Perchè Tsipras ha ragione, perchè ha torto

Pubblicato il 1 luglio 2015, da Nel Mondo

Ripubblico qui una mia vecchia relazione ad un convegno a Trissino. A che pro? Per dimostrare che non mi mancano argomenti critici sull’attuale (dis)ordine mondiale, sulla poca avvedutezza delle politiche economiche, sugli errori del FMI e delle varie troike, e che dunque comprendo benissimo le osservazioni critiche di Tsipras e soci. Ma che nonostante questo ritengo che pretendere di non pagare unilateralmente i debiti e di avere il diritto di chiedere ancora credito è una pretesa che non porta da nessuna parte. Anche perchè i debiti non pagati dalla Grecia non è che scompaiano. Semplicemente ricadono sulle spalle dei risparmiatori (quelli piccoli naturalmente) di tutta Europa. Così gli entusiasti sostenitori di Tsipras come modello della sinistra coraggiosa dovrebbero riflettere un poco di più sulle conseguenze sociali dell’insolvenza greca, in Grecia ed in Italia. Conseguenze che non si eliminano con parole sdegnate contro le banche, la finanza le lobby, ecc. gli appelli alla democrazia del popolo che mettono insieme estrema destra ed estrema sinistra (del resto nulla di nuovo: Mussolini era popolarissimo parlando del “complotto demoplutomassonico” poi ci aggiunse anche giudeo) ma con una azione politica concreta e possibile. In cui non pagare i debiti non è un diritto. Ma un accordo da costruire di reciproche convenienze. In cui  non si deve essere umiliati ma neppure si può pretendere di umiliare gli altri.grecia

OLTRE LA CRISI, PER CAPIRLA, PER SUPERARLA

Convegno dell’Associazione Sementi

 

Trissino, 13 febbraio 2012

Relazione di Paolo Giaretta

 

Nel 1967 Paolo VI pubblicava l’enciclica “Populorum progressio”. Una lungimirante analisi di un ormai incipiente avvio di quella che poi avremmo chiamato globalizzazione, evidenziandone i rischi e le opportunità. Ed ad un certo punto il Papa osserva: “Il mondo soffre per mancanza di pensiero”. Notazione straordinaria, che individuava già allora lo scarto tra processi economici che si andavano globalizzando, con conseguenze molto incisive sulla vita degli uomini e l’incapacità di organizzare un pensiero adeguato e di conseguenza anche nuove istituzioni per la democrazia in un mondo globale.

Anche la grande crisi in cui viviamo (grande crisi per il vecchio mondo occidentale…) richiede di avere un pensiero interpretativo. Se ne uscirà dalla parte giusta se le questioni economiche saranno inserite in una più ampia visione, che riguarda il senso della vita, il rapporto tra locale e globale, tra scienza ed umanità, tra popolo e istituzioni democratiche.

 

Partiamo dalla globalizzazione

Della globalizzazione molto si è detto. Una redistribuzione del lavoro a livello planetario, un commercio divenuto globale, una finanza che supera ogni vincolo nazionale. Meno si è parlato degli aspetti di una globalizzazione culturale. Con le sue opportunità: le rivoluzioni dei gelsomini favorite da un accesso libero ad informazioni globali, dalla visibilità di modelli sociali e istituzionali radicati nella libertà. Con i suoi problemi: il rischio di un modello unico guidato dalla grande industria culturale e dell’intrattenimento, un senso di spaesamento per chi avverte essere messe in discussione le proprie radici culturali.

Resta valida la descrizione dell’impresa globale che si organizza nello scenario mondiale secondo le opportunità offerte: gli stabilimenti produttivi dove più basso è il salario e più deboli sono le tutele sociali e ambientali, la sede legale dove è più conveniente la fiscalità, la sede direzionale dove migliori sono le opportunità e la qualità della vita per i dirigenti e le loro famiglie.

