Una lezione di Luigi Gui per Matteo Renzi

Pubblicato il 15 dicembre 2017, da Pd e dintorni

Faccio parte di quella quota di elettori che guardano con preoccupazione alla rottura avvenuta nel PD, ben consapevoli che inevitabilmente in campagna elettorale il solco è destinato ad approfondirsi, specialmente chi è nuovo e più piccolo ha bisogno di una campagna aggressiva. E il dopo perciò sarà ancora più difficile.

E sono tra quelli che assistono con imbarazzo alle parole di entusiasmo dei dirigenti e dei tifosi dei due (almeno) schieramenti, comprensibili da parte di chi deve vendere il prodotto elettorale, ma che avvertono come parole che rischiano di essere sconfessate il giorno delle elezioni. Pazienza.

Mi rifugio perciò nella storia, da cui si può sempre imparare qualcosa. Così ho trovato un episodio che mi ha interessato. Perché è protagonista un politico padovano di rango come l’on. Luigi Gui (Capogruppo della DC e più volte Ministro) e perché contiene un insegnamento ce se fosse stato tenuto presente forse avrebbe impedito la rottura.

Luigi Gui con Amintore Fanfani ed Aldo Moro

Siamo nel 1959. Luigi Gui è capogruppo della Democrazia Cristiana alla Camera. Capo del Governo è l’on. Amintore Fanfani. Il governo attraversa una fase di difficoltà, preso di mira da “franchi tiratori” che affossano dei provvedimenti specie di politica estera, considerata da una parte della maggioranza troppo indipendente dagli Stati Uniti nelle relazioni con il Medio Oriente. Enrico Mattei stava tessendo la tela per fare dell’ENI un gigante energetico, scomodando il trust petrolifero delle maggiori compagnie angloamericane. Fanfani prende cappello, come è noto era un uomo di carattere per dire che aveva un brutto carattere, e si dimette da Presidente del Consiglio e da segretario della DC (sì, anche lui aveva le due cariche come un altro toscano che sarebbe venuto poi…).

L’on. Giorgio La Pira, grande sostenitore di Fanfani rivolge due lettere molto dure a Gui, accusandolo di non aver difeso a sufficienza Fanfani, non avendo capito fino in fondo la lungimiranza della sua visione e la qualità del suo disegno politico. La corrispondenza tra i due è di grande interesse, anche per la straordinaria attualità. Risponde infatti Gui: “Quando sulla fragile barca della maggioranza parlamentare si vollero portare i grandi carichi s’imponeva un modesto, minuto, se vuoi noioso calcolo delle proporzioni tra il contenente ed il contenuto…tra le possibilità reali…e la velocità che gli si vorrebbe imporre. Magari rinunciare ad una parte del carico e riservarla o a qualche altro viaggio o ridurre la velocità…ma la DC occorreva portarsela dietro tutta con pazienza e con convinzione e non per forza costrizione”. Mi ricorda qualcosa…

Ecco, se Renzi (che ha fatto la sua tesi di laurea su La Pira) avesse letto questo carteggio, pubblicato da Gui nelle sue memorie, probabilmente avrebbe evitato qualche errore di presunzione. Magari leggendo anche un altro passo delle lettere in cui Gui si lamentava per: “la tendenza sempre più accentuata di Fanfani ad isolarsi progressivamente entro una piccola cerchia di persone prive di mandato, le quali gli precludono la conoscenza esatta dell’ambiente parlamentare e politico, gli danno sempre ragione e finiranno per condurlo in un vicolo cieco…E’ possibile che il capogruppo della maggioranza non sia mai chiamato dal Presidente del Consiglio per ricevere notizie e per scambiarne con fiduciosa cordialità, come si conviene ad amici leali che combattono insieme la medesima battaglia? E se questo avviene con me figurati con gli altri”.

Fenomenale somiglianza, dal giglio magico aretino a quello fiorentino, sempre toscani sono. Le classi dirigenti possono cambiare, si possano rottamare, ma restano alcune costanti nella vita politica che bisogna aver presenti. Imparando. Se le si ignorano si paga il prezzo. Prima o poi.

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