PD, dieci anni di vita. Dall’entusiasmo alla consapevolezza

Pubblicato il 17 ottobre 2017, da Pd e dintorni

 

Casale sul Sile, 15 ottobre 2010

Il Circolo PD di Casale sul Sile ha giustamente voluto cogliere l’occasione del decennale della fondazione del PD per una riflessione con gli iscritti ed elettori delle primarie, con questo titolo. Ne abbiamo parlato con il Segretario reggente del circolo Flavio Zanocco e con il Segretario Regionale dei giovani democratici Alessandro Basso. Un dibattito interessante. Con gente che ha voglia di dire la sua. Con suggerimenti sempre utili. A riprova che il lavoro alla cosiddetta periferia è un lavoro sempre utile e necessario. Che se venisse praticato con più continuità ci sarebbero risultati migliori.

Un compleanno impegnativo di un partito (dieci anni sono tanti nella contemporaneità liquida della politica) deve servire anche ad un bilancio. Essere orgogliosi di ciò che di positivo si è creato, essere consapevoli di ciò che non si è riusciti a fare, essere determinati nel correggere gli errori e rilanciare l’impresa.

Cosa ricordo del periodo di fondazione del PD? Il senso di una grande ma ricompensata fatica politica per preparare la sua nascita, vincere resistenze legittime legate ad un sistema di valori che aveva guidato le precedenti esperienze politiche o resistenze infondate, legate alla poca disponibilità al cambiamento, alla possibile perdita di posizioni di potere all’interno dei vecchi partiti.

E poi una stagione per molti di grande entusiasmo. La sensazione di impegnarsi in una nuova storia per il bene dell’Italia. Tanti dicevano, specie tra i militanti di base: “Finalmente, finalmente una casa comune dei riformisti italiani”. Basta divisioni. Appunto: un Partito nuovo per un’Italia nuova, secondo le suggestive parole di Walter Veltroni nel discorso fondativo del Lingotto. Un’Italia nuova da costruire, per prepararla alle sfide della contemporaneità, del mondo globalizzato, un partito nuovo in cui gli italiani progressisti potessero riconoscersi, superando le vecchie forme partito del ‘900, attorno a cui ricostruire un equilibrio politico per il paese, dopo la fine della Prima repubblica, l’avventura berlusconiana, la caduta del primo Prodi per il vizio antico delle divisioni a sinistra.

Dieci anni di storia complicata, segnata da momenti forti, di una fiducia data dal popolo, ma anche da cadute e divisioni. La stagione di Veltroni, con l’ambizione di dare una forma partito al progetto dell’Ulivo, interrotta dalle resistenze interne di chi più che un nuovo partito voleva la prosecuzione delle vecchie storie. La parentesi con Dario Franceschini e l’elezione con le primarie di Pierluigi Bersani, e l’idea generosa ma malfondata che si trattasse di tornare alle virtù della “Ditta”. La parentesi di Guglielmo Epifani e poi la travolgente affermazione di Matteo Renzi. Una idea di discontinuità con il passato, una sorta di nuovo inizio che, nello slogan semplificato della rottamazione, cercava di rigenerare lo spazio politico del PD.

Una storia di vittorie e di sconfitte, di slanci generosi con la massiccia partecipazione del popolo progressista alle primarie, di errori commessi, di gente persa per strada, di un patrimonio che non sempre è stato custodito con la cura necessaria e fatto esprimere con tutte le potenzialità.

E tuttavia se guardiamo al panorama europeo, con una pesante restrizione del campo politico della tradizione socialdemocratica e laburista, dalla Germania, alla Francia, alla Spagna, all’Inghilterra, ai paesi scandinavi, all’Austria, per non parlare dei paesi dell’Est, l’esperienza del partito democratico resta in Europa quella capace di raccogliere i più ampi consensi, di conservarsi il mandato popolare per governare.

