più,

se non c’è qui la mia mamma,

un bel fiore me lo porti tu.

 

Ma ci fu anche un ruolo delle donne in un sostegno diretto alle operazioni militari. È il caso delle “portatrici carniche”. Gruppi di donne che sul fronte italiano delle Alpi Carniche assicurano il rifornimento di munizioni e di cibo e di medicinali per i reparti avanzati, per sentieri impraticabili da mezzi motorizzati e dai muli. Partono in gruppi di 15-20 donne con la gerla sulle spalle caricata di munizioni, viveri, medicinali, superano dislivelli di più di mille metri e al ritorno riportano a valle i soldati feriti. Sono più di 1500 donne che operano in quel settore del fronte, ricevendo per la loro attività un modesto compenso, rischiando la vita, ed alcune di loro morirono colpite dai cecchini.

Anche dall’altra parte del fronte operano le donne portatrici, con le gerle cariche di materiale di guerra. Destinatari sono i soldati del Deutschen Alpenkorps e i tirolesi Standenschutzen. Alla fine del conflitto tredici di queste donne furono insignite della croce di ferro al merito di guerra.

 

Altri drammi coinvolgono le donne sul fronte. E’ la tragica realtà degli stupri di guerra, il dramma che ancora oggi si ripete nei teatri di guerra. La violenza della guerra e la violenza sulle donne. Violenze nascoste, quasi sempre non denunciate. Annota sul registro dei morti il parroco di un paese veneto nelle giornate convulse di Caporetto: “Teresa, di anni 13 e mesi 11, oggi alle ore 1 pomeridiane fu assassinata da un soldato dopo essere stata violentata”. E ci fu il dramma dei bambini nati da questi stupri, delle donne rifiutate dai mariti tornati dal fronte.

Insieme c’è la triste realtà della prostituzione. Quella organizzata, o tollerata, dai comandi militari nelle città di destinazione dei soldati in licenza o anche a ridosso del fronte. Quella di donne abbandonate a sé stesse, costrette a prostituirsi per fame, per mantenere i figli.

 

Nelle città e nelle campagne le donne assolvono ruoli totalmente nuovi. La necessità di sostituire gli uomini partiti per il fronte le porta nel giro di pochi mesi a svolgere ruoli prima impensati. Tramviere, ferroviere, postine, vigili del fuoco, impiegate nelle banche e negli uffici pubblici, operaie naturalmente, particolarmente nelle fabbriche di munizioni o in quelle tessili, a servizio degli eserciti. E restano prevalentemente sulle spalle delle donne i pesanti lavori agricoli.

Scriveva nel 1917 un importante giornalista italiano, Ugo Ojetti, impiegato al Comando Supremo dell’Esercito: “la fiumana di donne penetra, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli uomini, dai campi alle fabbriche. Talune è vero assomigliano ai bambini, specie quando ancora non ne hanno di propri: si stancano, si distraggono, sospirano, litigano, scioperano, minacciano, strillano. Ma le più lavorano e sono preziose e si ha bisogno di loro”.

 

Diverse sono le conseguenze a seconda delle classi sociali di appartenenza. Per le donne della nobiltà e dell’alta borghesia la guerra significava un impegno soprattutto nel campo della assistenza ai soldati: iniziative patriottiche per la raccolta di fondi, invio di pacchi dono per i soldati al fronte, comitati di accoglienza per i soldati in licenza, ecc. Diventano “madrine di guerra” corrispondendo con i soldati al fronte. Una attività molto diffusa fu la confezione di indumenti di lana, per completare lo scarso equipaggiamento invernale: sciarpe, calze, panciotti, maglie divennero la produzione di tante donne benestanti che per questa via si sentirono partecipi dello sforzo bellico. Furono molte tuttavia le donne di nobili famiglie che partirono per il fronte come medici e come crocerossine. Racconta Elisa Mayer Rizzoli: “Iersera quello che era meno grave mi è morto tra le braccia dissanguato. Sono rimasta intrisa del suo sangue, mai ne avevo visto tanto e ne avevo sentito l’orrore nelle mie vesti e nelle mie mani”.

 

Per le donne del ceto medio, che già avevano avuto accesso all’istruzione, le nuove esigenze dell’economia di guerra furono una occasione per acquisire nuovi ruoli pubblicamente riconosciuti, sentendosi valorizzate in ruoli socialmente utili al di fuori dello stretto ambito familiare.

 

Il peso maggiore fu naturalmente sopportato dalle donne delle classi popolari.

