Popolo e populismo

Pubblicato il 23 agosto 2018, da Politica Italiana

Ma che cos’è il populismo? All’accusa “siete dei populisti “è facile la risposta degli accusati: “Sì, e ce ne vantiamo. Noi stiamo con il popolo”. Se si sta sul generico. Il rapporto con il popolo è sostanziale alla democrazia naturalmente. Ce lo dice l’art. 1 della Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo”.

Volendo approfondire il tema posso suggerire la lettura di due volumetti: “Populismo 2.0” di Marco Revelli e “La democrazia del narcisismo” di Giovanni Orsina, che ha il merito di mettersi anche dalla parte della psicologia dell’elettore. Se poi si volesse capire la distinzione tra populismo e popolarismo suggerisco la lettura della Lectio Magistralis che ha tenuto a Pieve Tesino il prof. Paolo Pombeni su De Gasperi e il Popolo. Interessante anche l’articolo di Marco Almagisti su Left di agosto n. 31

Restando più terra terra quali sono alcuni degli elementi del populismo che lo caratterizzano e che vanno combattuti, proprio per avere un rapporto vitale con il popolo, come base di ogni regime democratico, elementi che, la storia ci insegna, hanno portato enormi sofferenze al popolo, con le grandi dittature del ‘900, nate tutte da un appello al “popolo”?

Il primo elemento è l’individuazione immediata di un nemico, da cui dipendono gran parte delle sofferenze del popolo. È l’Europa dei tecnocrati, sono i migranti, è la famiglia Benetton simbolo dell’establishment. Ci deve essere un nemico da additare all’opinione pubblica, su cui concentrare con continuità la comunicazione. Fino a che non si passa ad un nuovo nemico.

Il secondo è l’attuazione immediata di gesti che corrispondano alla punizione del nemico che è stato individuato. Non importa valutare l’efficacia nel tempo o la legittimità, perché nel frattempo saranno individuati sempre nuovi nemici. L’importante è che la “punizione” sia immediata. Che sia popolare nel senso che non disturbi le masse. Così si ferma qualche nave di migranti. È il gesto simbolico che conta. A chi interessa sapere in una comunicazione estenuata che gli unici risultati ottenuti, come registrano puntualmente le statistiche, sono quelli dovuti alla politica solida e ben fondata di Minniti? Che mentre si ferma una nave in favore di telecamera altre ne arrivano in silenzio? L’importante è mostrare i muscoli (a chi?) e far capire che la pacchia è finita. Gli alberghi a cinque stelle, le crociere, le fantomatiche provvidenze destinate ai migranti. E naturalmente siccome sono nemici è comprensibile che gli si spari. In fondo non è morto nessuno. Così si annuncia la revoca della concessione delle Autostrade. Giusta punizione a chi ha creato così gravi lutti. Non importa quello che verrà dopo, cosa si pagherà, chi gestirà, intanto bisogna dimostrare che non si guarda in faccia a nessuno.

Il terzo elemento necessario è l’attacco ad ogni sapere scientifico. Per cui ogni opinione è possibile, ogni tesi ha diritto di cittadinanza, l’ignoranza diventa una virtù. Sono un genitore e ne so più di chi dedica la vita alla ricerca scientifica, prigioniero di interessi innominabili. Il sapere diventa il simbolo del potere delle élite. Questo lo diceva già Don Lorenzo Milani, ma lui non lodava l’ignoranza, faceva la scuola per il popolo perché il popolo acquisisse questo potere… Perciò anche la legge diventa una regola facoltativa. Se ci serve bene, se no la possiamo violare. Il popolo non può aspettare i tempi della giustizia. Anzi meglio se si fa giustizia da sé, sull’onda del tribunale delle emozioni.

Il quarto è la connessione diretta di un mitico popolo con i capi. Ogni intermediazione è ancora una volta lo strumento di poteri che voglio togliere soggettività al popolo. Siano sindacati, siano associazioni di categoria, organi di rappresentanza, a partire dal parlamento, sono impicci. Il rapporto è diretto con il capo. E’ la democrazia delle emozioni. Quel che resiste dei partiti o movimenti vengono piegati al servizio di un solo capo che li gestisce a proprio piacimento.

Se vogliamo nulla di nuovo. Già Gustave Le Bon nel 1895 con il suo fondamentale saggio “Psicologia delle folle” così descriveva la caratteristica della folla: semplicità intellettuale, irritabilità, suggestionabilità, l’esagerazione dei sentimenti e l’influenza preponderante di pochi leader. E non a caso Benito Mussolini dichiarava di essersi ispirato costantemente alle riflessioni di Le Bon.

