CHE NE SARÀ DEL PARTITO DEMOCRATICO

Pubblicato il 14 ottobre 2019, da Pd e dintorni,Relazioni e interventi

Il Circolo PD di Ponte San Nicolò ha organizzato una assemblea degli iscritti per un esame della situazione politica dopo la nascita del governo giallorosso e la scissione di Renzi. Una iniziativa che dovrebbe essere normale in un partito, ma che sembra essere divenuta una rarità. Quando negli anni ’60 venne fatto l’inedita esperienza di un governo di centrosinistra il partito allora dominante in provincia di Padova, la Democrazia Cristiana, organizzò più di 250 eventi dedicati alla presentazione del nuovo progetto politico. Sarebbe interessante sapere quanti circoli hanno oggi approfondito ciò che è successo e che ha cambiato il volto della legislatura. Insieme a Carlo Bettio, iscritto nel circolo e componente della Direzione nazionale, abbiamo cercato di introdurre il tema. È seguito un dibattito importante e appassionato da parte di iscritti e militanti presenti. Anche nuovi iscritti, perché una delle conseguenze delle vicende estive è che più cittadini hanno avvertito il rischio e hanno sentito il bisogno di un impegno più attivo. Cosicché gli iscritti al Circolo, grazie anche alla dedizione del segretario Paolo Schiavon, sono aumentati, fenomeno nuovo. Se si lavora i risultati vengono. Riporto qui la mia relazione introduttiva.

 

È una iniziativa preziosa quello del circolo PD di Ponte San Nicolò di creare una occasione di confronto ed informazione sulla situazione politica. Essere partito politico vuol dire anche essere una comunità, che si incontra per riflettere, per informarsi, per manifestare la propria opinione e confrontarla con quella di altri che condividono il cammino.

Certamente attraversiamo un momento di profondo cambiamento, di un affaccio di situazioni politiche inedite, di fronte alle quali gli iscritti hanno diritto di ascoltare una parola e di confrontarsi per trovare insieme un orientamento condiviso. Non bastano i social, non bastano i tweet per sintetici slogan, e neppure l’informazione spesso povera dei quotidiani e dei media televisivi, tra risse e ripetizione di dichiarazioni un po’ vuote.

Tre sono le questioni che si sono manifestate in modo anche imprevisto in queste settimane, che richiedono una analisi ed una riflessione:

la formazione del governo “giallorosso”: è stata la scelta giusta, vi erano altre alternative?

l’uscita dal PD di Matteo Renzi: ragioni e possibili conseguenze

il futuro del PD, in un contesto politico profondamente diverso.

 

Perchè il governo

Sulla opportunità di dare origine ad un governo con una maggioranza così anomala e potremmo dire arrischiata si è discusso anche nel PD. Scrivevo in quei giorni sul mio blog, citando il dubitante Amleto shakespeariano: “Se sia più nobile sopportare le percosse e le ingiurie di una sorte atroce, oppure prendere le armi contro un mare di guai e, combattendo, annientarli” Se sia più nobile andare in uno scontro aperto al sovranismo con elezioni politiche, con un appello al popolo, magari presentando la possibile alleanza con M5S. Oppure sopportare per il bene dell’Italia un governo complesso, con un alleato ferito senza una leadership chiara”.

Hanno contato tanti elementi per far prevalere l’idea di sostenere la fatica di un governo del paese. Penso anche un contesto internazionale che spingeva in questa direzione: dal “caro Giuseppi” di Trump agli incoraggiamenti dell’Unione Europea in direzione della nascita di una maggioranza politica anti sovranista. Penso abbiano pesato anche le preoccupazioni del Presidente della Repubblica, perché lo scioglimento delle camere è sempre una eccezione e le elezioni non avrebbero affatto garantito un risultato certo per la governabilità.

Possiamo dire che l’elemento decisivo sia stato la considerazione dei rischi reali che correva il paese. Non solo per misure di politica economica e sociale sbagliate, inadeguate o inefficaci. C’era invece un pericolo reale per la vita democratica. Con un leader politico, vicepresidente del consiglio e Ministro dell’Interno che si dedicava esclusivamente ad una predicazione quotidiano dell’odio, del disprezzo del diverso, con una esplicita coltivazione e legittimazione non solo di paure ma di veri e propri sentimenti razzisti. Con il rischio che la scelta del male e dell’odio diventasse una normalità. L’estate del Papeete è stata in fondo un grande esperimento: se fosse possibile governare l’Italia da uno stabilimento balneare, a torso nudo, tra ragazze scosciate che ballavano a ritmo di samba la storpiatura dell’inno nazionale. Con la richiesta di poteri assoluti. Per vedere se il paese si fosse ormai assuefatto al disprezzo degli equilibri costituzionali e al decoro del discorso pubblico. Si dirà che non bisogna eccedere con gli allarmi, ma tuttavia occorre sempre ripensare alla storia. In Germania il nazismo riesce a convincere un popolo frustrato dalla sconfitta bellica, piegato da una gravissima crisi economica che la colpa di tutto era degli ebrei: una minoranza che costituiva lo 0,8% della popolazione, perfettamente integrato nella società tedesca. Tanto può produrre l’odio quando viene coltivato con sapienza di mezzi.