Nell’opinione pubblica occidentale si è fatta strada una visione negativa della globalizzazione. Per i rapidi e profondi cambiamenti negli stili di vita, nei livello di reddito, nelle tutele sociali che la nuova fase ha comportato. Bisogna però vedere il fenomeno anche con gli occhiali dell’altra parte del mondo. Per questa parte la globalizzazione ha significato l’uscita dalla povertà di fasce importanti finora escluse. E’ comunque cresciuto oltre il miliardo il numero dei cittadini del pianeta che non hanno il sufficiente per vivere, sono rimasti squilibri profondi nella distribuzione del reddito all’interno degli stati, mancano i diritti sociali fondamentali, però è profondamente cambiata la geopolitica. All’inizio del nuovo secolo i paesi del G7 raccoglievano l’80% della ricchezza del pianeta, oggi solo il 50%. La Banca Mondiale ha calcolato che al 2050 le sei nazioni in cima alla graduatoria del PIL saranno: Cina, USA, India, Giappone, Brasile e Messico. Nessun paese europeo, perché l’Europa politica resta divisa.

E’ perciò in atto una enorme redistribuzione della ricchezza a livello planetario ed è esemplare a proposito il rapporto tra Cina e Stati Uniti. Due nemici storici nell’epoca della guerra fredda, ma ora la realtà è che gli USA hanno potuto mantenere livelli di consumo superiori alla ricchezza prodotta perché la Cina ha comprato il debito americano, tenendo bassi i consumi del proprio popolo e favorendo l’accumulazione.

Cosicché quella che a noi appare (ed è) una crisi epocale per l’altra parte del mondo ha tutt’altra dimensione. Certo una frattura visibile: alla gelata occidentale ha corrisposto comunque una crescita, magari un po’ meno impetuosa dei BRIC: l’acronimo che raccoglie i paesi oggi a forte espansione: Brasile, Russia (ora però acciaccata), India, Cina. Anzi ora BRICS perché si aggiunge il Sudafrica, segno che anche l’Africa, in ritardo e con enormi bacini di povertà, si è messa comunque in movimento.

 

Un’economia del superfluo, del debito, dell’assenza di regole

Se volessimo descrivere in modo sintetico le caratteristiche fondamentali del processo di sviluppo che ha caratterizzato l’economia occidentale nell’ultimo trentennio potremmo concentrarsi su tre caratteristiche:

  • un’economia del superfluo, orientata dal marketing e dalla capacità di suscitare una domanda crescente di nuovi consumi (e perciò un senso di nuova provazione per chi non è in grado di soddisfarli);
  • un’economia del debito, con una crescente finanziarizzazione ed attualizzazione di ogni valore (e perciò una economia instabile e che depreda il benessere delle generazioni che verranno);
  • un’economia senza regole, in cui il profitto di breve periodo travolge ogni valore legato alla redditività nel tempo.

“It’s the economy, stupid” disse un leader progressista come Clinton, per spiegare il ciclo favorevole dell’economia che gli consentì di sconfiggere Bush.

Sulle cause della crisi naturalmente esiste una letteratura sterminata, ma lasciando ai tecnici la discussione, possiamo mettere in luce tre aspetti che riguardano più da vicino la vita delle persone e la latitanza delle politiche pubbliche.

 

Tre cause “politiche” della crisi economica

La crisi nasce da un eccesso di diseguaglianza. In luogo di procedere per via fiscale ad una più equa distribuzione del reddito prodotto le politiche fiscali dell’Amministrazione Bush hanno privilegiato i redditi più elevati. Per le famiglie a reddito medio e basso invece di politiche salariali adeguate a sostenere un maggiore potere d’acquisto si è concessa la possibilità di accedere a credito senza garanzie idonee e con tassi di interesse molto bassi. Ciò ha generato un colossale indebitamento delle famiglie americane e con l’esplodere della crisi un enorme impoverimento: posti di lavoro persi, case pignorate, risparmi in fumo.

