Un fisco per la famiglia

Pubblicato il 1 ottobre 2010, da Relazioni

Intervento alla tavola rotonda della Festa nazionale del Partito Democratico “Lessico familiare”  Firenze 7 settembre 2010

 Il modo migliore di affrontare il tema è partire da una rappresentazione della famiglia concreta. Troppo spesso partiamo dal punto di visti dei principi o rinchiudiamo il tema in una gabbia ideologica. I principi possono servire per orientate le decisioni, l’ideologia a capire i fenomeni inquadrandoli in una visione sistemica, ma spesso ci portano a rappresentazioni distorte o a preoccuparci di nicchie sociali perdendo di vista l’insieme dei bisogni.

Le famiglie in Italia sono 23,2 milioni. Di queste 11,4 milioni, il 40% del totale sono famiglie con figli, il 26% sono nuclei familiari composti da una sola persona, il 21,3 sono coppie senza figli, l’8% sono famiglie con un solo genitore. Le famiglie con tre o più figli sono il 10,8%. Bastano questi dati per rilevare l’estrema variabilità di ciò che viene definita famiglia e quindi la diversità delle aspettative e dei bisogni.

Siamo un paese fortemente invecchiato. L’indice di vecchiaia (che misura il rapporto tra la popolazione con più di 65 anni e quella con meno di 14) è il più elevato dopo la Germania in tutta l’Europa a 27 paesi.

Siamo un paese che fa pochi figli. Il tasso di natalità si è dimezzato in quarant’anni. Il quoziente di natalità (nati per mille abitanti) è del 9,9 per mille, vale a dire anche in questo caso siamo agli ultimi posti in Europa, dopo di noi solo Austria e Germania. Il numero medi odi figli per donna in 50 anni è passato da 2,41 a 1,41, inferiore alla media europea. Si tratta però di un dato composito, formato da un dato pari a 1,26 per la donna italiana e 2,5 per la donna straniera. Senza l’apporto degli stranieri saremmo ad un quoziente di natalità ultimo in Europa.

Siamo un paese che è la primo posto in Europa nella diseguaglianza della distribuzione del reddito ed è una forbice che continua ad aprirsi: una quota limitata di popolazione possiede una quota elevata di ricchezza e i più ricchi diventano più ricchi mentre i poveri diventano relativamente più poveri. Nello stesso tempo si è bloccato l’ascensore sociale: in Italia il figlio di un operaio ha la più alta probabilità tra tutti i paesi europei di fare lo stesso mestiere del padre.

Siamo il paese che ha la peggiore combinazione fertilità/partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Siamo penultimi in Europa per la partecipazione delle donne al mercato del lavoro (45,3%) e penultimi per la fertilità, ultimi nella combinazione dei due fattori, a conferma che bassa partecipazione al lavoro extradomestico non significa maggiore disponibilità ad avere figli. Anzi. La mancanza di servizi adeguati rende più difficile il lavoro extradomestico e la mancanza di un reddito adeguato rende più problematica la scelta della maternità. Il 30% delle donne che lavorano vorrebbero poter utilizzare un nido, ma non lo possono fare per mancanza della struttura, per mancanza di posti o per costi troppo elevati.

Poter avere i figli che si desiderano

Le politiche familiari che tendono ad incentivare un incremento della natalità hanno naturalmente motivazioni diverse, ma comunque in un paese con le caratteristiche appena descritte hanno a che fare con il benessere della comunità. Per gli aspetti economici, perché senza un ringiovanimento della popolazione è difficile mantenere tassi di crescita e di innovazione adeguati. Per gli aspetti di coesione sociale perché la famiglia costituisce una comunità che rafforza il sistema delle relazioni sociali, per gli aspetti educativi e di crescita comunitaria.

Non si tratta naturalmente di immaginare politiche forzose. Sarebbe sufficiente poter consentire alle coppie di avere tutti i figli che desiderano. Attualmente sappiamo che non è così, le indagini specialistiche ci dicono che le aspettative porterebbero a una media di 2,2 figli per coppia rispetto all’1,26. I limiti sono di carattere economico principalmente, ma non solo. Reddito non sufficiente e ritardo nella vita autonoma. L’altra faccia della medaglia dei “bamboccioni” è la mancanza di alternative offerte da una scarsità ed una precarietà troppo estesa del mercato del lavoro.

Limiti anche psicologici, rispetto ad un modello proposto in cui molti altri “beni” vengono prima dei figli e alla solitudine della famiglia sovraccarica di funzioni, in un quadro di incertezza valoriale, di orientamento e di capacità educativa.

Il fisco in Italia: troppe distorsioni

Le politiche fiscali sono uno degli strumenti a disposizione per l’attuazione di politiche pro famiglia. Non le esauriscono, ma possono creare condizioni più favorevoli.

Anche in questo caso dobbiamo tener conto delle peculiarità italiane, caratterizzate da un vincolo e da lacune distorsioni.