Il ricordo dei dieci anni trascorsi non può tradursi in una operazione un po’ retorica. Dovrebbe servire anche ad imparare dagli errori, a vedere qual è la strada possibile per restare all’altezza delle ambizioni per cui il PD è nato.

Evitando, come ho già ricordato in parecchie occasioni in cui si è parlato del PD tre possibili (e ricorrenti) errori:

l’operazione nostalgia. Ricordare del passato solo le cose migliori, rimuovendo il ricordo delle cose che non andavano. La mia generazione può avere certamente ricordi di momenti di grande partecipazione popolare, di partiti-massa, alimentati da passioni ed idee forti. Ma il passato non ritorna e la ricostruzione semplificata di questo passato non aiuta affatto a costruire il futuro;

il pessimismo come orizzonte: non si può fare nulla, la partita ormai è persa. La gente non ha più fiducia, ecc. Ma questo è il tempo della nostra responsabilità, le difficoltà (che sempre ci sono in ogni tempo) sono lì per essere superate, senza spaventarsi e senza cedere ad un fatalismo inconcludente;

la dittatura del presente, inseguendo le emozioni dell’elettorato senza cercare di orientarlo, senza proporre una visione che dia il senso di una direzione di marcia, di un sistema di valori che danno significato ed una armatura alle decisioni quotidiane.

Cosa ci possono insegnare questi dieci anni, più per indirizzarci sugli impegni del futuro che per celebrare un anniversario? Potremmo definire così il PD:

un partito necessario, un partito ancora incompiuto. Un partito necessario di fronte al ripresentarsi di vecchie sfide e di nuove questioni.

Una grande crisi a livello globale delle forme in cui si è espressa la democrazia a partire dalla seconda metà del secolo scorso, come risposta alle grandi dittature ed alle guerre disastrose che ne avevano caratterizzato la prima metà. Una democrazia robusta, costruita nei 30 anni d’oro del dopoguerra, basata sull’affermarsi dello stato del benessere, il diffondersi di reddito e diritti, camminando sulle gambe di grandi organizzazioni di intermediazione e rappresentanza, dai partiti popolari ai sindacati. Con una elevata mobilitazione e partecipazione al voto. Una fiducia nel futuro, nella possibilità di elevare le proprie condizioni di vita e di farlo anche attraverso un impegno collettivo usando gli strumenti della democrazia.

Quella spinta si è esaurita. Crisi degli organismi di intermediazione e rappresentanza, scarsa partecipazione al voto, come fonte di legittimazione dei processi democratici: tra chi non esprime più il proprio voto e chi vota per movimenti politici esplicitamente contrari alle convenzioni democratiche fin qui acquisite rischiano di essere una minoranza coloro che esprimono ancora fiducia nei sistemi della democrazia rappresentativa. Come ha scritto il sociologo Mauro Magatti questi rischiano di essere gli anni delle passioni tristi, di una conflittualità che si rifugia nel privato e non sa costruire vie d’uscita collettive.

Riemergono vecchie questioni che richiederebbero al contrario una politica autorevole, capace di muovere passioni e di condizionare i poteri che si muovono a livello globale, oltre gli stati nazionali: la grande questione dell’impoverimento economico e sociale del lavoro, il crescere di forti diseguaglianze nei redditi e nei diritti fondamentali, una insicurezza crescente nelle prospettive di vita che si traduce in paure e angosce che cercano capri espiatori, come l’immigrazione che appare incontrollata anche quando non lo è, nuove inimicizie sociali, angosce collettive a cui la politica non riesce a dare risposte. Ed in particolare sembra non attrezzata a darle la politica del fronte progressista, che invece più dovrebbe avere a cuore le sofferenze del popolo più debole ed esposto.