I paesi belligeranti avevano una struttura economica ancora largamente basata sull’agricoltura ed una agricoltura poco meccanizzata, basata sul lavoro manuale. Uomini (ed anche il bestiame da lavoro, cavalli, muli) requisiti per le necessità belliche, sui campi restavano gli anziani e soprattutto le donne, che dovettero sostituirsi agli uomini nei pesantissimi lavori nei campi. Con una doppia fatica, perché restava sulle loro spalle il lavoro di cura familiare, con i numerosi bambini che caratterizzavano le famiglie contadine dell’epoca, senza neppure avere una valorizzazione sociale. Perché restava la struttura patriarcale tradizionale e il vecchio capofamiglia e la suocera continuavano ad esercitare i propri poteri, spesso senza alcun rispetto per il nuovo protagonismo assunto dalla donna.

Alla donna spettava il procacciamento del cibo quotidiano, reso sempre più difficile in tutti i paesi belligeranti per il diminuire della produzione agricola, la speculazione sui prezzi delle derrate alimentari. In quasi tutti i paesi il potere d’acquisto dei salari risultava dimezzato negli anni della guerra, con generi di prima necessità di sempre più difficile reperimento. Toccava alle donne combattere la battaglia quotidiana per avere di che sostenere i figli. In tutti i paesi in guerra le vicende sono le stesse. Ad esempio a Padova il Vescovo Pelizzo scrive nel 1917 in una lettera a Papa Benedetto XV: “in città penuria di legno e di farina, in molti paesi di campagna ammutinamento di donne che reclamano un maggior sussidio: arresti, imprigionamenti, processi e condanne in prigione e i bambini soli in casa, mentre la madre sconta il carcere”.

Il 1917 è per tutti l’anno della fame. Di qua e al di là delle Alpi il raccolto dell’estate del 1917 viene consumato in due mesi. Quel po’ che c’è viene requisito dagli eserciti. Le popolazioni, e le donne diventate capi famiglia, subiscono drammatiche carestie. Nelle zone del Veneto occupate dopo la rotta di Caporetto si calcola che a fine guerra i morti per fame siano stati più di 10.000. Nel comune di Valdobbiadene fu affissa una lapide a ricordo delle sofferenze della popolazione civile: “Cittadini uccisi da proiettili n. 51 – Cittadini morti per fame n. 484”.

 

Il cambiamento più profondo per la condizione femminile riguarda indubbiamente la fabbrica manifatturiera. La manodopera femminile era già largamente presente nell’industria tessile ma con lo scoppio della guerra la presenza femminile si estende a tutto l’apparato produttivo. All’industria pesante che doveva garantire una adeguata produzione di armamenti. Le donne entrano in fonderia, nell’industria metalmeccanica, diventano tornitrici, attrezziste, operaie specializzate, producono proiettili e bombe a mano. Entrano nell’industria chimica per la produzione di esplosivi, contraendo gravi malattie professionali. E tuttavia la condizione femminile in fabbrica restava peggiore di quella degli operai maschi, con salari inferiori ed orari di lavoro massacranti. La presenza femminile era anche vista con fastidio dai vecchi operai o dai dirigenti, come un problema in più da gestire.

 

La guerra finiva il 4 novembre del 1918. Finiva “l’inutile strage”, il “suicidio dell’Europa civile”, la «disonorante carneficina». La “tragedia dell’odio umano e dell’umana demenza» secondo le durissime ed inascoltate parole di Papa Benedetto XV. Qui a Padova si firmava il 3 novembre l’armistizio. Le ostilità dovevano cessare su tutto il fronte alle ore 15 del 4 novembre. Alle ore 14,50 i reparti austriaci attestati sul Tagliamento assistettero increduli alla carica di un reparto di cavalleria italiana. Furono costretti a rispondere al fuoco e cadde l’ultimo soldato italiano della Grande Guerra. Era un ragazzo di 19 anni, si chiamava Augusto Piersanti.

 

Finita la guerra si pose il problema del lavoro per i soldati tornati dal fronte e il prezzo finirono per pagarlo le donne che si erano conquistato un nuovo protagonismo nei settori produttivi, ma furono le prime ad essere licenziate per far posto alla manodopera maschile, ai tanti reduci che chiedevano lavoro e condizioni migliori, dopo le tante promesse ricevute mentre combattevano in prima linea.

La guerra aveva comunque modificato i modelli di comportamento, la gerarchia di valori sociali, il rapporto tra i generi e le classi di età. Aveva reso più indipendenti le donne, ne aveva accresciuto il ruolo sociale, le aveva rese più consapevoli delle proprie capacità e dei propri diritti. Conquistarono il diritto di voto in Germania ed in Austria nel 1918, in Italia non si tenne fede alle promesse dei governi e le donne poterono votare solo con la Repubblica nel 1946. Le donne avevano iniziato un nuovo anche se lungo e faticoso cammino verso una piena emancipazione.

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