Rigenerare il PD

Pubblicato il 27 settembre 2015, da Pd e dintorni

Riporto qui il testo di una relazione che ho consegnato al convegno di Praglia. Poi a braccio sono stato più breve! Una bella giornata con relatori che ci hanno aiutato a capire: Giancarlo Corò, Ivo Rossi, Luca Romano, Achille Variati, Pierpaolo Baretta. Con il Ministro Boschi. E interventi interessanti nel dibatttito. A riprova che c’è bisogno di luoghi e di forme di discussione. Se li si offrono si produce politica. Bravo Giorgio Santini a investire su queste cose, Paolo Giacon a reggere l’organizzazione. Continueremo con chi ne ha voglia, perchè il PD ne ha bisogno.

Seminario di Praglia, 24 settembre 2015

VENETO, OLTRE LA SCONFITTA. RIFORMARE IL PAESE, RIGENERARE IL PD

Penso che sia molto giusto porsi l’obbiettivo che esprime la parola rigenerare. Di fronte alle difficoltà emerse in Veneto con il turno elettorale rigenerare lo trovo il termine esatto.

Se ne potevano usare altri. Ad esempio rifondare. Ma a parte il precedente non proprio fortunato dell’espressione rifondazione non è questo il caso. Rifondare presuppone che siano sbagliate le fondamenta di una iniziativa politica e a me sembra che le fondamenta su cui si è formato il PD erano solide e ben progettate. Semmai si sono dimostrati deboli le mura o magari si è voluto edificare dove le fondamenta non c’erano.

Oppure si potevano usare dei termini tendenti a minimizzare: riorganizzare, ridefinire, ecc. Atteggiamento sbagliato perché dobbiamo essere convinti che non abbiamo di fronte qui nel Veneto opera di ordinaria manutenzione.

Rigenerare è il termine giusto. Vuol dire ritrovare forza generativa, all’altezza della ispirazione originale, espressione di vitalità creativa. Spinta generativa che certamente c’è nella leadership politica di Matteo Renzi e questo è l’elemento principale che lo ha portato ad essere guardato con interesse anche fuori dai confini tradizionali dell’area progressista. Non si può dire lo stesso per il partito. Come abbiamo visto il consenso su Renzi non necessariamente si trasferisce sul partito e sui candidati che lo rappresentano a diversi livelli istituzionali.

Rigenerare perché restano validissime le intuizioni che hanno accompagnato la decisione coraggiosa di smobilitare i vecchi partiti e accettare la sfida del nuovo partito.

Un nuovo partito per una Italia nuova. Possiamo andare a rileggere il discorso del Lingotto di Walter Veltroni nel 2007, ad esempio quando ci ricordava che “la democrazia italiana è malata per così dire su entrambi i lati del suo nome composto: quello di “crazia”, ovvero dell’autorevolezza e della forza delle istituzioni; e quello del “demos”, ovvero della legittimazione popolare della politica”. E dopo otto anni questa crisi si è fatta più profonda. O i documenti fondativi del PD dove si sottolineava un aspetto di grande attualità, che ci deve interrogare anche per la specifica situazione del Veneto: “Un partito nuovo non nasce e non sopravvive se non risponde ad una esigenza storica, ad una domanda del tempo, che i suoi promotori sono capaci di avvertire anche quando essa non è esplicita. Nasce e sopravvive se vi risponde: se i suoi promotori riescono ad identificare aspirazioni già profondamente sentite da un gran numero di cittadini e a strappare dall’incoscienza e dall’incertezza altre esigenze ancora latenti; se riescono a rendere credibile una analisi coerente e realistica dei problemi che il paese affronta; se riescono soprattutto a rendere desiderabili soluzioni efficaci a questi problemi.”

E’ quello che aveva indicato anche Enrico Berlinguer molti anni prima, quando nel discorso agli intellettuali  del 1977, che insieme al discorso ai quadri operai aveva avanzato la provocazione coraggiosa sull’austerità: “Si tratta di percorrere via non ancora inesplorate, e cioè di inventare qualcosa di nuovo che sia, però, sotto la pelle della storia, che sia cioè maturo, necessario e quindi possibile”.