Cosa abbia portato Salvini a decidere per la crisi di governo è materia di discussione. Se sia stato una sorta di delirio di onnipotenza, certo delle elezioni e della vittoria. Se sia stata la consapevolezza che non avrebbe potuto mantenere nessuna delle promesse sventolate, dalla flat tax all’autonomia regionale. Se sia stata la preoccupazione per uno svelamento ulteriore dei suoi rapporti con la Russia di Putin, perché è evidente che i servizi americani di materiale ne avranno, e gli USA non tollerano amoreggiamenti con la Russia.

Quel che è certo che per il momento si è tolto al paese quella erogazione quotidiana di odio, rancore e divisione che era un veleno pericoloso. È certamente un arresto provvisorio, che comunque sta togliendo nei sondaggi spazio alla lega salviniana. Salvini è costretto ad andare a Canossa dal berlusconismo pur declinante, è possibile che nella lega si formi nel tempo anche una contestazione a questo posizionamento su un partito sovranista e nazionalista, che rinnega le sue radici autonomiste.

Si vedrà, certo è essenziale che il Governo sia in grado di produrre buon governo. C’è un linguaggio pubblico che è migliorato, ma già si affacciano i mal di pancia di chi deve giustificare la capriola (Di Maio) o di chi è alla ricerca di visibilità (Renzi), sono cose che fanno male alla credibilità del governo. In ogni caso come dicono gli inglesi per sapere se il budino è buono bisogna assaggiarlo. Assaggiamo il governo e speriamo in bene. Alla base deve esserci comunque una classe politica all’altezza ed una grande generosità nei confronti del paese.

 

L’abbandono di Renzi

La decisione di Renzi di abbandonare il PD in fondo era attesa da tempo, con una preparazione fatta di messaggi ambigui, negazioni, critiche alla segreteria, preparazione di comitati, ecc. Uscita da non sottovalutare anche se al momento i sondaggi assegnano un risultato modesto. Il fatto è che ogni scissione (come la precedente che ha portato alla nascita di articolo1 e poi LEU) comporta un disorientamento dei militanti, costretti a compiere una scelta di campo spesso in modo doloroso ed in genere una immagine negativa nell’opinione pubblica, dato che conferma all’elettore medio l’idea che a sinistra non si sia capaci di stare insieme ed in fondo non si sia affidabili.

Io do un giudizio molto severo sulla decisione di Renzi, sotto diverse angolazioni.

La principale è che è senza motivazione, se non quella di una ambizione personale. La scissione avviene dopo che si è condivisa la decisione di puntare ad un nuovo governo, la decisione più significativa che spettava al partito. Anzi Renzi se ne è impropriamente attribuito il merito, ed ha avuto la sua presenza nella compagine governativa.

Il giudizio non può che essere severo a partire da una motivazione etica. Un segretario che ha retto il partito per 5 anni, con piglio padronale e poco rispetto sia degli organi statutari sia dei singoli, non può andarsene con la motivazione che non si sentiva più a suo agio. Il partito lo ha modellato come ha voluto e se oggi è nello stato che vediamo è certamente anche per le scelte sbagliate che ha compiuto. Un eccesso di personalizzazione, nessuna cura nella buona manutenzione delle strutture. Si è combattuta con superficialità la vecchia “ditta” (che era molto di più della eredità organizzativa dei ds) senza in alcun modo costruire un nuovo modello di partito: niente progetto formativo di quadri e militanti, nessun uso appropriato dei social, nessun approfondimento programmatico e culturale. In ogni caso chi da un partito molto ha avuto, a partire da due anni di guida del Governo, dovrebbe evitare di fondare un nuovo partito, combattendo (perché di questo alla fine si tratta) il partito che gli ha consentito di primeggiare sulla scena politica italiana. E poi ci vorrebbe almeno un poco di autocritica: se il partito non gli piace più dovrà riconoscere che è fallita la sua azione di segretario e di leader politico.