Fatto sta che ci sono dei momenti in cui al popolo piace il populismo, la sua semplificazione, la sua promessa di vendetta immediata. Vuol dire che alle spalle ci sono stagioni di fallimenti di proposte politiche, di delusioni, di giustizia negata, una molla di rancore che è venuta caricandosi, la perdita di punti di riferimento collettivi. A cui si aggiungono in questa fase storica due elementi che vengono messi in luce molto bene nel libro di Orsina:

  1. La realizzazione di una società narcisistica, oltre l’individualismo, dalle passioni tristi. Scrive Orsina; “diventa molto difficile costruire identità collettive, il cittadino narcisista è un soggetto poco adatto alla politica, perché tutta la realtà viene percepita in modo collettivo e l’unica via possibile è una coalizione dei frustrati”.
  2. L’enorme potere di influenza assunto dai social, con l’illusione di una assoluta libertà di opinione ed invece una profonda manipolazione del main stream della rete.

Possiamo dire che Renzi aveva intuito questa deriva populistica. Mentre altri a sinistra erano prigionieri di analisi ormai superate. Ha fatto l’errore però di voler curare il populismo con iniezioni di altro populismo, pensando di riuscire ad orientarlo in senso democratico: la rottamazione, l’abolizione del finanziamento pubblico alla politica, l’antiparlamentarismo cavalcato con le vicende dei vitalizi, l’attacco ai corpi intermedi, il partito del leader, ecc. Poi tutto gli si è rivoltato contro.

Il problema è che il populismo inserisce nel circuito democratico due veleni esiziali. Il primo è l’eccitazione continua alla divisione del paese, alla costruzione di una società basata su rancorose inimicizie; il secondo è il gioco continuo al rialzo, sempre nuove promesse di risultati decisivi, con una torsione autoritaria come giustificazione necessaria per ottenere risultati immediati.

C’è molto da fare perciò. Bisogna essere consapevoli della frattura radicale che si è realizzata. Non c’è alcuna continuità, a differenza del passato. Perché in fondo Berlusconi aspirava ad essere un anticomunista recuperando a suo modo la Democrazia Cristiana, l’Ulivo e poi il PD si consideravano eredi della migliore storia del progressismo novecentesco.

Qui, in Italia e nel mondo, il populismo è radicale rottura con il passato immediato. Quello immediato, perché ha molti riferimenti in un passato più remoto, quello che ha dato origine a sanguinose dittature. Bisogna esserne consapevoli. Al di là della volontà dei protagonisti i flussi della storia hanno una loro forza.

Per questo mi stupisce la pochezza della reazione. Non solo del PD. Troppo comodo prendersela solo con il PD. C’è tutto un mondo di forze sociali, intellettuali, di rappresentanza di interessi e anche di altre forze politiche che appaiono stordite e silenziose. E’ già capitato, e gli esiti sono stati nefasti.

Lottiamo contro il populismo, puntando al popolarismo. Il populismo agisce sui timori, il popolarismo sui valori; il populismo cerca un colpevole, il popolarismo una soluzione. Il populismo ricerca il voto, il popolarismo il consenso.

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1 commento

  1. Antonio
    21 agosto 2020

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    NOI E BRUXELLES25 agosto 2018 – 10:11
    I populisti senza più complessi
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    di Federico Fubini

    Quando tre anni fa gli elettori in Polonia affidarono ai nazional-populisti di Legge e giustizia la maggioranza più netta mai vista dal 1989, Adam Michnik commentò: «A volte una bella donna perde la testa e va a letto con un bastardo». Da giovane Michnik aveva affrontato le carceri del regime, pur di conservare viva per la società polacca la speranza di un futuro europeo e di una società aperta. Invece quella, una volta libera, si era buttata fra le braccia di un provinciale bigotto, aggressivo e strafottente. Oltretutto non per un’avventura passeggera, ma per lo meno per una lunga convivenza. Tutto questo con l’Italia non ha niente a che fare, non fosse che Michnik e le tradizionali élite europeiste del nostro Paese oggi sembrano accomunate da un’ironia della storia. Si sentono vittime di un intoppo lungo una strada che pensavano già segnata e senza alternative. In fondo va sempre così. I sovrani tedeschi nel 1791 si riunirono nel castello di Pillnitz in Prussia, racconta Tocqueville, e determinarono che la rivoluzione francese era «un incidente locale e passeggero». E quando i bolscevichi presero il potere nel 1917, milioni di russi bianchi si trasferirono all’estero ma evitarono per anni di disfare le valigie. Contavano che le politiche economiche del leninismo avrebbero presto fatto crollare il nuovo regime e loro sarebbero tornati a casa.

    Anche le valigie di molti esponenti del mondo che ha governato l’Italia nell’ultimo quarto di secolo restano pronte in un angolo della loro mente. Quelli aspettano solo che l’infatuazione degli italiani per il «bastardo», il governo giallo-verde, passi non appena quest’ultimo si sarà preso qualche multa di troppo a Bruxelles o sui mercati per guida in stato di ebrezza. Tutto può essere. Può essere anche che le ammende si accumulino ma l’infatuazione degli italiani per il governo populista si trasformi in rapporto stabile, mentre le valigie degli europeisti, emotivamente in esilio dal loro Paese, restano chiuse a coprirsi di polvere.