 

La testa nel futuro, ma cosciente della Storia

Una mente rigenerativa deve guardarsi da due gravi errori.

Il primo è cullarsi nel sentimento della nostalgia. Avere lo sguardo rivolto all’indietro, pensando di poter ricreare condizioni che non ci sono più. Grandi partiti nati in una società diversa. Per chi ha avuto la fortuna di vivere quella stagione, dentro grandi comunità politiche, con leadership forti ed ispirate, in cui passione e dedizione muovevano cuori e menti, è legittimo serbare un ricordo grato, che va oltre anche i giudizi critici che possono accompagnare l’esame storico di quelle vicende. Ma la nostalgia rischia di essere una lente oscurante che non fa vedere il futuro, una sorta di specchietto retrovisore. E’ una tentazione da respingere.

Il secondo errore è all’opposto quello di pensare che il passato non esista, non condizioni il presente e che la storia inizi di nuovo da noi stessi. Rifiutandosi di conseguenza di apprendere la lezione della storia, che potrebbe quanto meno aiutare a non fare gli stessi errori. Quando sento qualche nostro ministro o dirigente proferire le magiche parole “è la prima volta che…”, “non lo si era mai fatto prima” finisco per sorridere, perché sono parole che ho sentito dire tante volte nel lungo percorso di mutazione del sistema politico dalla prima alla seconda o alla terza Repubblica. L’importante sarebbe capire che anche in altri fasi della storia, anche quella recente dei nostri partiti riformisti c’era eguale passione, eguale voglia di cambiare, anche se non sempre ci sono stati risultati all’altezza.

Perciò occorre essere capaci di guardare al futuro, senza il fardello di nostalgie distorte o inutili e senza la presunzione di fare a meno della lezione del passato. Rigenerare appunto.

 

Le nostre specificità

Come affrontare una fase rigenerativa nel nostro Veneto? Partendo da due specificità di cui dobbiamo essere pienamente coscienti.IMG_3053

La prima. Abbiamo subito una sconfitta che per entità e diffusione non ha a che fare con candidati, campagne elettorali, comunicazione, ecc. Naturalmente anche questi elementi possono aver pesato ma faremmo un grave errore pensare che questi soli elementi spieghino le ragioni della sconfitta. Se si perde a Padova, a Venezia, a Rovigo e la Regione con distacco inedito vuol dire che c’è un problema strutturale che, se non affrontato, ci condannerà ad ulteriori sconfitte. Eppure anche da noi alle Europee vi era stata da parte dell’elettorato una notevolissima apertura di credito. Ma era un credito personale a Matteo Renzi. Il problema strutturale è il rapporto tra il PD veneto e la società veneta. Un rapporto troppo fragile, più fragile del rapporto che avevano i partiti fondatori del PD. E’ naturalmente passato del tempo dal 2007 e i paragoni non hanno più molto senso ma la divisione del lavoro tra Margherita e DS in particolare portava ad un rapporto più intenso con la società: un riferimento forte alla sinistra tradizionale con le sue articolazioni sociali da parte dei Ds, una presa robusta in ceti e ambienti estranei alla storia della sinistra ma interessati a disegni riformatori da parte della Margherita. Dovremmo dire che la fusione invece di rafforzare il rapporto con la società veneta l’ha indebolito. Non perché fosse sbagliato il disegno ma perché non è stato fatto il lavoro conseguente.