L’illusione a lungo coltivata dai grandi circuiti dei media di una società senza partiti, di una sorta di demonizzazione della partecipazione riorganizzata nella società e di forme di intermediazione culturale e sociale ha contribuito ulteriormente ad indebolire il processo democratico. La sperimentazione della democrazia del clic, dell’uno vale uno, si è dimostrata un fallimento dal punto di vista di una autentica partecipazione e potere decisionale, si afferma un ambiente del dibattuto pubblico fondato su fake news, in cui notizie false hanno lo stesso peso di notizie vere ed ognuno tende a credere ciò che corrisponde ai propri pregiudizi piuttosto che approfondirne la veridicità. Studi scientifici sulla comunicazione politica durante la campagna presidenziale USA hanno messo in luce come oltre tre quarti della comunicazione politica di Trump era basata su affermazioni interamente false o parzialmente non veritiere, ma questo non ha per niente danneggiato il candidato.

In questo quadro si afferma la necessità di un partito come il PD, di una infrastruttura democratica in sintonia con i valori e le previsioni della carta costituzionale.

Ne ha scritto molto bene su Democratica Pierluigi Castagnetti, una persona di cui conosco bene l’impegno generoso con cui si è battuto per far nascere nel modo giusto il PD, prima come segretario del Partito Popolare per traghettarlo nella Margherita e poi per la nascita del PD. Osserva Castagnetti: “La gente sente oggi lontana la politica e lontanissimi i partiti, perché non avverte nei loro discorsi né una sufficiente concretezza e vicinanza ai problemi della vita quotidiana, né una prospettiva non nebbiosa di futuro. L’eccellenza del paese tace e se ne sta fuori. Questo non può continuare… Il Pd nasce dall’esigenza di superare le precedenti forze politiche democratiche generate dalle ideologie del novecento, perché quelle ideologie non erano più in grado di parlare alla donna e all’uomo di questo tempo. Ma un partito non sta insieme, non crea senso di appartenenza, se non è in grado di declinare il suo pensiero sul mondo e sul modo di migliorarlo, e se rinuncia alla fatica di farsi interrogare dalle grandi questioni esistenziali che la scienza e la cultura caricano con modalità sempre inedite sulle spalle degli uomini”.

Se manca questa offerta di senso da parte della politica, una politica capace di organizzarsi in luoghi comunitari in cui si coltivi cittadinanza, partecipazione collettiva, è inevitabile la fuga per il cittadino disarmato verso il populismo, che si concentra sulla individuazione di nemici piuttosto che sulla risoluzione possibile dei problemi, nella credulità momentanea, salvo immediate delusioni, per la sloganistica più semplice ed accattivante, verso leaderismi individualistici che possono suscitare grandi emozioni ma spesso se non si fondano su una solida visione condivisa si spengono altrettanto rapidamente di come sono nati.

Un partito incompiuto. Un bilancio dei dieci anni trascorsi deve anche insegnarci a vedere il molto di incompiuto che è rimasto.

L’ambizione di fare un partito nuovo anche nelle forme è stata una ambizione ben fondata. Perché è cambiata la società, il modo di stare insieme, di comunicare, di associarsi per delle finalità condivise. I partiti hanno avuto per un lungo periodo una sorta di monopolio nell’intermediazione politica e nella partecipazione con finalità politiche. Oggi non è più così. Esistono molti altri canali di partecipazione e il partito deve essere competitivo nell’interessare il cittadino per l’offerta che riesce a fare. Il problema è che il PD non è poi andato oltre l’intuizione delle primarie, che hanno effettivamente offerto a milioni di cittadini un canale diretto di partecipazione che il cittadino ha molto gradito. Per il resto ha funzionato la parte destruens, con una trascuratezza nel gestire vecchi riti ancora utili comunque della vita politica, dalla vita nelle sezioni territoriali, al tesseramento come strumento di fidelizzazione, ecc.

Non si è forse capito che il partito leggero, il partito tenda, ecc. sono forme partito molto più impegnative di quelle tradizionali. Richiedono un lavoro più profondo, più continuo, più innovativo. Più difficile insomma.

