Un partito con il popolo?

Pubblicato il 15 luglio 2020, da Pd e dintorni

Il mio ultimo post sul Pd partito senza popolo ha suscitato un certo dibattito. Sui social ma anche privatamente. È stato visto da molte centinaia di lettori, segno che di un dibattito ci sarebbe bisogno e che a forza di dare per scontato tutto si perde la passione.

Mi è stato anche chiesto perché ritengo sbagliate le battaglie contro l’omofobia o tutti gli altri termini specialistici che si usano. Non è questo. Anzi a proposito racconto un aneddoto. Quando il Ministro Bindi lavorò per affrontare il problema delle unioni civili (allora si chiamavano Dico) accompagnai (ero allora vicecapogruppo al Senato) Franco Marini segretario del Partito Popolare dal card. Ruini presidente della Conferenza Episcopale per convincerlo della giustezza del progetto Bindi. Allora ammirai molto il coraggio di Franco di rivendicare a viso aperto di fronte al cardinale il diritto dei laici cattolici di muoversi in autonomia. Fu un colloquio molto burrascoso…

Il problema è che un grande partito non può essere semplice terminale di aspettative di settori della società: deve essere capace di inserire queste aspettative in un disegno generale, con le giuste priorità e le giuste soluzioni. Se no si fa come i radicali, che tra errori che non sono mancati si sono caratterizzati per una azione lobbistica su singoli temi. Per questo hanno svolto ruoli importanti restando però un piccolo partito.

Vediamo alcune questioni generali.

Vi è nel mondo un arretramento generale sulla questione della tolleranza, del rispetto dei diritti individuali, della diversità. I populismi, i sovranismi, i nazionalismi si nutrono di paure e di nemici da disprezzare. Magari si trattasse solo di residui omofobi, è tutto un fronte: omofobia, xenofobia, razzismo, violenza contro le donne, rancori diffusi. Tanto che dobbiamo rileggere il mirabile art. 3 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Tutte le categorie di possibile discriminazione individuati dai costituenti di allora sono sotto attacco. Mio figlio che vive e lavora ad Amsterdam mi racconta di come una società tradizionalmente aperta si stia rinchiudendo con fenomeni di xenofobia, di ritrovata identità, di patriottismo linguistico, di diffidenza verso gli italiani, parificati ai turchi, ecc…

C’è un altro fenomeno, anche in questo campo il crescere delle diseguaglianze. In una parte della società non c’è alcun problema, anzi vige il politically correct, per cui non vi è un film o una fiction in cui accanto alla famiglia tradizionale non venga presentato un rapporto omo. Il problema è quello che succede invece nella società degli ultimi, dei marginali, nelle periferie sociali ed urbane: più nelle parti alte della società si parla di diritti (intendendo poi, non so perché, quelli limitati alle questioni di cui stiamo parlando) più si sviluppano reazioni identitarie, di esclusione, di voglia di marginalizzare chi si avverte come diverso da sé, con atti di violenza. Grande problema politico, ma se la sinistra non si occupa degli ultimi che sinistra è?

Infine c’è un bel paradosso: in nome dei diritti e delle libertà si introducono norme che agiscono su un terreno molto delicato: quello della limitazione del diritto di espressione, aprendo un campo parecchio indeterminato affidato alla fantasia interpretativa della magistratura, che come sappiamo in Italia non manca. E più si introducono norme specialistiche che sezionano i diritti tutelati dall’art. 3 della carta più ci si espone ad incertezze interpretative, a sensibilità che mutano nel tempo. Per questo diffido del proliferare di norme specialistiche che consentono ai proponenti di avere i loro meriti e la loro notorietà ma complicano la chiarezza normativa. E chissà che non capiamo che scrivere norme sempre nuove quando non indispensabili e indire nuove giornate della memoria indeboliscono la memoria e la forza della legge nel foro della coscienza.

Tutto qui, il ruolo di un partito è offrire una visione generale della società, una chiave interpretativa, non raccogliere isolatamente i bisogni che si manifestano. Con equilibrio e saggezza, convincendo opinioni diverse se albergano nello stesso proprio elettorato, più che banalizzarle.

Capendo tutti i bisogni: l’indagine della Banca d’Italia ci dice che l’8 per cento di famiglie italiane ha subìto una riduzione del 50 per cento del proprio reddito in questi mesi e non ha più le risorse per far fonte ai bisogni elementari. E la soluzione non può essere la proroga della Cassa Integrazione all’infinito ed il divieto di licenziamento, perché i soldi non sono infiniti e perché tutto il peso sociale si trasferisce su chi ha contratti precari a termine, su imprese che chiudono perché non gli si da prospettiva…Bisognerebbe parlare anche di questi diritti, magari prima e anche per questi diritti manifestare. Se siamo un partito.

  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn
  • RSS
  • Pinterest
  • Add to favorites
  • Print
  • Email

1 commento

  1. Michele Russi
    15 luglio 2020

    Avevo letto del Senatore Giaretta le considerazionj che ora pubblica. Le apprezzo molto.pur non condividendoke. Propoe ragioamenti cincreti il cui contenuto e’ aperto a tutte le opjnioni possibili. Quasi tutti I partiti hanno perso il proprio popolo. E quakche Sindaco, pur di regnare, si Dice estraneo aj partiti. Commettendo una grossolana jngiustizia negando che si fa gujdare dak partito che rinnega. Ecco la perdita di popolo


Scrivi un commento