La seconda riguarda il tema dell’identità. Tema esistente anche a livello nazionale, per il momento coperto dalla forte leadership renziana. Nel Veneto però con una particolare accentuazione, derivante dalla sua specifica storia politica, da atteggiamenti elettorali che hanno una persistenza profonda, nonostante i mutamenti del sistema politico. Basta rileggere gli studi di Diamanti, Riccamboni, Almagisti. Una parte importante (e decisiva) dell’elettorato veneto non capisce che razza di bestia sia il nostro partito e tende a riferirlo ad un partito di sinistra tout court, diretto erede dei comunisti e perciò da non prendere neppure in considerazione. Una esclusione a priori. Per altri, ed in modo accentuato dopo il cambiamento di verso renziano, un partito che ha rinnegato valori e identità, spostandosi al centro. Una estraneità che viene superata, a parte l’episodio della penetrazione alle europee, solo con la mediazione di figure con reputazione locale che spesso conquistano comuni difficili solo sulla base di una propria capacità di leadership, sottolineando gli aspetti del civismo piuttosto che quelli dell’appartenenza identitaria al PD. Questa è una deriva destinata piuttosto ad accentuarsi se non viene contrastata. Uno dei valori nella fase fondante del PD è stata l’accettazione di un partito plurale, in cui diverse tradizioni ed identità contribuivano alla proposta complessiva e lo stare insieme era considerato una risorsa ed un arricchimento reciproco. Le tensioni del cambiamento se non vissute come impresa collettiva comportano il rischio che invece di cercare una identità nel futuro si regredisce alle identità del passato. Non essendoci una identità nuova ci si rassicura in quelle passate. Fallendo naturalmente la missione vera del PD: un partito nuovo per la società nuova. E la rissosità dei dirigenti si trasferisce alla base, con posizioni caricaturali accusatorie contrapposte di tradimento degli ideali o di nefasto conservatorismo. Portando il danno maggiore. Consolida il pregiudizio largamente diffuso nella società veneta ancor più che a livello nazionale. A molti veneti purtroppo il nostro appare un partito in eterno litigio, senza una idea chiara e aggiornata del Veneto, a cui è difficile affidarsi. Un immagine da correggere se vogliamo risalire. Perché non c’è dubbio che l’elemento prevalente delle sconfitta di Padova e Venezia è dovuta ad una divaricazione troppo forte nelle proposte. A Padova con una rappresentazione anche da parte degli alleati futuri, con risonanze dentro il partito, tutta negativa del governo di centrosinistra. A Venezia con una conduzione della campagna elettorale del candidato sindaco che lasciva prevedere una conduzione della città che lasciava estranei pezzi importanti di elettorato necessario per vincere.

 

La storia: quando si dice fiducia

Nella versione iniziale del progetto di seminario mi era stato affidato anche il compito di esplorare cosa si poteva ricavare da un esame della storia dei partiti in Veneto. Tema troppo vasto per essere qui trattato e per il quale rinvio ad un mio piccolo saggio sul tema Identità e Partiti in Veneto nel dopoguerra che sarà a breve pubblicato un volume curato dal prof. Filiberto Agostini da Franco Angeli. Mi limito a riportare tre episodi che in qualche modo possono sollecitare una riflessione per il presente, pescando nella storia dell’area politica che conosco meglio.

Il primo ci fa pensare a quanto profonda fosse la capacità di rappresentanza dei partiti e anche in una parte del territorio regionale la mancanza di alternative credibili. Siamo in una fase di cambiamento, che mette in discussione molte certezze, in quegli anni del ’68 che anche nel tranquillo Veneto portò qualche sconquasso e sommovimenti sociali, nelle Università e nel mondo del lavoro. Una parte del gruppo dirigente democristiano si sente spaesato di fronte ad un mondo che gli cambia intorno, di cui fatica a capire le ragioni profonde. Singolare il testo di un volantino che la DC di Montecchio Precalcino (Vicenza) recapita alle famiglie in occasione delle elezioni politiche 1968 (con il vicentino Mariano Rumor Segretario nazionale del partito e dopo quelle elezioni Presidente del Consiglio): “…Non pensi alle sole delusioni che ha avuto, ma le pesi con le soddisfazioni che le ha dato questo ventennio di libertà. Faccia opera di persuasione anche presso i componenti la Famiglia e gradisca il nostro più cordiale saluto ed augurio che le insoddisfazioni non ci siano più. I responsabili sono ora più afflitti di Lei che le ha ricevute, abbia fiducia e ci appoggi in questa lotta.”  Comunque per la cronaca l’elettorato comprese l’accorato appello e dette alla DC il 65,3% dei suffragi. Un altro Veneto. E un’altra credibilità della politica, se vogliamo anche un atteggiamento di umiltà che fa ascoltare le critiche del popolo. Il rapporto di fiducia consente di scontare gli errori e di rinnovare il mandato.