Il vincolo è l’elevatezza del debito pubblico che rende più rigido l’uso della leva fiscale. Avendo un debito pressoché doppi di quello degli altri paesi europei delle nostre dimensioni ogni anno c’è bisogno di una cifra doppia per pagare gli interessi sul debito, cifra sottratta ad altri usi, tra cui quelli di fare politiche agevolative per la famiglia.

Le distorsioni sono note:

l’elevatezza dell’evasione fiscale, che sottrae risorse alle politiche pubbliche, anche sotto forma di possibile riduzione del carico fiscale complessivo: i leali con il fisco pagano anche per gli evasori. Vi è da osservare che l’evasione fiscale diffusa rende poi più difficile attuare politiche fiscali di incentivazione familiare, rese distorte dalla inattendibilità della discriminazione in base al reddito: evasori fiscali accedono a servizi riservati per i redditi più bassi senza averne titolo.

La concentrazione della pressione fiscale sui redditi da lavoro dipendente. Negli ultimi 30 anni il contributo del lavoro dipendente nella formazione del reddito è calato dal 66 al 53%, segno positivo di una maggiore tasso di autonomia nel lavoro, ma la quota dell’IRPEF sul lavoro dipendente è salita dal 52 al 70%.

Esistono poi squilibri orizzontali: redditi di natura diversa hanno aliquote molto differenziate. I redditi da rendite finanziarie sono tassati al 12,5%, mentre l’aliquota più bassa sul lavoro è il 23%, ed egualmente discriminata è la tassazione sui redditi d’impresa rispetti a quelli di capitale. Distorsioni anche nella tassazione dei redditi familiari, con una discriminazione a danno delle famiglie monoreddito.

Politiche fiscali pro famiglia

Per attuare politiche fiscali pro famiglia occorre superare due rigidità. La prima è oggettiva ed è il vincolo della finanza pubblica: paese fortemente indebitato a bassa crescita deve destinare una quota importante delle risorse al pagamento del debito pregresso e ha poche risorse aggiuntive per fare facili politiche redistributive.

La seconda è ideologica: spesso nel dibattito fisco/famiglia ci si innamora di modelli astratti e si finisce per non fare niente.

Direi che occorre partire da un sano pragmatismo orientato da una forte visione di giustizia sociale: fare ciò che realisticamente può essere fatto ma inserendolo in una visione complessiva e coerente che riconosca la famiglia come soggetto rilevante dell’organizzazione sociale e premi, come si fa con le imprese i comportamenti virtuosi: allevare ed educare figli è una funzione rilevante per l’economia e la coesione sociale, a prescindere da altre considerazioni di tipo etico.

Abbiamo cercato in occasione dell’ultima manovra dimostrare come dentro i vincoli dati si possa iniziare ad attuare politiche più pro famiglia. I vincoli finanziari esistono, e tuttavia i vincoli sono sempre relativi. Anzi quando esistono vincoli è il momento delle scelte politiche: a chi continuo a dare, chi non do più, a quali nuovi bisogni cerco di organizzare una risposta. Ad esempio: con una piccola norma inserita all’ultimo momento si è organizzato un bello sconto fiscale a favore del gruppo Fininvest nella vertenza Olivetti: sono 250 milioni di euro che anche per il bilancio dello stato sono una bella cifra.

Abbiamo proposto che un primo immediato gradino possa essere:

raddoppiare le detrazioni per i figli a carico e riorganizzare gli assegni al nucleo familiare tenendo maggior conto di età dei figli e numerosità del nucleo familiare;

elevare il limite per poter considerare i figli a carico. E’ fermo dal 1995 ed è evidente che in questo modo un modestissimo compenso da lavoro precario, del tutto occasionale prova la famiglia di un riconoscimento necessario;

risolvere il problema dell’incapienza, che priva proprio le famiglie a più basso reddito delle provvidenze fiscali previste.

A regime la nostra proposta è quello della “dote” assegnata ad ogni figlio di 3000 euro annui, sotto forma di sconto d’imposta per i capienti e di contributo monetario per chi non paga una imposta sufficiente a coprire lo sconto di 3000 euro, riorganizzando e rendendo universale il sistema degli incentivi fiscali e degli assegni al nucleo familiare. Naturalmente anche in questo caso si può partire in modo graduale, ad esempio dai figli fino a tre anni.

Si parla molto di quoziente familiare. Se ne parla in modo del tutto superficiale. Se il quoziente familiare alla francese fosse applicato nel sistema italiano non solo vi sarebbe un costo molto elevato (ma questo vale per tutti gli interventi che vogliono veramente riconoscere fiscalmente le spese delle famiglie per l’allevamento dei figli) ma soprattutto si creerebbe una ingiustizia, perché vi sarebbe un vantaggio molto elevato per i redditi alti, e nessun vantaggio, o addirittura uno svantaggio per quelli bassi. Infatti il meccanismo si basa su una divisione dell’imposta sulla numerosità del nucleo familiare. In questo modo sui redditi alti si passa allo scaglione più basso con un consistente risparmio di imposta. Sui redditi medio bassi non vi è alcun vantaggio essendo anche il reddito totale della famiglia allo scaglione d’imposta più basso. Ad esempio una famiglia con un reddito di 80.000 euro e cinque figli scenderebbe dal quinto al primo scaglione risparmiando 13.000 euro, rispetto ai 3.000 che oggi risparmia con il sistema delle detrazioni. Il problema è che questo meccanismo non funziona per niente per i redditi medio bassi. Un lavoratore con un reddito imponibile di 24.000 euro si sposa con un coniuge privo di reddito. Risparmierebbe con il sistema del quoziente 360 euro, ma perderebbe la detrazione per il coniuge pari a 690 euro. Se nasce un figlio è già allo scaglione più basso e non guadagna nulla, ma perde la detrazione di 673 euro. In Francia funziona meglio perché vi sono numerosissimi scaglioni di aliquota anche per i redditi bassi.