La crisi nasce per una rinuncia della politica a tutelare i risparmiatori. La lievitazione di strumenti finanziari sempre più complessi che in realtà nascondono la mancanza di un rapporto tra ricchezza disponibile e strumento finanziario sono resi possibile dalla rinuncia dello Stato a svolgere il proprio compito di buon regolatore del mercato. Le autorità di vigilanza chiudono gli occhi, gli interessi tutelati sono quelli dei grandi manager, dei fondi speculativi, della creazione di ricchezza senza base produttiva.

La crisi è figlia di una scelta ideologica della destra. Risale all’epoca delle politiche del duo Reagan Thatcher sostenuto dalle idee della scuola di Chicago con Milton Friedman di eliminare ogni forma di regolazione dei movimenti di capitale a livello transnazionale creando le premesse di un eccesso di finanza speculativa che lungi dal sostenere la creazione di ricchezza diventa strumento di distruzione. I fondi speculativi si muovano a livello globale, cercando il rendimento a brevissimo termine, spesso spolpando le aziende e abbandonandole al loro destino, scommettendo sui rendimenti futuri di ogni bene, innescando rialzi speculativi di beni essenziali, dal cibo ai metalli. Realtà resa possibile da due fattori: il predominare di idee politiche ed economiche sbagliate e l’innovazione tecnologia data dal web, che consente di spostare decisioni di investimento in tutto il mondo nel tempo di millisecondi.

 

Tre insostenibilità

Da queste radici sono nate tre insostenibilità

La prima insostenibilità è di carattere sociale. Crescono molto le diseguaglianze nel mondo, sia all’interno dei singoli paesi, sia tra la parte della popolazione mondiale che è riuscita a prendere un treno della crescita e quella parte che è prigioniera della trappola della povertà. All’interno degli Stati le politiche fiscali figlie di una idea di un iperliberismo senza regole ha contribuito ad accrescere le diseguaglianze. Negli Stati Uniti il compenso medio dei top manager è divenuto pari a 150 volte il salario operaio, mentre 20 anni fa era 25 volte il salario operaio. Anche in Italia gli studi della Banca d’Italia registrano un crescere delle diseguaglianze: chi è ricco diventa più ricco, chi è povero non riesce più a trovare ascensori sociali che diano opportunità di migliorare le proprie condizioni.

E poi e soprattutto la grande questione del lavoro, che perde terreno nella distribuzione dei redditi, a vantaggio delle rendite. Una perdita di valore che non è solo economica, ma anche di status, di sistema di valori. E perciò ha conseguenze molto gravi sulla percezione del futuro. La perdita di salario significa rendere più difficile lo sviluppo, perché diminuisce il livello dei consumi e perciò la domanda di nuovi beni. Crescono le diseguaglianze, generando insicurezza e invidia sociale, si sviluppa perciò un egoismo difensivo, che apre la strada ai conservatorismi e ai populismi. Degrada perciò la qualità della democrazia e della politica, con un elettorato che si affida all’emotività.

Una seconda insostenibilità riguarda la sostenibilità ambientale. Il tema è all’attenzione del dibattito pubblico e non occorre aggiungere molte considerazioni. L’intensità dello sviluppo ha avuto come altra faccia della medaglia un pesantissimo stress ambientale: consumo delle fonti fossili accumulate per miliardi di anni, deforestazione, avvelenamento dell’area e dell’acqua, alterazioni climatiche. Finora l’ambiente non è stato un costo, ma un bene disponibile per chiunque e senza misura. Non si può continuare in questo modo: il rapporto tra produzione di ricchezza e consumo di beni non rinnovabili è troppo elevato e ci stiamo appropriando dei beni delle generazioni future. Siamo ormai in presenza di una rottura del ciclo energetico, un impoverimento della biosfera con una fortissima diminuzione delle biodiversità, ecc. Lo stock  dei beni naturali sta deperendo troppo rapidamente.