 

La storia: cercare di leggere i segnali

Il secondo episodio riguarda la reazione della Democrazia Cristiana, allora partito egemone in Veneto al primo affacciarsi della Liga. Nelle elezioni del 1983 la DC ha un arretramento considerevole perdendo 7 punti percentuali rispetto alle precedenti regionali, attestandosi comunque al 42,5%. Con due fatti nuovi che erodono aree di elettorato democristiano. Una brillante affermazione del PRI che raddoppia quasi i voti arrivando al 5,1%, risultato mai ripetuto e un risultato significativo della Liga Veneto con il 4,2%, ma con punte a due cifre in alcune aree della regione.

Si sarebbe anche potuto far finta di niente, perché erano elezioni andate male anche a livello nazionale con la DC scesa al 32,9%, tallonata dal PCI che superava il 29. Invece il gruppo dirigente DC prende la cosa sul serio, in particolare l’affermarsi della Liga. Insedia un gruppo di esperti guidati dal prof. Ferruccio Bresolin che produce un documento molto articolato  in cui si afferma: “i consensi alla Liga veneta rappresentano voti di appartenenza, cioè identificazione con una cultura ed una tradizione che rischiavano di soccombere di fronte alla massificazione dello sviluppo economico…non ci sentiamo di condividere l’ipotesi che il voto dato alla Liga sia un voto che esprime arretratezza; al contrario esso è espressione di una società postindustriale che si interroga sul ruolo e sul destino delle proprie aggregazioni elementari….[il recupero dei voti è possibile solo] nella logica di una domanda politica (identità culturale, autonomia) che va interpretata e soddisfatta”. Come si può vedere avevano visto giusto e c’era una piena consapevolezza culturale, con una sottolineatura del tema dell’identità come forza aggregativa. Evidentemente non ci fu la forza politica di trarne le conseguenze. Del resto l’anno prima Antonio Bisaglia, leader della DC veneta, in una famosa intervista rilasciata ad Ilvo Diamanti aveva ben descritto la necessità di un mutamento profondo dei criteri di rappresentanza territoriale e la necessità di prepararsi ad un profondo rinnovamento del sistema politico: “lo Stato ha considerato molto spesso la mia regione come un’area “isolata” ed esterna rispetto alle scelte strategiche. Ha concentrato la sua attenzione o sulle grandi aree metropolitane…o sul Mezzogiorno. Così l’area intermedia che non ha ne Milano, né Torino, né Napoli è stata sacrificata.   L’ostacolo principale è la visione centralistica che ancora prevale in Italia. Centralistica e burocratica. Se ciò fosse possibile, direi che il Veneto sarebbe pronto a partecipare ad uno Stato federale. … Ma l’Italia no non sarebbe pronta, lo Stato ne ha paura”.

Così come aveva intuito la natura non episodica del movimento leghista. In una intervista del 1983, dopo la prima affermazione della Liga in Veneto, segnata dal raggiungimento in alcune aree di tradizionale insediamento democristiano di percentuali superiori al 10% dice: “Quelli della Liga sono voti democristiani, voti persi del commerciante che si è ribellato ai registratori di cassa, della famiglia coltivatrice diretta che ha un figlio laureato ma disoccupato da anni, dal giovane che nei concorsi si è visto soffiare il posto da impiegato alle Poste da un candidato che viene dal Sud”.

Questa vicenda ci insegna che i dati elettorali vanno studiati in profondità e non in modo superficiale ed episodico, traendone conseguenze operative. Non saprei dire cosa sarebbe successo se Bisaglia, invece di morire tragicamente nel 1984, avesse acquisito una leadership nazionale cercando di dare risposta politica alle intuizioni che aveva avuto.

