C’è anche il virus della superficialità e della smemoratezza

Pubblicato il 15 aprile 2020, da Politica Italiana

Seguiamo ancora con ansia l’andamento dei dati tra morti e guariti. Speriamo di poter presto uscire, ma capiamo che sarà ancora lunga. Il ritorno ad una vita normale è ancora lontano.

Intanto però rischiano di consolidarsi nell’opinione pubblica valutazioni sbagliate. Complice un asfittico discorso politico. Da un alto c’è la consapevolezza di una pesante conseguenza economica e sociale, dall’altro però si pensa che lo Stato possa fare tutto.

Le minoranze, anche per una certa difficoltà di Conte a reggere la complessità, sono tornate alle dichiarazioni irresponsabili. Non avendo nulla da dire di sostanziale si chiedono più soldi senza indicare come trovarli, si cerca di individuare un nuovo  nemico (l’Europa), ecc.

Leggiamo la previsione molto pessimistica di un calo del pil di oltre il 9% (stimato dal FMI, speriamo smentito dai fatti). Se fosse vero sarebbe un impoverimento generalizzato. Pensiamo che sia possibile con una proporzionata riduzione delle entrate fiscali mantenere tutte le spese passate e in più caricare le spese eccezionali richieste dall’emergenza covid? Bisognerà fare delle scelte molto dolorose.

Il discorso pubblico ritorna ad essere molto superficiale quando bisognerebbe una capacità di attenersi ai fatti, anche se scomodi, e su una esatta rappresentazione dei fatti indicare le possibili soluzioni. Oggi faccio un esempio di discorsi superficiali, basati su pressapochismi.

E’ quello che dice: medici eroi ma governi imprevidenti che hanno tagliato i fondi alla sanità, vergogna, bisogna tornare indietro, ecc. La questione è molto più complessa e se si rifiuta la complessità si fa solo retorica superficiale.

Dal 2000 al 2018 la spesa per la sanità è cresciuta del 69 per cento, da 68,3 miliardi a 115,4. L’aumento è stato rilevante – pari al 22 per cento- anche se valutato in termini reali, ossia al netto dell’inflazione. Per effetto di questi andamenti, l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil è aumentata di un punto, dal 5,5 per cento del 2000 al 6,5% del 2018. Negli anni più recenti è vero che vi è stato un rallentamento nella crescita della spesa, ma la sanità oggi riceve dunque risorse assai più rilevanti che all’inizio del secolo.

I contenimenti comunque sono stati resi necessari dal rallentamento della crescita dal pil e dall’adozione di piani di rientro di regioni che avevano sforato ogni previsione, con costi standard fuori controllo: più spesa senza che questa si riducesse in più servizi per i cittadini. Una vergogna da correggere. E c’è stata una variazione importante nella composizione della spesa sanitaria: meno soldi per il personale (blocco del turn over blocco degli stipendi) e più soldi per l’acquisto di attrezzature e medicinali, come costosi farmaci innovativi. Chi ha avuto un conoscente malato di tumore sa cosa costa un ciclo di cure completamente a carico del servizio sanitario. A legislazione vigente la spesa sanitaria a 2021 assommerebbe a 121 miliardi di euro.

Anche queste poche cifre che riporto potrebbero essere troppo semplificatorie di un problema molto complesso, con un incrocio di competenze statali e regionali, con una forte disparità territoriale, ecc. ma almeno ci consentono di dire:

gli sprechi sono sprechi. Se ci sono nella sanità non sono meno gravi, sono più gravi perché si traducono nella limitazione di un diritto costituzionale fondamentale. Distinguere tagli dei servizi da tagli degli sprechi;

se si predica (con successo) come principale orizzonte politico la riduzione delle tasse, e anzi una riduzione concentrata sui più abbienti (come di fatto era con la flat tax) è molto ipocrita poi piangere sui scarsi fondi per la sanità. Il bilancio dello stato è fatto in un certo modo. La maggior parte delle uscite è concentrata in personale, pensioni, sanità. Se non aumentano le entrate (anche per compiacenze varie con gli evasori e comunque per una caduta del pil), se si aumenta la spesa pensionistica (quota 100) e si fanno interventi dispersivi e non ben strutturati (reddito di cittadinanza, a proposito è possibile conoscere un bilancio dei famosi facilitatori, che hanno fatto, cosa hanno ottenuto) è inutile lamentarsi che si investe poco sulla sanità, sulla ricerca, ecc.

Nella nostra storia perciò dobbiamo essere grati a quei politici lungimiranti che vollero una riforma sanitaria universale, che offrisse sicurezza a tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito. Non è un caso che fu una donna, la veneta Tina Anselmi, a portare in porto come ministro della sanità la riforma, non senza critiche e resistenze. Ma appunto guardando lontano: un servizio universale, con una partnership tra lo Stato e le autonomie regionali. Siamo nel 1978, tanti vani discorsi odierni sul federalismo, anch’essi schiacciati sulla propaganda del presente, appaiono meschini di fronte alla incisività di un vero disegno riformatore quale fu quello della sanità italiana.

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