Renzi è stato un leader sempre divisivo. Il termine rottamazione all’inizio è molto piaciuto all’opinione pubblica. Ma in fondo in quel termine c’era una radice populista: l’idea che la politica si riduca alle “poltrone”, che il passato fosse tutto da ripudiare, che la storia inizia con uno slancio giovanilistico. Dal “Fassina chi” a “Enrico stai sereno” e a quel che ne è seguito l’idea è sempre stata quella di costruirsi dei nemici interni, da indicare all’opinione pubblica come frenatori, da svillaneggiare nel partito. Anche la narrazione di un segretario bersagliato dagli oppositori interni è stata una narrazione superficiale. Tutti i grandi leader politici, da De Gasperi a Togliatti, da Fanfani, a Berlinguer a Moro, hanno avuto nei loro partiti, sia pure in forma diversa, vivacissime dialettiche interne, pubbliche e meno pubbliche ma comunque ben robuste. E i leader sono stati grandi perché hanno saputo accettare le critiche e costruire nuove ragioni di convergenza. L’uscita di Bersani ad esempio (un leader mai divisivo, al punto di permettere a Renzi di partecipare alle primarie anche quando non ne aveva titolo statutario) è stata in ogni modo incentivata, rifiutando ogni conciliazione sul tema delicatissimo della legge elettorale congiunta alle modifiche costituzionali. Quando ad un leader interno, già segretario del partito, si toglie la dignità di essere un interlocutore e si è del tutto indifferenti agli allarmi e alle valutazioni che egli fa e quasi si fa capire di essere indifferenti alla presenza o meno nel partito è chiaro quale possa essere l’esito.

Poi in politica come nella vita occorre fare un bilancio dei risultati. Che hanno sempre molteplici ragioni ma che pure devono essere tenuti presenti. La storia di Renzi è una storia di sconfitte elettorali. È un azzardo dirlo? Bisogna guardare alla crudezza dei dati. Renzi riceve il partito con un consenso del 25,4%. Il disprezzato risultato di Bersani consente a Letta, a lui e a Gentiloni di governare per cinque anni. Restituisce il partito al 17,8%. In mezzo c’è stato certamente la grande apertura di credito delle Europee con uno splendido 40,8%. Un risultato che ha fatto credere a Renzi di avere il paese in mano. Un po’ come l’estate dell’altro Matteo. Ma poi sono state solo sconfitte, nelle grandi città, nelle regionali, nelle elezioni ultime. E soprattutto la sconfitta al referendum. Su una riforma del tutto condivisibile, ma giocata sul piano personale, procurandosi inutilmente molti nemici. Senza mai la disponibilità ad una vera analisi critica, ma sempre alzando le spalle. Con l’errore di promettere una uscita dalla politica in caso di sconfitta e di non mantenere la parola.

Una analisi troppo severa? Può anche darsi, ma l’analisi del passato va completata con il presente. Uscire dal partito dopo averlo guidato per 5 anni fondando una nuova forza politica non è un modo di sostenere un governo già complicato di suo. Perché, come già possiamo vedere, una nuova forza politica ha bisogno di visibilità e tenderà a distinguersi di fronte all’opinione pubblica, ad alzare sempre l’asticella nei confronti del governo, a vantare risultati, ecc. ecc. E per il momento per quel che valgono i sondaggi i non molti voti che sembrano andare ad Italia viva in gran parte sono sottratti al PD. Anche in questo caso comunque saranno i risultati a certificare se la mia analisi è centrata. Io penso che non vi sia un grande spazio al centro, che c’è stato in passato, ma che ora non c’è più. L’elettorato di Forza Italia è evaporato, attratto dall’estrema e non credo che Renzi possa presentarsi con l’immagine di un nuovo inizio. Vedremo. Se riuscisse sarebbe una cosa utile, ma ciò che si incomincia a vedere non va in quella direzione.

 

Che ne sarà del PD

Noi però dobbiamo occuparci soprattutto del PD. Che ne sarà del PD in questo contesto così mutato? Ai cinefili posso ricordare la famosa scena finale del colossal “Via col Vento” in cui Rossella Ho’ara alla notizia che il marito Rhett Butler ha deciso di lasciarla si domanda angosciata: “Cosa ne sarà di me?” con la beffarda risposta del Capitano Butler “Francamente me ne infischio”. Noi naturalmente non possiamo infischiarcene delle sorti del PD, ed anche Rossella ha saputo guardare al futuro con le parole finali del film “Dopotutto domani è un altro giorno” …

Perché ci sia un altro giorno occorre però un radicale cambiamento. Quando sono usciti Bersani & c.c’è chi pensava che in questo modo il PD fosse diventato più attrattivo, ora che è uscito Renzi si ripresentano entusiasmi simmetrici a sinistra . Illusioni. se non si mettono in campo idee nuove, modalità efficaci di dialogo con il paese, presidio di territori da parte di dirigenti che sappiano dirigere qualcosa, parlamentari e consiglieri regionali animatori ed organizzatore dei propri territori non ci sarà futuro, ci sarà solo un declino più o meno lento, con l’inevitabile vittoria di una destra pericolosa.