 

La storia: la ricerca delle risposte creative

Il terzo episodio riguarda il tentativo di una strada veneta per la costruzione della prospettiva ulivista. Entrando in conflitto anche con i vertici nazionali dei partiti. Qui rinvio al documentato libro di Andrea Colasio “Vento del Nord”. E’ il tentativo di dare una risposta innovativa ad una domanda di forte identità territoriale che si manifestava con il progredire della Lega ma anche con le suggestioni del partito dei Sindaci, espresse con molta forza da una campagna civile di Giorgio Lago, tramite il Gazzettino. In particolare l’area politica PPI e poi Margherita cerca di costruire una strada originale, presentandosi alle elezioni regionali del 2000 con una lista denominata Insieme per il Veneto che raggiunse il 13,6%, aggregando movimenti civici e superando di poco i democratici di sinistra che si attestarono al 12,3%. Operazione importante per i successivi sviluppi, perché consentì nel Veneto la costruzione dell’Ulivo con un rapporto paritario tra le due principali aree politiche Margherita e DS e con una linea di apertura ai movimenti civici.

In sintesi la lezione che possiamo apprendere è questa: importanza di un rapporto vitale con la società che vogliamo rappresentare, il popolo scusa anche gli errori se c’è il rapporto di fiducia, importanza di leggere accuratamente i movimenti elettorali e ciò che essi manifestano in profondità nel corpo sociale, creatività nell’organizzare le risposte non facendosi condizionare dalla tradizione. Se cambiano gli elettori deve cambiare anche la proposta politica.

 

Che fare, per noi, per il Veneto

Dopo questa rilevante sconfitta, con la specificità del contesto veneto, si pone naturalmente l’eterna domanda di chi vuole assumere una iniziativa politica: “Che fare?”, la stessa domanda che all’inizio del ‘900 si poneva Lenin nel suo fortunato saggio “Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento”. Domanda appropriata anche nel sottotitolo.

Che iniziativa possiamo assumere, come possiamo trovare una forma partito in un ambiente che è talvolta ostile o disinteressato a priori?

Si è molto discusso sulla forma partito, evocando diverse definizioni: partito pesante, partito leggero, partito tenda, partito nazione, ecc. Ci sono le suggestioni dei partiti aperti al civismo, le potenzialità dei partiti appoggiati ai social, qui in Veneto la tentazione ricorrente dei partiti territoriali.

Mi sembra tuttavia che più che una ricerca solida e curiosa si siano utilizzate queste diverse formule per un dibattito tutto ideologico e poco produttivo.

Invece bisogna saper produrre, a partire da due polarità che dobbiamo avere presenti.

La prima è volersi misurare con la modernità, prendendo atto della società come è fatta. Quando ho iniziato ad interessarmi di politica la politica era parte importante della vita. Era un pezzo dell’esperienza umana. Anzi nella stagione del ’68 tutto diventava politica. E lo strumento principe di chi ad un certo punto sentiva il bisogno di occuparsi della cosa pubblica era il partito. Non c’erano altre forme di partecipazione. Anche le organizzazioni sociali, a partire dal Sindacato, erano propedeutiche all’impegno nel partito, lì si andava a finire. Non a caso si parlava per la Democrazia Cristiana di collateralismo, organizzazioni sociali, cattoliche, di rappresentanza di interessi che poi facevano confluire voti e militanti nel partito, per il Partito Comunista della CGIL come cinghia di trasmissione al partito di interessi, militanza, voti. I partiti di massa finivano per svolgere anche una educazione all’avvio alla politica. Mi è capitato quando ero giovane dirigente del Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana di formare quadri dirigenti che poi, maturato l’interesse politico, diventavano quadri di altri partiti. Perché in alcune zone della provincia vi era una presenza totalizzante di strutture partecipative ecclesiali, che indirizzavano i giovani interessati alla DC. Il partito bianco diventava la porta d’entrata alla politica…