    Se esiste un’analogia oggi fra Polonia, Ungheria e Italia, i Paesi dell’Unione Europea a guida nazionalista e euroscettica, è nell’inanità delle opposizioni. Di comune queste forze europeiste e liberali hanno il rifiuto di chiedersi perché i connazionali gli abbiano voltato le spalle per affidarsi a leader ai loro occhi tanto smargiassi, poco istruiti e invisi ai grandi media esteri che quegli esponenti del vecchio establishment leggono ogni mattino. Credevano di guidare il proprio Paese verso un futuro migliore e non capiscono come sia possibile che il Paese non li voglia più. Eppure non dovrebbe essere difficile, se solo si voltassero un attimo indietro. Almeno dal Trattato di Maastricht nel 1991 il loro messaggio agli italiani è stato che dovevano cambiare e migliorarsi, diventare più simili alle stesse élite istruite. Dovevano sforzarsi di assomigliare ai tedeschi o agli altri europei di successo e buone maniere. Questo naturalmente aveva alle spalle (e conserva) una solida logica economica e istituzionale, però le élite europeiste nelle loro certezze non hanno mai perso tempo a valutare il retroterra su cui innestavano questa continua pressione psicologica sui loro connazionali. Nella società italiana, anche nei momenti di successo, il senso doloroso di rappresentare un’anomalia in Europa è sempre serpeggiato appena sotto la superficie. Anche quando non è un complesso di inferiorità — che le élite europeiste per prime avvertono — è un sentirsi non proprio come gli altri. Naturalmente la storia non si cancella con un tratto di penna, neanche se è una firma su un trattato europeo. Non in un Paese arrivato tardi all’unificazione, alla modernità industriale, alla piena democrazia e tolleranza, e tardi e male a un’idea di Stato efficiente e laico.

    La speranza era che proprio l’Europa aiutasse a recuperare il distacco e in gran parte è andata così. Appartenere alla Ue ha enormemente accelerato la modernizzazione, poi però sono accadute alcune cose. La più evidente è che la promessa di prosperità o almeno di normalità offerta dall’euro non è stata mantenuta. Poco importa che ciò sia accaduto, in buona parte, perché i politici e il sistema produttivo non hanno avuto il coraggio e la lungimiranza di prepararsi davvero all’unione monetaria, in modo da sfruttarne meglio i vantaggi e contenerne gli svantaggi. Dal 1980 al 1998 il valore della lira espresso in marchi tedeschi è più che dimezzato e ciò stesso dimostra quanto lavoro scomodo si sarebbe dovuto fare per adeguare davvero il Paese all’euro in questi vent’anni.

    Gli italiani hanno capito soprattutto la sostanza, cioè che quella promessa europea è stata disattesa. Come Nino Manfredi in «Pane e cioccolata», hanno scoperto che non bastava camuffarsi da nordici per diventare davvero tali. Negli ultimi anni hanno anche visto che alcune delle richieste di sacrifici più dolorose arrivate dal Nord Europa non erano nel loro vero interesse o nell’interesse dell’equilibrio generale europeo. Piuttosto, riflettevano una percezione tedesca dell’interesse europeo o magari solo una sete di consenso interno del governo di Berlino. Questa pressione per somigliare alla Germania ha finito così per produrre reazioni ambivalenti. Rivelava nella nazione leader un fastidioso innamoramento di se stessa e finiva per aggravare il complesso di inferiorità nei seguaci italiani, dato che le distanze aumentavano anziché ridursi. Un modello distante e irraggiungibile crea solo frustrazione. Peggio, gli italiani vedono che i membri delle élite europeiste che spingevano in quel senso, per qualche ragione, cascano sempre in piedi; non condividono mai il destino di penuria e insicurezza del loro popolo.

    Matteo Salvini e Luigi Di Maio entrano in scena a questo punto. Non hanno studiato molto, non pretendono di sapere, si vantano del loro passato di lavoretti o della «panzetta» perché, dice Salvini, «non vado in palestra e se vedo un cornetto alla crema me lo magno». Hanno risposte sbagliate, ma domande giuste (disoccupazione, disuguaglianza…). Perfetti nella loro ostentata medietà, liberi da complessi e dal desiderio di piacere in Europa, i due sollevano l’elettore dal senso di inferiorità di doversi adattare a un modello superiore. I nuovi potenti hanno convinto gli italiani che sono liberi; vanno bene così, nei loro limiti, e più niente è atteso da loro. È un’illusione, purtroppo, perché l’Italia resta una società iniqua, familista e bloccata, la demografia in drammatico declino, l’emigrazione dei giovani un’emorragia e soffocanti interessi sul debito più alti della crescita. L’Italia non va bene com’è. Ma abbracciare la propria anomalia senza sentirsi giudicati, per ora, è una tremenda vendetta.

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