Dunque si tratta di immaginare un campo futuro per il PD. Perché lo schema politico entro cui è nato non ha più sostanza. In fondo il PD viene costruito attorno a due pilastri. La convergenza delle migliori culture politiche riformatrici del ‘900, con le due polarizzazioni attorno al campo post comunista e socialista e quella dei cattolici democratici che era prosperata dentro la Democrazia Cristiana, con le scelte che avevano portato alla nascita del PPI e della Margherita, ma anche con i contributi della cultura liberal democratica. E, secondo pilastro, un campo di gioco che evolveva in senso bipolare, con il PD chiamato a rappresentare lo schieramento contrapposto alla destra: la famosa vocazione maggioritaria.

Questi due presupposti sono sostanzialmente caduti. Le culture novecentesche, anche le migliori, hanno dato quel che potevano dare e bisogna andare oltre, per interpretare e guidare un mondo radicalmente cambiato, nel produrre, nel consumare, nell’essere comunità, con i cambiamenti geopolitici epocali. Nessuna delle certezze novecentesche è rimasta in piedi, che si parli di lavoro, di economia, di finanza, di famiglia, di informazione, di rappresentanza democratica, ecc. E gli schemi bipolari sono saltati in paesi di forte tradizione maggioritaria, figuriamoci in Italia dove la tendenza alla frammentazione con la caduta del “bipolarismo imperfetto” che ha sostenuto la prima repubblica si è ampliata, ed oggi si parla del ritorno di leggi elettorali in senso proporzionale. Del partito a vocazione maggioritaria che è stato l’impianto culturale in cui è nato il PD a trazione veltroniana non è rimasto alcuno spazio

Un campo di gioco nuovo, perciò. E dobbiamo imparare le nuove regole della contesa. Intanto: a chi ci rivolgiamo, quali parole usiamo capaci di mettere in campo quelle passioni senza le quali la politica non muove le cose? A me sembra che ci siano tre grandi aree in cui lavorare per costruire un nuovo pensiero politico che guidi l’azione del partito ed il suo contatto con il paese. In sintesi con un po’ di semplicismo:

La nuova questione sociale, tema che abbiamo sottovalutato nell’illusione che la globalizzazione avrebbe creato degli squilibri momentanei superabili dentro una crescita generalizzata della ricchezza. Questo non è avvenuto, o meglio: la ricchezza mondiale è cresciuta, aree del mondo sottosviluppate sono state investite da impetuosi processi di crescita, ma le diseguaglianze sociali non solo sono rimaste ma sono accresciute. E nei paesi occidentali che hanno visto un inedito impoverimento dei ceti medio bassi è cresciuto un senso di privazione, di insicurezza sociale, di incertezza del lavoro ed in genere del futuro che ha fatto ombra pur al permanere di sicurezze sociali rilevantissime (dalla sanità, alla scuola, alla previdenza) che si danno per scontate. Sulla crescita delle ingiustizie sociali la sinistra non ha trovato né politiche né parole adeguate.

Un nuovo modo di produrre e consumare: bisogna andare ben oltre le forme tradizionali di ambientalismo. Dall’ambientalismo del no che diffida di ogni opera di infrastrutturazione per lo sviluppo all’ambientalismo a posteriori, che cerca di sanare o mitigare ex post le criticità ambientali. Bisogna costruire una nuova alleanza sociale tra produzione, consumo, ricerca ed innovazione tecnologica, consapevolezza dell’umanità sulle conseguenze di un modello di sviluppo che crea diseconomie esterne talmente forti da mettere in discussione il concetto stesso di buona crescita.

Una democrazia 2.0: i modelli democratici affermatisi dopo la crisi delle grandi dittature novecentesche aveva alcuni presupposti: grandi partiti popolari, grandi organizzazioni sociali, interessi definiti rappresentati nei parlamenti, una efficienza in termini di risultati. Era il grande compromesso socialdemocratico: più crescita e buona distribuzione dei vantaggi della crescita, con la politica grande arbitro della redistribuzione.