Qui non si è neppure tentata l’impresa, anzi. Nella formazione degli organi collegiali ha funzionato più la cooptazione che la selezione per consenso e qualità, il territorio è stato sostanzialmente abbandonato alla buona volontà dei singoli, anche qui funzionando di più filiere di fedeltà al nazionale piuttosto che una azione di scouting per selezionare nuove energie e nuovi potenziali dirigenti. La funzione essenziale della formazione al di là di qualche sporadica iniziativa non si è tradotta in un lavoro in profondità, al centro e nei territori, per formare gruppi dirigenti in grado di condividere un progetto e di possedere gli strumenti adatti a coltivarlo.

Insomma: il partito vecchio non c’è più, quello nuovo deve ancora nascere. E non può nascere per qualche occasionale slogan: vi ricordate con quanta energia si presentò la piattaforma Bob, che avrebbe dovuto costituire la nuova spina dorsale della comunità telematica del PD? Nulla si è creato di significativo.

Le forme possono e devono cambiare, ma un partito per avere significato deve saper offrire tre cose fondamentali.

Un pensiero sul mondo che offra al popolo criteri di giudizio, di interpretazione, di comprensione di ciò che entra nella propria vita. Senza le rigidità ideologiche del passato, ma con una capacità di spiegare i fatti, di ricondurli ad unità, e di indicare le vie per la soluzione delel questioni che via via si presentano.

Una attività di formazione e selezione dei gruppi dirigenti, una scuola per la cittadinanza attiva che offra alle persone interessate gli strumenti per contare di più, per possedere le tecniche e le competenze necessarie al buon governo, per poter competere dentro uno spazio democratico e contendibile, in cui le capacità acquisite vengano riconosciute e premiate.

Una offerta di comunità, un luogo in cui potersi sentire a casa propria condividendo ideali, passioni, azioni concrete. In cui si è accettati per quello che si può dare, in cui si è ascoltati con curiosità ed interesse e si impara con altrettanta curiosità e rispetto ad ascoltare gli altri, crescendo insieme.

Io resto convinto che al di fuori del PD, senza il PD non si possa vincere la deriva che sta portando le opinioni pubbliche internazionali a guardare a destra, a ricette securitarie, localistiche, in cui si sfruttano paure ed ansie per raccogliere un consenso senza offrire soluzioni reali, spostando sempre più in avanti la frontiera della sfiducia, che prepara il terreno a forme autoritarie di gestione.

Però occorre fare un esame serio degli errori commessi. Correggerli. Far capire che li si è capiti. Per rigenerare il progetto del PD. Uso le parole di un nostro dirigente periferico, Giacomo Favaro: “Alla fine vince sempre la speranza, perché di delusioni e batoste ne sono arrivate ma hanno sempre lasciato porte aperte o sentieri ignoti da percorrere”. Basta volerlo.

“Pane al corpo, Istruzione all’intelligenza, Educazione al cuore” era il titolo di una relazione che i giovani cattolici padovani andavano svolgendo nei circoli della provincia all’inizio del ‘900 per propagandare le novità della dottrina sociale della Chiesa portate con la “Rerum Novarum di Leone XIII, che tanta passione aveva acceso nel cuore dei cattolici più sensibili alla questione sociale. Mi sembra una ricetta ancora valida dopo tanti anni per orientare l’azione di una organizzazione politica.

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1 commento

  1. paolo batt
    17 ottobre 2017

    Caro senatore, da quando nel 2015 mi sono reimpegnato in politica nel PD (decisione scaturita dalla constatazione, durante la campagna della Moretti in Veneto, delle condizioni in cui si trovava) , non ho visto nè partecipato ad una iniziativa che producesse, ripeto producesse, effetti positivi. Al di la delle iniziative di facciata (utili se complementari a quelle di sostanza) il PD è sostanzialmente una rete di mediocri ed opachi comitati elettorali. Allora giustamente non rimane che la “speranza” di Giacomo.Ma essendo una virtù (teologale) non tutti purtroppo possiedono questo dono.
    Con amarezza.


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