Oggi ovviamente non è più così. Sono maturate molte altre forme di partecipazione civile, su temi specifici, in cui si impegnano tante energie che in altri tempi avrebbero trovato naturale l’esperienza nei partiti che, purtroppo, hanno un indice di gradimento  che si sta avvicinando pericolosamente allo zero. Motivo non ultimo comunque della precarietà della vita istituzionale. Pretendere di applicare a questa società le vecchie forme partito, perché si è sempre fatto così, è veramente  poco lungimirante. Ed allora se riflettiamo su questi mutamenti dovremmo capire che partito leggero non significa assenza del partito, ma un partito più adatto ad una società plurale e che partito tenda non significa un luogo indifferenziato ma il tentativo di rispondere ad una domanda sociale non è più e non sarà più fatto di militanza di massa e militanza a vita.

D’altra parte però occorre tenere presente un’altra polarità che nel dibattito attuale mi sembra molto trascurata. La militanza politica è un fatto volontario, per quasi tutti. E il partito deve essere un luogo in cui ci si trova bene. In cui ci possono essere idee diverse ma si viene comunque rispettati. Per chi non ha avuto militanze politiche precedenti o anche per chi le ha avuto in partiti in cui l’organizzazione non era molto gerarchica e professionalizzata può essere semplice accettare forme nuove di militanza. Per chi era abituato ad un partito più strutturato è più difficile. Ora chi ha ambizioni di carriera e vede la militanza come promozione personale è facile che resti comunque. Chi lo vive come un fatto puramente volontario se non si sente a casa propria se ne va. Perdere militanza inutilmente è sempre sbagliato. Occorre saper cambiare portando con sé tutta la ricchezza che si ha. Convincendo più che respingendo, con la vecchie e dannosissima idea: meglio pochi ma della mia stessa idea.

Si possono trovare molte formule, ma la sostanza è una sola: il partito nuovo è più difficile da farsi di quello adatto ad una società tradizionale. Richiede più impegno e non meno impegno. Perché si tratta di costruire un luogo che appaia interessante. Non una convivenza pigra, noiosa e risaputa, ma un luogo a cui rivolgersi per essere aiutati a comprendere, per avere indicazioni da portare in altri luoghi. In cui si sia capace di far convivere passione e ragionamento. Occorre che il partito sia un luogo utile, da dove si può portare via qualcosa anche se non vi si milita in modo permanente. A cui si può dare qualcosa essendo ascoltati. Condivido quanto ha scritto recentemente Walter Veltroni sull’Unità: “Io credo nel valore dei partiti, anche nella società post-ideologica. Anzi ancora di più. Quando si allenta il vincolo ideologico che comunque costituisce un recinto dal quale è difficile uscire ed entrare, si devono rendere più forti quelli valoriali, culturali, politici…I partiti non sono piramidi che in ogni caso hanno bisogno delle fondamenta per stare in piedi. Sono fiumi, che hanno un senso perché non stanno mai fermi, perché si alimentano di acque sempre nuove, perché cambiano il mare nel quale confluiscono”.

In ogni caso la vera novità è questa: i partiti hanno perso il monopolio della rappresentanza politica. Si può essere e contare nel dibattito sulla cosa pubblica senza passare per la porta dei partiti. E’ diventato un mercato aperto. Occorre che i partiti sappiano offrire un prodotto che serve, che piace, che appare utile nella vita di una persona. Perché esistono altri canali di partecipazione politica, di protagonismi nella rappresentanza degli interessi, di testimonianze civili.

I compiti di un partito sono oggi meno invasivi del passato, ma non meno importanti. Restano fondamentalmente due: offrire una interpretazione convincente della realtà del paese ed un progetto per migliorarlo, formare e selezionare una classe dirigente offrendo la necessaria infrastruttura democratica per la partecipazione e l’accesso al governo della cosa pubblica. Né più né meno di un sostegno all’attuazione dell’art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

 

Tre filiere di generatività

La rigenerazione di un partito nasce necessariamente dalla politica e sarà perciò il prossimo congresso regionale lo strumento per definire una linea politica, a fissare obiettivi e strumenti. Purché sia un congresso appunto rigenerativo e non una semplice ridefinizione di organigrammi. Di schieramenti nelle correnti nazionali.