È un modello che ha perso efficienza. In tanti parti del mondo cresce una domanda di autoritarismo, con l’illusione che se c’è una a decidere le cose andranno meglio. Ci sono anche le conseguenze di un profondo cambiamento del modo di formarsi delle pubbliche opinioni, con le nuove tecnologie: più fragilità e emotività, meno conoscenza reale dei fatti, abbondanza di fake news più potenti della realtà, ecc. Processi che consentono eterodirezioni oscure, manipolazioni inconsapevoli per il cittadino, come insegna il Russiagate e dintorni.

A sinistra abbiamo parlato di queste cose troppo spesso pensando solo alle riforme costituzionali o elettorali, ma il male è più profondo e va affrontato in modo radicale. Alla fine emerge il grande tema della formazione dei gruppi dirigenti: le complessità del mondo contemporaneo richiedono attori dei processi democratici non improvvisati.

 

Due strumenti: alleanze e modello di partito

Se sono vere le cose fin qui dette non possiamo eludere due temi: quello delle alleanze e quello dello strumento partito.

Il PD non può (più) immaginare di raggiungere la maggioranza da solo, per quante torsioni maggioritarie si dessero alle leggi elettorali. Può restare il perno di un campo largo da costruire. Forse può ritornare di nuovo di attualità l’intuizione originale dell’Ulivo: appunto un campo largo in cui ci possano stare esperienze e culture diverse unite però da una visione convergente sulle cose necessarie al paese. Nel nuovo contesto bisogna per forza scommettere su una evoluzione positiva del complesso e variegato mondo grillino. Con una base elettorale contraddittoria, in cui alla originale matrice di sinistra si sono sovrapposte pulsioni di destra qualunquista. Un grande magma tenuto insieme dalla coperta populista del vaffa. Roba passata, alla prova del governo locale e nazionale M5S deve scegliere. A noi conviene tentare la sponda della ragionevolezza e della governabilità, forse trovando quei numeri necessari ad un coraggioso e necessario impegno rinnovatore. Alternative per combattere una destra pericolosa non ce ne sono, ed è qui che sbaglia Calenda, le cui osservazioni possono essere condivisibili ma in sé sono del tutto improduttive di politica.

Infine per la democrazia italiana c’è bisogno di una rivalutazione dello strumento partito. Il PD resta il più grande partito in campo. Anche i 5 stelle dopo le iniziali illusioni stanno capendo che non si può vivere di soli clic sui social e sulle piattaforme digitali. Il PD ha il dovere di valorizzare ciò che ancora resta della grande eredità che ha ricevuto dai partiti novecenteschi, aggiornando ed innovando, ma preservando le tre funzioni fondamentali di un partito:

la formazione di una cultura ed un progetto condiviso, che diano senso alla militanza;

la formazione e selezione dei gruppi dirigenti;

l’animazione dei territori con la formazione di comunità capaci di rappresentare e testimoniare in modo convincente le idee e i progetti del partito.

In una società delle solitudini e della perdita di senso il partito può ritrovare un proprio spazio ed una attrattività se saprà essere comunità. Lo erano i vecchi partito, pur con i loro difetti, non lo è più il Partito Democratico, ma può tornarlo ad essere.

Ad una sola condizione: che ritorni il senso ed il valore del lavoro politico, che le carriere individuali siano frutto dei risultati che si ottengono e non della fedeltà al capo di passaggio. Che ci siano dei luoghi in cui si giudichino questi risultati e si sappiano selezionare i migliori, che si sappiano ritrovare legami profondi con ciò che si muove nella società.

Perché dobbiamo essere convinti che un pensiero innovativo sui temi che ho richiamato (giustizia sociale, sviluppo sostenibile, democrazia 2.0) circola abbondantemente nella società. Penso per tutte all’esperienza dell’Asvis, Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, del prof. Giovannini, che ha trovato per merito di Giorgio Santini la costituzione di una sezione veneta che ha iniziato a lavorare sui temi dello sviluppo sostenibile con gruppi di lavoro aperti. Oppure ai testi scritti sul tema delicato dell’immigrazione da due persone che nel PD hanno svolto una importante attività come i professori Stefano Allievi e Giampiero Dalla Zuanna, intellettuali che si sono messi alla prova nel PD, uno se ne è andato, l’altro non è stato ricandidato senatore…Queste opportunità rischiano di non avere alcun eco nel lavoro politico ad esempio del PD veneto.

Perciò un futuro ci sarebbe. Però non viene regalato. Vale anche per le ormai vicine prossime elezioni regionali. In politica si può vincere e si può perdere. Ciò che è imperdonabile è perdere senza dignità, senza seminare per il futuro.

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1 commento

  1. Fiorenza Carnovik
    15 ottobre 2019

    Condivido l’analisi e le prospettive.


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