Una terza insostenibilità riguarda l’eccesso di finanziarizzazione dell’economia. Brutta parola, ma in sostanza ha significato una grande finzione in cui si è privilegiato il capitale speculativo a quello creatore di ricchezza. Non vi è alcun rapporto tra la massa finanziaria e la ricchezza prodotta. Il volume delle attività supera di molte volte, da 7 a 10 il volume della ricchezza prodotta. L’indice Down Jones in 5 anni alla fine degli anni 90 è passato da circa 3.000 a oltre 11.000: quasi quadruplicato, ma nello stesso tempo il prodotto interno lordo cresceva solo del 30% e gli utili delle aziende quotate in borsa del 60%. Non diventa più conveniente dedicarsi alla produzione di ricchezza materiale, innovare sulla qualità dei prodotti. Rende di più scommettere sul futuro. Come ha osservato Giorgio Ruffolo questa enorme finanziarizzazione non genera nuova ricchezza. Gran parte delle transazioni avviene su mercati secondari, riguardano cioè titoli che rappresentano ricchezze già esistenti e si risolve quindi in distribuzione della ricchezza esistente.

 

Oltre lo smarrimento

E’ un momento nella storia del mondo occidentale di grande smarrimento. Si profila un futuro di impoverimento relativo, in cui le certezze che avevano garantito la coesione sociale dopo la tragedia bellica si indeboliscono. Le grandi conquiste dello stato sociale: pensione, salute, istruzione, vengono messe in discussione. L’incapacità di vedere un futuro accettabile genera paure e dalla paura nasce ogni populismo, tensioni xenofobe, ecc. Non vengono percepite leadership politiche sufficientemente autorevoli e carismatiche per prendere per mano un popolo e guidarlo in un nuovo cammino di sviluppo.

Potremmo richiamare quel passo del Vangelo di Matteo: “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt, 9,36).

Vorrei qui indicare tre piste di riflessione.

 

Di nuovo la persona al centro

La natura antropologica della crisi. Limitando lo sguardo all’Italia il Card. Bagnasco ha parlato di un “disastro antropologico”. Qui rinvierei alle ultime due prolusioni al Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana in questi temi sono trattati con ampiezza di argomentazioni.

Vi è una società dell’eccesso di precarietà che impedisce lo svilupparsi di un progetto di vita sufficientemente stabile, con progetti di lungo periodo. Vi è una società dello smarrimento: alcuni dati statistici dovrebbero fare riflettere di più la politica. Negli ultimi 5 anni sono cresciuti del 35% i reati di percosse, del 35% i reati di minacce ed ingiurie, del 114% il consumo degli antidepressivi, per non parlare del consumo di alcol e droga anche in età giovanissima. Tutti segni di una instabilità relazionale, di una incapacità di relazionarsi a livello comunitario. Vi è una società del reality, ormai non più in grado di distinguere tra la realtà e la sua rappresentazione. Così si fa una gita per farsi fotografare sorridenti di fronte al relitto della Costa, dove sono morti decine di persone, o si passa una giornata ad Avetrana, per sentirsi parte del grande e miserevole spettacolo montato su una tragedia familiare, a sua volta generata dall’incapacità di distinguere tra reality e realtà vissuta.

Vale la riflessione dello scrittore tedesco M. Ende: “Siamo corsi così avanti in questi anni che dobbiamo sostare un attimo per consentire alla nostra anima di raggiungerci”. O come dicevano in dialogo Giuseppe Ungaretti e Mario Rigoni Stern già qualche anno fa, intravedendo il futuro: “C’è il progresso tecnologico che ora va velocissimo, c’è il progresso morale che ora tiene il passo, e la distanza si fa sempre più lunga”.

Bisogna ricongiungere queste due velocità. Le trasformazioni tecnologiche, la disponibilità di beni, essere inseriti nel flusso di una società affluente sono tutti elementi insufficienti. Se non c’è una adeguata risposta al senso della vita si inceppa anche il meccanismo dello sviluppo.