Dico solo qualcosa sugli strumenti necessari per la rigenerazione del partito veneto. Vedo tre pilastri su cui appoggiare una azione politica generativa. Ne abbiamo già parlato nel precedente convegno di Praglia.

Il primo ed il più importante è una lavoro in profondità per ridefinire l’identità del partito veneto. La nostra interpretazione della società veneta. Le politiche che indichiamo per costruire il futuro. Non si può essere attrattivi se ci presentiamo come un partito arlecchino. In cui coesistono linguaggi diversi ed opposti. In cui ad affermazioni di carattere generale non seguono proposte operative meditate ed approfondite. In cui ci si aggrappa più al passato che al futuro. Lo abbiamo visto anche alla campagna elettorale per le regionali. La verità scomoda ma che non dobbiamo nascondere è che dopo tanti anni di opposizione ci siamo presentati all’appuntamento dovendo improvvisare, perché un programma politico non è un elenco di politiche possibili ma una narrazione del proprio territorio, delle sue potenzialità, delle alleanze sociali, un criterio interpretativo. A maggior ragione in una epoca come questa di profondi cambiamenti che portano con sé paure, incertezze, domande di rassicurazione. La Lega lo fa in un modo, sostanzialmente la chiusura,  noi dobbiamo essere capace di farlo investendo sull’apertura, che poi è stata la caratteristica nei secoli del Veneto vincente. Noi dobbiamo offrire una narrazione più convincente, in sé logica, convincere che un’altra storia è possibile per il nostro Veneto

Lo dobbiamo fare e soprattutto lo possiamo fare. Perché ci sono rilevanti energie creative nei nostri mondi. Tantissima gente che vota per noi che nelle Università, nei luoghi associativi, nel mondo del lavoro, delle professioni, della ricerca sta pensando al Veneto del domani. Non solo nomi ben conosciuti, ma giovani ricercatori, professionisti, tecnici che avrebbero molto da insegnarci.

Bisogna crederci, investire in queste capacità, non limitarsi a chiamarli a qualche convegno per poi dimenticarsene. Farli protagonisti di una nuova narrazione del Veneto che la politica sappia poi assumere e trasformare in azione.

Partiti più leggeri, meno esclusivi, meno attrattivi. E’ la realtà. Però restano cose importanti che i partiti, come comunità di idee ed esperienze possono fare meglio di altri. La formazione è una di queste. Offrire ai cittadini ed ai propri dirigenti e militanti chiavi interpretative della realtà che vivono. Se è meno forte il fatto identitario, il cemento ideologico vale ancora di più la capacità di trasmettere saperi, far apprendere tecniche per essere attori della propria comunità. Anche in questo caso non iniziative episodiche ma un vero è propri progetto che cammina nel tempo, la convinzione dei dirigenti di vertice che il futuro si costruisce formando militanti e dirigenti, riconoscendo il merito, segnalando che dimostra di avere attitudine più spiccata. L’esperienza della Scuola Veneta di Politica dimostra che abbiamo una ricca capacità attrattiva se proponiamo percorsi culturalmente affascinanti, formatori capaci di suscitare curiosità e di aprire a nuove visioni. Sono investimenti che ritornano moltiplicati, in maggiore coesione nella visione comune, in individualità che arricchiscono le capacità di crescita del partito, di innovazione nelle istituzioni.