Di queste incongruenze si è reso conto anche il “Forum delle Famiglie” che ha abbandonato la proposta del quoziente familiare e ha formulato una proposta molto interessante che ha chiamato “fattore famiglia” che agisce sostanzialmente individuando una no tax area proporzionata al numero dei figli che agendo sulle aliquote più basse non genererebbe questa disparità di vantaggio a favore dei redditi più alti. Anche qui non si tratta di innamorarsi dei singoli strumenti tecnici. La finalità deve essere un pieno riconoscimento dell’onere sostenuto dalle famiglie per la crescita dei figli, secondo principi di equità e sostenibilità. Poi occorre focalizzare una serie di interventi calibrati sulle famiglie numerose, alle prese con problemi organizzativi e di costo del tutto particolari. Ma qui si tratta di una platea limitata dal punto di vista numerico e l’approntamento di politiche fiscali  più generose non avrebbero riflessi significativi sul bilancio dello stato.

Non solo fisco

L’ultimo capitolo riguarda il sistema delle tariffe e in genere dei costi delle famiglie per accedere ai servizi. Si parla molto della componente tasse, meno delle tariffe, ma per il bilancio delle famiglie come per quello delle imprese non rileva la natura giuridica delle spese, ma quanti euro escono dal reddito. Sono proprio le tariffe o i costi di funzionamento famiglia a subire gli incrementi più significativi. Se prendiamo ad esempio il bene “trasporto” che incide parecchio sul bilancio familiare vi sono stati aumenti esponenziali su costi carburanti e autostradali, assicurazioni auto e trasporto ferroviario. Oppure i costi della casa: una famiglia su tre se è in affitto spende più del 40% del reddito disponibile per poter usufruire del bene casa. Abbiamo già parlato delle spese di cura per asili nido, baby sitter, badanti.

A livello di welfare comunale si sono sperimentate forme interessanti di “quozienti” che considerino la numerosità della famiglia nel determinare il costo di accesso ai servizi. Ma resta il fatto che il taglio pesantissimo effettuato nell’ultima manovra a danno dei Comuni determinerà conseguenze molto negative per l’accesso ai servizi. Anche perché è stato effettuato senza alcun criterio di merito. Un conto è tagliare a Comuni che hanno ad esempio spese generali e per il personale superiori alla media, un conto è tagliare a comuni che hanno gestioni virtuose e “risparmiose” e che non potranno che tagliare servizi. Il taglio sulle Regioni riguardano tutte aree di intervento che finanziano spese del welfare comunali: fondo trasporti, fondo affitti, fondo sociale, fondo non autosufficienti, ecc. E’ evidente che è importante riorganizzare il sistema di accesso alle tariffe in forme pro famiglia, ma se i comuni saranno costretti dai tagli delle politiche governative ad innalzare il prezzo di accesso eventuali differenziazioni pro famiglia saranno annullate.

Ed è evidente che tutto ciò si traduce in ulteriore indebolimento di quell’altra parte di politiche che devono completare quelle fiscali: la presenza di strutture organizzative che evitino di lasciare sola la famiglia nella sua organizzazione educativa (nidi, strutture scolastiche a tempo pieno, aree verdi e di gioco, biblioteche, servizi agli anziani, ecc.), un sistema di permessi lavorativi per i due genitori che consentano, con un investimento della collettività, di potersi dedicare alle funzioni di cura, ecc.

Politiche strutturali e continue nel tempo

Concludendo: le politiche per la famiglia non hanno bisogno di spot, di slogan, di interventi frammentari e casuali. Questo è il terreno percorso dall’attuale governo. Troppo spesso ci si è limitato all’effetto annuncio, cambiando in continuazione gli istrumenti di intervento: dalla social card, al bonus famiglia. Strumenti buoni per andare sui telegiornali, ma le famiglie hanno bisogno di altro. Strumenti certi, permanenti, dotati di risorse finanziarie adeguate, per poter programmare con certezza le proprie scelte di vita. Occorre invece una politica strutturata, che agisca con continuità, toccando i diversi tasti: fisco certamente, ma anche strutture e servizi, funzioni educative, regole di tutela di paternità e maternità. Solo così si ottengono risultati significativi e si contribuisce ad orientare le scelte riproduttive della comunità nazionale.

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