 

E’ possibile una nuova economia

Costruire una nuova economia. Da un lato, in conseguenza dello stress ambientale, del limite della società del marketing che collega lo sviluppo ad una più che proporzionale crescita del consumo dei beni materiali occorre ridefinire il sistema dei beni da produrre, con più attenzione ai beni immateriali, relazionali, ai beni comuni. Con uno sviluppo della green economy e della blue economy, che pongono una relazione sostenibile tra beni consumati per produrre nuovi beni ed i beni prodotti, con un bilancio ambientale ed energetico in pareggio. Le nuove tecnologie sono state fonti anche di problemi ma forniscono anche le soluzioni ai problemi che creano. Ci sono diversi filoni di pensiero che senza giungere all’idea di una economia della decrescita guardano ad esempio alla economia dell’abbastanza in sostituzione dell’economia dell’abbondanza. Si sviluppano anche nuovi indici per misurare lo sviluppo, che ampliano la capacità di lettura del PIL, affiancandolo con indici di sostenibilità sociale ed ambientale.

D’altro lato si tratta di cambiare dal di dentro il processo produttivo. Qui c’è un filone di pensiero molto importante che si sta sviluppando a partire dalla dottrina sociale della Chiesa. E questo è il punto fondamentale del messaggio della Caritas in Veritate, quando Benedetto XVI sottolinea che la dottrina sociale della Chiesa “ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o dopo di essa”. Si tratta di orientare il pensiero su un nuovo fondamento nella visione dell’attività economica: la centralità di un’etica condivisa basata sul rispetto della pienezza della persona umana come fattore non solo di equilibrio individuale ma come risorsa collettiva per il buon funzionamento del mercato e delle relazioni economiche.

 

Un nuovo ordine mondiale

Infine è la capacità di costruire un nuovo ordine mondiale. La dilatazione delle potenzialità della tecnologia, degli scambi a livello planetario, di una economia che travalica i confini degli stati e può imporsi ai poteri degli stati richiede la capacità di costruire nuove istituzioni globali. Non solo aprendo ad una maggiore partecipazioni quelle esistenti, tenendo conto delle variazioni della geopolitica, ma rafforzando ed ampliando le istituzioni regionali esistenti. Per questo è decisivo un ulteriore passo in avanti delle istituzioni europee, verso un vero e proprio stato federale a base democratica, capace di essere un fattore di equilibrio nel mondo multipolare.

 

 

Una conclusione

Riporto qui le penetranti riflessioni di Enzo Rullani nel suo ultimo libro “Modernità sostenibile” in cui osserva che la grande ambizione della modernità dalla rivoluzione industriale in poi era quella di esprimere con la scienza e la tecnica una capacità di dominio sulla natura e nello stesso tempo di accrescere la libertà delle persone, non più condizionate dalle esigenze della sopravvivenza. Ma, come giustamente osserva Rullani “il programma della modernità ha avuto in tutto questo periodo uno straordinario successo sul piano del dominio della natura segnando così il modo di vivere, di lavorare, di produrre di tutto il mondo sviluppato. Ma non ha invece mantenuto la promessa di liberare i soggetti e la loro capacità di autodeterminazione”.

Si apre perciò una nuova fase che deve dare radici più solide ad uno sviluppo integrale dell’umanità. Un cambiamento guidato da una più matura visione dei bisogni dell’uomo.

Lo ha espresso bene la grande cantante argentina Mercedes Sosa, cantando una canzone del musicista cileno Julio Numhauser che è stata la colonna sonora del ritorno dell’Argentina alla democrazia:

 

Cambia, todo cambia

cambia lo superficial

cambia también lo profundo

cambia el modo de pensar

cambia todo en este mundo.

 

Sì, essere capaci di costruire un cambiamento fondato sulla dignità della famiglia umana e dei suoi fondamentali diritti

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