Abbiamo poi delle risorse latenti, che altri partiti non hanno o hanno in misura minore che devono essere sviluppate e valorizzate, estraendone tutte le potenzialità

La rete dei nostri circoli. Si sta molto deteriorando. Rispetto al periodo in cui ho fatto il Segretario Regionale al momento della fondazione del partito è una rete che si è rinsecchita, come numero, come attività, come iscritti. Perché non c’è cura. Però è una risorsa preziosa. Solo che non si può a loro stessi, senza una pianificazione dell’attività, senza fornitura di strumenti e risorsi, senza formazione: come si sta in una comunità, come si comunica, quali sono i mondi vitali in cui entrare. Occorre sviluppare un Progetto Circoli: campagne tematiche con materiali adeguati, formazione dei dirigenti, progetti culturali di animazione del territorio, utilizzo scientifico dei social, ecc., valorizzando le migliori pratiche. Altrimenti questa risorsa rapidamente scomparirà e sarebbe una grave perdita.

La rete dei nostri amministratori locali. E’ una rete ancora ricca e competitiva. Amministratori che sono capaci di vincere in territori politicamente ostili, mettendo in campo la personale reputazione, la capacità di entrare in sintonia con l’elettorato, la capacità di aggregare. I sindaci ed in genere gli amministratori sono occupati a tempo pressoché pieno a servizio del proprio territorio ed è difficile incrociare l’attività amministrativa con i tempi e i modi della vita del partito. Ma anche qui occorre sviluppare un progetto specifico per la valorizzazione di questa risorsa perché gli amministratori restano i nostri sensori più vitali nel territorio. E anche se spesso per vincere i nostri Sindaci devono sminuire la loro appartenenza politica molto ci possono dare per capire la società veneta.

 

Le nostre responsabilità, per cambiare verso

Dobbiamo essere maggiormente consapevoli che questo impegno della costruzione di un partito nuovo sta prevalentemente sulle nostre spalle, sulle spalle di chi con Renzi ha posto la sfida di una nuova politica. Chi è contro Renzi è per conservare, per ripercorrere le strade del passato. Tocca a noi essere convincenti.

E dobbiamo anche essere consapevoli che alla prova del nuovo corso per il momento siamo stati sconfitti dalla società veneta. Segreteria regionale e candidato Presidente erano espressione del nuovo corso. Non ci hanno creduto. Hanno votato per Renzi ma non per noi. Dobbiamo chiederci il perché per ripartire. In parte ho qui evidenziato alcuni motivi strutturali di fragilità. Aggiungo che qui nel Veneto c’è stata una interpretazione troppo divisiva del renzismo. Troppo tempo perso a dividere, ad escludere piuttosto che includere, a determinare gerarchie, a definire chi aveva titolo per definirsi renziano, chi poteva vantare vicinanze al vertice romano. Più che leadership costruite nel territorio attese di legittimazioni romane. Così si è in parte indebolita la forza del cambiamento. Anche perché il Veneto è una regione difficile che a Roma fanno fatica a capire. E’ sempre stato così. Ricordo più di qualche cena a Palazzo Chigi nell’appartamento di Romano Prodi per cercare di spiegargli il Veneto. Ma proprio non capiva cosa fossero queste pulsioni per il Partito del Nord, cosa volesse Cacciari, perché avevamo questa fissa del federalismo. E non capendo si finisce per pensare che il Veneto è meglio lasciarlo perdere, che non si potrà mai vincere. Perciò ripartire dalla propria legittimazione territoriale. Lo dico ai più giovani: forti a casa propria, forti a Roma, deboli a casa propria a Roma non si conta niente.

Mi auguro davvero che da Praglia nasca una nuova stagione anche per tutti coloro che vogliono un partito nuovo. In cui criterio aggregante sia un lavoro culturale e politico da fare insieme senza distinzioni e cordate di potere. Per un obiettivo  grande e necessario

Perché poi la buona politica ha sempre una dimensione collettiva. E’ un movimento di popolo o non è. E’ anche una condivisione di valori e di passioni, di visioni di vita. La buona politica ha perciò anche bisogno dell’amicizia. Vivere appunto insieme battaglie politiche che diventano battaglie di vita. Sentire che se uno di noi vince, vince tutta la squadra.

Per cambiare verso davvero occorre anche recuperare una visione solidale e amicale dell’impegno politico.

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